L’Angelo custode
I
Nel Ciad, al confine con la Libia si trova il
villaggio di Omou. Esso sorge entro un catino sabbioso, all’interno di un
altopiano di rocce a scaglie sovrapposte. Le alture rocciose sono molto
tormentate e presentano fratture, canyon e valloncelli di tutti i tipi, grazie
ai quali esiste, in quei luoghi, un po’ di vita vegetale: arbusti di giuggiolo
selvatico, pistacchio, acacia spinosa, graminacee, palme dattilifere e piante
grasse.
Le rocce proteggono le piante dai venti caldi,
secchi e sabbiosi del nord (harmattan), ma non dalle siccità periodiche
e dalla piaga delle locuste che rendono impossibile ogni attività agricola. Per
questo gli abitanti di Omou si dedicano esclusivamente all’allevamento di capre
e pecore che portano a brucare tra gli anfratti rocciosi.
Gouglja e Itmo vivevano in questo villaggio a fine
anni Novanta; poveri tra i poveri, conducevano una vita di stenti e la loro
capanna, di frasche e fasci d’erba essiccata, non si distingueva dalle altre,
posizionate attorno ad un basso edificio di mattoni che ospitava la missione
cattolica.
Le suore italiane e francesi, che si alternavano
annualmente, oltre a cercare di insegnare a leggere e a scrivere ai bambini,
gestivano un’infermeria, ben fornita di medicinali, che costituiva l’unico
presidio sanitario della zona. Erano state le suore italiane a fare venire dal
loro paese, un paio di anni prima, degli esperti che avevano trivellato il
terreno fino a trovare l’acqua, oltre cento metri di profondità. Da allora, grazie
a una pompa idraulica manuale, nessuno aveva più sofferto la sete a Omou.
Durante i lavori del pozzo, Itmo aveva fatto
amicizia con i tecnici stranieri, ai quali aveva venduto la carne dei suoi
teneri capretti. Il capo del gruppo era un geologo molto curioso che, quasi
ogni mattina, voleva essere accompagnato da Itmo nelle sue escursioni per le
balze e le grotte della zona; questa quotidiana frequentazione aveva fatto
nascere un sentimento d’affetto tra lo studioso e il capraio, tanto che, quando
arrivò il giorno della partenza, lo scienziato diede alla sua giovane guida un
biglietto da visita, dicendogli in un francese bastardo: «Se dovessi venire in
Italia, potrai cercarmi a questo indirizzo».
«Mi troveresti un lavoro?» gli chiese Itmo che
conosceva il francese, come tutti i suoi compatrioti, a causa della
colonizzazione subita.
«Ma certo!» lo rassicurò il tecnico, dandogli delle
pacche espansive sulle spalle. «A Cremona il lavoro non manca».
Quel biglietto e le parole dell’italiano entrarono
prepotentemente nella vita di Gouglja e Itmo.
Erano giovani e ardimentosi, insieme non arrivavano a quarant’anni, e si
sentivano pronti ad affrontare pericoli e fatiche pur di dare una svolta alla
loro misera vita.
Bastava un nonnulla per accendere, soprattutto la
sera nella capanna semibuia, i loro discorsi sull’Italia con le sue meraviglie
e il benessere al quale avrebbero compartecipato.
«Ancora ugali?» si lamentava Itmo, davanti al piatto
serale. Lo chiedeva pur essendo consapevole dell’inutilità della domanda: non
c’era altro da cucinare in quella casa.
Lo diceva per provocare la moglie e tenere vivo il
loro progetto di espatrio. E Gouglja che non aspettava altro, coglieva subito
l’occasione.
«In Italia non ne mangerai più di questa roba» gli
diceva. «Lì ci sono gli spaghetti».
«L’amico Carlo me li ha fatti assaggiare» assentiva
l’uomo. «Erano buoni; bisogna mettervi molta salsa, però».
«In Italia potremo permettercelo, lì i pomodori non
mancano».
«Ho sentito dire che assumono senza limiti, per
raccoglierli».
«Io preferirei lavorare in fabbrica».
«Magari dove fanno le auto».
«Oppure le lavatrici».
In questi discorsi l’anziana madre di Gouglja, che
viveva con loro, non metteva lingua, anche se la rattristavano, perché sapeva
che non avrebbe più rivisto la figlia se fossero partiti. «Sono troppo vecchia,
la morte arriverà prima che ritornino» si compiangeva, e le uscivano le lagrime
dagli occhi quando soggiungeva: «Non mi vogliono bene! Parlano come se io non
ci fossi».
Ma ciò non era vero! Anche se la partenza era
divenuta la loro ossessione, i due giovani non si decidevano proprio per pietà
della vecchia madre, accontentandosi di sognare l’Italia.
A fare questo sogno non erano i soli nel paese;
tanti giovani erano già partiti e tanti si proponevano di farlo, anche se le
notizie che arrivavano negli ultimi tempi parlavano di molti, troppi, morti nel
deserto, nelle prigioni libiche, in mare.
Ma ogni giovane, simile in questo ai coetanei di
tutto il mondo, escludeva che una cosa simile potesse accadere a lui – toccava
sempre agli altri morire! – Piuttosto preoccupavano le difficoltà di trovare
una sistemazione remunerativa dopo l’arrivo in Europa.
Quando si parlava di ciò tra amici e conoscenti,
Gouglja e suo marito si guardavano complici, scambiandosi un sorriso rassicurante:
loro non avrebbero avuto questo problema, grazie al geologo Carlo Rossi. Su
questo punto erano stati rassicurati anche dalle suore che, confermando le loro
attese, avevano detto: «Il prof. Carlo Rossi è molto conosciuto nel suo paese,
e sicuramente saprà aiutarvi».
Era questo vantaggio a mettere fretta a Itmo. Temeva
che, passando troppo tempo, il professore si potesse dimenticare di lui, oppure
che potesse andare a vivere in un’altra città, oppure…
La decisione fu presa nell’ultimo febbraio del secolo,
quando Gouglja ebbe la certezza di essere incinta.
«Mio figlio deve nascere in Italia» disse Itmo con
determinazione, quando lo seppe.
Gouglja per un po’ continuò ad avere qualche
incertezza, ma ci furono delle congiunture che fecero decidere anche lei: altri
quattro giovani erano pronti a partire con loro, e stare in gruppo la
rassicurava; una cugina si era offerta di badare alla madre, e, cosa più
importante, la madre stessa si era messa a sollecitarli affinché realizzassero
il loro progetto senza preoccuparsi di lei.
La vecchia donna aveva fatto un sogno rivelatore: le
era apparso lo spirito del marito, morto quattro anni prima, rassicurandola
sulla riuscita del viaggio che i ragazzi si accingevano a fare e annunciandole
il ritorno della figlia con un’auto per portare pure lei in Italia.
«Saresti contenta di andare a finire i tuoi giorni
in Italia?» le chiese la figlia, dopo aver appreso di questa predizione
onirica.
«Tutti i posti sono buoni per morire!» affermò
serena la vecchia.
«Anche l’Italia?»
«Un posto vale l’altro» aveva confermato la madre,
ma nel suo cuore sapeva che sarebbe morta prima del ritorno della figlia.
Anche il genero si stranì dell’incoraggiamento dato
dalla suocera, ma non volle approfondire la questione; quel tanto gli bastò per
organizzare la partenza.
II
«Tocca a te scendere giù!» gli disse l’arcangelo
Hesediel, suo maestro.
Era una grande notizia per Omael, aspirante
angelo-custode, che esultò.
«Finalmente!»
«Ti senti pronto?»
«Preparatissimo!» affermò con sicurezza, come un
soldato.
«Sei stato un bravo allievo in tutto questo tempo»
lo elogiò il maestro.
«Usando il calendario terrestre, sono passati due
secoli» precisò l’angelo.
«Hai tenuto il conto?» si meravigliò l’arcangelo.
«Non perché me la sia passata male quassù…»
«Ci mancherebbe!»
«…ma perché mi piacciono i numeri».
«Io non ci vado matto» confidò Hesediel. «Preferisco
il canto e l’arte dei colori».
«Penso», disse l’angelo, «che sarei potuto diventare
un grande matematico se fossi rimasto più a lungo col mio corpo».
«Ne sono certo!» affermò il capo per cortesia.
«Ho vissuto umanamente troppo poco» disse sconsolato
Omael. E poi aggiunse: «Neanche il tempo d’imparare a leggere e a scrivere».
«Non dovresti ricordare queste cose della vita
passata!» fece il maestro perplesso.
«Difatti non ricordo nulla».
«Ma…»
«Erano solo delle congetture, intuizioni».
«Stavo quasi per trattenerti» confessò l’arcangelo.
«Lo sai che non si può fare l’angelo custode se si ricorda la precedente vita
umana».
«Lo so bene».
«Per questo motivo solo gli spiriti che vi hanno
risieduto poco tempo possono ritornare sulla terra a svolgere questo compito».
«Solo le anime dei bambini possono fare i custodi
dei nuovi nati» affermò Omael, da scolaro preparato qual era.
«Appunto!»
«È stata la tua prima lezione».
«Appunto!»
«Non si può scordare».
«Mi fa piacere» disse compiaciuto Hesediel.
«Stai tranquillo, sarò un bravo angelo custode».
«Lo spero bene».
«Ancora non è arrivato il momento?» domandò
l’allievo.
Si vedeva che era agitato; per l’emozione sbatteva le
piccole alette trasparenti senza che ce ne fosse bisogno: lì, nell’etere privo
di materia, le ali non servivano, perché ci si spostava con la forza del
pensiero. Le ali di apina gli sarebbero tornate utili nell’atmosfera terrestre.
Il maestro sorrise alla frenesia dell’angioletto e
decise di rompere gli indugi.
«Spostiamoci in America» disse.
«È lì che dovrò scendere?»
«Sì».
«E quale sarà il nome del mio protetto?»
«Margareth».
L’angelo non seppe dissimulare la sua delusione.
«Una bambina!»
«Cosa c’è che non va in una bambina?»
«Nulla. Solo avrei preferito una missione più
movimentata».
«Guarda che oggigiorno, uomo e donna, pari sono!»
«Non lo metto in dubbio, ma avrei preferito lo
stesso un maschietto».
L’arcangelo Hesediel, che era buono come si addice
alla sua natura celestiale, si dispiacque nel vedere partire il suo allievo con
diminuito entusiasmo, anche perché la scarsa determinazione avrebbe potuto
indurlo a un impegno superficiale nel lavoro che lo attendeva. Così un po’ per
accontentarlo, un po’ per evitare un fallimento della missione, guardò giù,
sulla terra, alla ricerca di un’eventuale alternativa.
Proprio
allora si trovavano sul Mediterraneo, spumeggiante, a causa di un forte
scirocco, come acqua saponata in una tinozza di lavandaia. L’Arcangelo passò al
setaccio tutte le terre emerse, dalla Grecia alle Baleari, alla ricerca di un
nascituro al quale non fosse stato ancora assegnato un custode. Ma sia sul
versante europeo sia in quello africano tutte le nascite del futuro prossimo
erano coperte.
«I tempi sono cambiati, caro mio» commentò
amaramente il maestro. «In passato gli angeli-custodi quasi non riuscivano a
soddisfare le nascite, adesso, invece, sono in soprannumero».
Stava per aggiungere che si doveva rassegnare ad
andare in America, da Margareth, quando notò un punto scuro tra due creste
schiumose, come pupilla in un occhio d’acqua.
«Là!» disse il maestro, indicando il posto col suo
dito diafano. «Su quell’imbarcazione».
«È in corso una nascita» confermò Omael, tutto
contento.
«Vai!» ordinò
il capo, mentre la palpebra marina copriva la pupilla.
L’onda si abbatté sul natante come una cascata e
scaraventò fuori bordo la maggioranza degli occupanti. Dopo aver colpito come
una mazzata, l’acqua tumultuosa ebbe un momento di risetto e l’angioletto,
arrivando, poté rendersi conto della situazione drammatica che gli stava
difronte: molte persone erano scomparse fra i flutti; chi, sapendo nuotare
bene, era ancora a galla, cercava di riaccostarsi alla barca, chiedendo
disperatamente aiuto ai pochi rimasti sul natante, ma costoro non potevano
soccorrere quelli che stavano annegando, occupati com’erano a svuotare lo scafo
dall’acqua che si era riversata dentro semi affondandolo; intanto sulla tavola
all’angolo delle murate una creatura finiva di uscire dall’utero, senza che
nessuno se ne curasse.
Non sapendo quale delle emergenze affrontare prima,
Omael alzò gli occhi, là ove credeva si trovasse ancora il maestro, ma non vide
nessuno. La decisione spettava a lui. Egli fece ciò che gli dettò il cuore di
angelo custode: risolvette di aiutare, fra tutti, il neonato.
La partoriente era spossata e sarebbe rotolata in
mare, se il marito, prima di essere trascinato via dall’onda assassina, non
l’avesse legata al dritto di prua. Pur essendo semincosciente, la donna teneva,
istintivamente le gambe piegate in modo da costituire una barriera che
impedisse al neonato di scivolare nella sentina stracolma d’acqua.
L’angelo, essendo puro spirito, materialmente non
poteva fare nulla, ma suggerì alla mente confusa della madre quelle operazioni
che potessero salvare il bambino. Sollecitata telepaticamente, la donna tagliò
con i denti il cordone ombelicale, si tolse un grande fazzoletto che le cingeva
i fianchi e vi avvolse il piccolo in modo da formare un fagottino, legando
insieme i quattro angoli della stoffa.
Nel frattempo le onde ribollenti si erano di nuovo
rialzate, creando un muro che minacciava da poppa l’imbarcazione. Fu chiaro a
tutti che nel momento in cui quella massa d’acqua si fosse abbattuta in avanti,
sarebbe stata la fine.
Lo capì anche l’angelo che sollecitò la puerpera ad
adoperarsi per la salvezza del piccolo essere che piangeva tra le sue cosce: la
donna si liberò della cintura di corda, che la legava alla punta sporgente del
dritto di prua, e la usò per assicurare il fagottino di stoffa al legno.
L’onda gigantesca, che incombeva sulla barca, esitò
un attimo, come per dare tempo alla madre di compiere il suo lavoro, e poi si
arrotolò su se stessa, rovesciandosi, possente e densa, su quelle tavole già in
parte sconnesse, spezzandole in mille pezzi.
III
Nella notte il vento cessò di colpo e la motovedetta
della Capitaneria di Lampedusa uscì in mare che era ancora buio, andava a
perlustrare un settore a settanta miglia dall’isola dove il sistema radar VTS
aveva segnalato la presenza di un’imbarcazione.
Il guardiamarina Pigiatore, appena fuori dal porto
alzò la manetta e la lancia raggiunse ben presto la sua massima velocità di
trentotto nodi. L’imbarcazione leggera, di vetroresina, rimbalzava da onda in
onda, dando l’impressione di volare e i due assistenti sistemati nel sedile
posteriore si dovevano tenere ben stretti al passamano metallico per non essere
sbalzati fuori bordo.
La corsa durò più di un’ora e albeggiava già, quando
il sottocapo Aletta, che per tutto il viaggio non aveva perso di vista il
rilevatore GPS, gridò: «latitudine 34.582210861043 e longitudine
12.060083085937».
Erano arrivati, e il graduato al timone diminuì
sensibilmente la velocità, mentre il terzo militare, un giovane volontario,
spegneva il potente faro con il quale aveva sciabolato il buio della notte.
Alla luce livida e fredda che scalzava la notte, i
guardiacoste videro i rottami della barca, che il gioco delle onde aveva
ammucchiato in una lunga teoria a mezzaluna.
Con il motore al minimo costeggiarono il materiale
galleggiante, legni, bottiglie di plastica, sandali spaiate, qualche
bambolotto.
«Niente cadaveri!» si meravigliò il più giovane dei
militari.
«Li troveremo più a sud» spiegò il capo. «È una
questione di correnti e di…»
«Zitti!» disse il sottocapo Aletta.
«Che c’è?» chiese il guardiamarina, infastidito per
l’interruzione.
«Mi è sembrato di aver sentito un vagito».
«Avrai strasentito!»
Stava per ammettere: «Probabilmente…hai ragione», ma
si trattenne e si corresse: «L’ho sentito di nuovo!»
«È impossibile che ci possa essere un bimbo tra
questi rottami» affermò il capo pattuglia.
«Da che parte proviene questo presunto pianto?»
chiese, per curiosità, il militare giovane.
«Di là!» fece con sicurezza il più anziano.
Il punto indicato si trovava al centro della falce,
dove i rottami occupavano una superfice più vasta ed erano stranamente
affastellati attorno a un pezzo di prua, galleggiante come un guscio d’uovo,
quasi a impedire che non si capovolgesse.
«Solo per scrupolo, andremo a dare un’occhiata»
disse il sottoufficiale al timone.
La barca, adesso adagiata interamente sulla
superfice marina, procedette pigramente verso la tazza di legno, tagliando in
due la falce che il movimento del mare aveva realizzato, mettendo assieme ogni
cosa fosse tornata a galla dopo il naufragio.
Giunti a un paio di metri di distanza anche gli
altri due militari sentirono un vagito lamentoso e fioco, proveniente dal
guscio di legno sospeso su gli abissi marini.
IV
«Se non era per te, sarei rimasta a morire di
fame e di sete» affermò con convinzione
la ragazza.
«Lo puoi ben dire!» confermò l’uomo anziano.
«Continua, zio Maurizio» lo invitò la fanciulla.
Il sottocapo in pensione cercò di scansare la
richiesta: «Te l’ho raccontata mille volte, questa storia».
Ma la giovane insistette: «Mi piace risentirla!»
Erano nel
parlatorio dell’orfanotrofio Bambinello
Gesù di Trapani, dove Maurizio Aletta si era recato per la visita
domenicale alla bambina che aveva salvato quindici anni prima. Egli era
fermamente convinto che in quell’alba marzolina fosse avvenuto un miracolo in
quelle acque. Solo così riusciva a spiegarsi di aver sentito quel flebile
gemito, tra lo sciabordio dell’acqua contro le fiancate della lancia, mentre i
suoi due colleghi, che avevano orecchie più buone delle sue, lo sentirono solo
a pochi metri dal relitto. Anche il fatto che la neonata fosse ancora in vita,
era – secondo lui – la conferma dell’evento miracoloso.
«Dai, zio, racconta!» insistette la ragazza, a mani
giunte.
«E va bene!» cedette l’uomo. «Presi l’asta con
l’uncino, agganciai il rottame e lo tirai verso di noi, ormai il lamento si
sentiva distintamente, ma per quanto ci sforzassimo, non ti vedevamo là in fondo
al catino, vuoi perché c’era poca luce, vuoi perché eri completamente coperta
dal pareo. Allora il militare Bastiano Corposano si penzolò a testa in giù,
mentre io lo tenevo dalla cinghia dei pantaloni, riuscendo ad afferrare il
fardello e a tirarlo a bordo. Il capo lo prese subito in consegna e sciolse i
nodi del drappo».
«Dovevo essere malconcia» interloquì la ragazza.
«Da fare venire il panico» convenne l’uomo. «Eri
ghiacciata, cianotica e afflosciata. Subito il comandante lanciò il battello a
tutta manetta e via verso Pantelleria».
«Perché Pantelleria?»
«Perché era l’isola più vicina con un reparto di
pediatria nell’ospedale».
«Parlami dei giornalisti» propose la ragazza.
«La notizia del miracoloso salvataggio fece ben
presto il giro del mondo, e Trapani, dove nel frattempo eri stata trasferita
per usufruire dell’incubatrice, fu invasa da inviati e troupe televisive».
«Sembra una favola!» sospirò la giovane.
«Per certi versi lo è: la tua foto pubblicata
dappertutto, io e i miei colleghi intervistati di continuo. Adriano Pigiatore
promosso tenente e trasferito nell’importante base di Augusta…»
«Mi telefona spesso».
«…il militare volontario è divenuto effettivo ed io
ho avuto una bella medaglia».
«Un finale lieto per tutti», disse con malinconia la
ragazza, «eccetto per la protagonista principale».
«Non dire così!» la pregò il vecchio. «Essere in
vita è un buon finale anche per te».
«Vivere felicemente sarebbe stato un buon finale»
rettificò la ragazza.
«Tu non lo sei?»
«Felice?»
«Si, felice».
«Restare drammaticamente orfana e crescere in un
istituto religioso non sono il massimo per una ragazza».
«Ne convengo!» fece l’uomo.
«Aggiungi, nel mio caso, che tra quelle onde ho
perso anche la mia identità: non so da quale paese provenivano i miei genitori,
porto un nome inventato che neanche mi piace tanto. Chiamare me, africana nera,
Caterina Rossi, significa non avere avuto alcuna considerazione nei miei
confronti».
«Hai ragione».
«Un nome simile l’avrei potuto accettare se fossi
stata adottata. Invece neanche questo è accaduto, sebbene mezza Italia si fosse
dichiarata disponibile ad accogliermi».
«Tutta colpa della burocrazia. Prima di dichiararti
adottabile, il giudice tutelare ha dovuto espletare una complicata indagine
alla ricerca di eventuali parenti che potessero avere cura di te…»
«Nel frattempo sono stata messa in orfanotrofio – la
conosco la storia – e finito il clamore sul mio ritrovamento, tutti si sono
scordati di me, lasciandomi qui, in istituto».
«Tu hai mille ragioni per essere avvilita e sfiduciata,
ma…»
«Non mi parlare di felicità però!» interruppe la
giovane.
«Eppure, secondo me, si può essere lo stesso
felice», affermò testardamente Maurizio Aletta, «perché la felicità è,
essenzialmente, una virtù, un abito interiore».
«Che vuoi dire?»
«Possiamo sentirci felici, a prescindere da ciò che
ci succede».
«Impossibile!» dissentì la ragazza. «Come fai a
essere felice mentre hai un lutto o ti picchiano o ti disprezzano?»
«In quei momenti no, ma in generale si può essere
felici, anche se si è stati particolarmente sfortunati nella vita».
«Non vedo come».
«Sopportando con pazienza il presente e sperando nel
futuro».
«E se il futuro lo vedi più fosco del presente?»
«Se c’è fede c’è speranza, magari nell’aldilà, ma
c’è».
«Tu hai molta fede?»
«Sì, soprattutto dopo che ho visto in vita una
neonata, inzuppata d’acqua fredda, senza mangiare e senza bere da otto ore …
dentro la prua di una patera completamente sfasciata».
«Anche tu credi nel miracolo?»
«Chi altri lo credono?»
«Suor Serafina, anzi lei crede di sapere chi sia
stato l’autore».
«Sarebbe…»
«La mia tutrice».
V
«Suor Serafina ha perfettamente ragione!» affermò
l’angelo custode, svolazzando attorno al divano, dov’erano seduti Maurizio
Aletta e la giovane Caterina Rossi.
Peccato che nessuno dei due lo sentisse, perché
avrebbe potuto spiegare tanti particolari sulla sopravvivenza della piccola in
mezzo al mare agitato, e sul suo salvataggio. Il miracolo c’era stato, e
l’aveva compiuto Gouglja, la madre della bambina, sotto la guida dell’angelo.
Quando il cavallone si era riversato sulla barca, la
donna aveva protetto la bambina con il suo corpo, poi, sollecitata da una voce
interna, aveva ammucchiato più rottami possibili attorno al moncone di legno
che conteneva la sua creatura. Questa
operazione, compiuta in acqua, fu un lavoro immane per la donna, già stremata
dal parto, tanto che a un certo punto si lasciò rapire da Plutone senza opporre
resistenza.
Gouglja aveva potuto essere il braccio operativo
dell’angelo, perché, molto sensitiva, percepiva chiaramente i comandi e li
eseguiva senza esitazione.
Più difficile era stato per l’angelo farsi ascoltare
dall’equipaggio della capitaneria di porto. Il sottoufficiale e il militare
semplice erano del tutto refrattari ai suoi messaggi telepatici, invece il
sottocapo Aletta percepiva qualcosa, anche se in modo confuso e disturbato. Non
potendo fare arrivare a nessuno dei tre un messaggio intelligibile, l’angelo
custode trasmise alla mente della guardia più predisposta un suono simile al
pianto di un neonato.
Una trovata geniale, della quale l’angelo era
orgoglioso, ma non poteva vantarsene, come avrebbe voluto, con i due umani che
aveva accanto: non erano abbastanza sensitivi da permettere una comunicazione
telepatica, l’unica possibile per lui.
La mancanza di qualità metapsichiche in Caterina gli
aveva reso più difficile svolgere i suoi compiti di angelo custode: illuminare,
custodire, reggere e governare la creatura che gli era stata affidata dalla
pietà celeste.
Dal canto suo Caterina, col suo comportamento
ostinato e imprevedibile, aveva messo del suo nel complicargli il lavoro. La
colpa di questo carattere capriccioso della ragazza, Omael la dava alle persone
che l’avevano cresciuta – suore, insegnanti, assistenti sociosanitari – che,
per non fare la figura delle arcigne o sospinte dalla pietà, preferirono, fin
dai primi giorni che l’ebbero in consegna, viziarla piuttosto che
rimproverarla. La conseguenza di questa educazione troppo indulgente aveva
fatto in modo che la bambina sviluppasse negli anni un carattere capriccioso,
imprevedibile, ostinato, incontentabile e soprattutto permaloso.
Quante avventure aveva vissuto per colpa di quella
scatenata! E dire che era rimasto deluso nello scoprire che aveva salvato una
femminuccia, pensando al compito noioso che lo attendeva.
I cinque anni della scuola primaria erano stati un
continuo azzuffarsi, con chi la escludesse da qualche gioco o con chi alludesse
in qualche modo al colore della sua pelle.
«Mai
immischiarsi nei litigi umani!» gli aveva insegnato il maestro Hesediel, così a
Omael toccava assistere impotente alle baruffe della sua protetta.
Quando nella zuffa erano coinvolti più bambini,
immaginava i tanti angeli che, come lui, svolazzavano sopra il parapiglia dei
litiganti – come gli dei omerici nelle battaglie dell’Iliade – Questa scena la poteva solo supporre, perché, per
regolamento, i custodi celesti non avevano nessun contatto, visivo o
telepatico, tra di loro. A lite sedata, li pensava, basandosi sempre su se
stesso, intenti a propinare rimproveri, per fare pentire i pargoli della
baruffa.
Omael non sapeva degli altri, ma lui riusciva a
suscitare nel cuore di Caterina il rimorso senza difficoltà, tanto che di
solito era lei a correre dai compagni per chiedere scusa e fare pace, anche
quando era stata provocata.
Le maestre e le suore non si sapevano spiegare il
comportamento della ragazzina, oscillante tra l’aggressività e l’affettuosità.
E, nell’ignoranza, si limitavano a ripetere che era un soggetto difficile,
tanto che la direttrice indisse una riunione, per parlare esclusivamente della
piccola immigrata.
«Ha delle turbe caratteriali congenite» fu il severo
giudizio della direttrice a inizio seduta.
Al che l’insegnante dell’area scientifica, che tanto
appassionava Caterina, cercò di difenderla senza contraddire eccessivamente il
capo dell’Istituto, perché, essendo una precaria, temeva per il posto.
«Nel giudicare i suoi eccessi si deve considerare il
trauma da lei subito».
«Secondo me», disse la maestra di riferimento, «ciò
che la rende suscettibile è il colore della sua pelle: non sopporta l’essere
diversa. Sarebbe meglio trasferirla in una scuola con tanti immigrati come lei,
per farla sentire a suo agio».
Suor Serafina che rappresentava l’orfanotrofio fu la
più benevola.
«Tutti i bambini a quell’età sono testardi e
litigiosi. È l’egocentrismo che li porta a questo. La sua aggressività è una
forma di autodifesa».
Allora la direttrice, che non voleva rinunciare al
suo giudizio iniziale, parlò dell’ingratitudine dimostrata da Caterina verso le
persone che si occupavano di lei. Ciò determinò un’opposizione più decisa della
maestra scientifica che fece notare come l’alunna fosse educatissima verso gli
adulti e come se la prendesse con i coetanei, solo se esclusa o sbeffeggiata.
Il suo discorso venne in parte appoggiato dalla
maestra prevalente che, nella foga, più per povertà di linguaggio che per
cattiveria, usò il termine “disadattata”. La parola piacque alla direttrice che
la rilanciò e a questo punto, per compiacerla, anche le altre la usarono, finché
andò a finire a verbale e nella scheda personale di Caterina, sebbene la suora
la contrastasse con il termine “comprensione".
Omael abbandonò la riunione disgustato dalla
superficialità con la quale si giudicavano i piccoli alunni. Ah, se avesse
potuto parlare lui! Avrebbe detto loro: Ma avete guardato i suoi occhi
all’uscita della scuola? Tutti i bambini sono felici in quel momento, invece
lei è triste. Perché? Rispondete! Perché? Non lo sapete? Allora ve lo dico io:
gli altri vanno a casa e lei in orfanotrofio; esce dall’Istituto scolastico per
entrare in un convento. «La trattiamo benissimo!» avrebbe strillato, a questo
punto, suor Serafina. Non lo nego, avrebbe ancora detto lui, siete puntuali e
gentili, non le fate mancare nulla: dai pasti al dentifricio. Ma il vostro
affetto? Il vostro amore? Tutto rivolto allo sposo divino e solo le briciole
vanno alle creature che ospitate. Non capite che Dio va amato attraverso il
vostro prossimo?
La ramanzina dell’angelo non si sarebbe fermata qui.
Avrebbe aggiunto: Gli altri bambini all’uscita della scuola corrono incontro
alle mamme o ai papà che li accolgono tra le loro braccia e li stringono al
petto, sollevandoli da terra. Anche Caterina corre verso la suora che aspetta
vicino al pulmino pieno di altri orfani; corre Caterina verso l’abbraccio
desiderato…la suora le accarezza appena i capelli e la sollecita a entrare nel
pulmino, che il giro, prima di arrivare in periferia, all’orfanotrofio, è
ancora lungo.
Adesso vi è chiaro perché Caterina sia triste? Le
manca l’affetto di un padre e l’amore di una madre, che i suoi compagni hanno e
lei no! Volete una controprova? Caterina non si comporta in questo modo dentro
il brefotrofio, e suor Serafina ne è testimone, con le orfanelle come lei è
gentile e amorevole.
La mia conclusione? Caterina è una bambina molto
buona che soffre per il vuoto affettivo nel quale vive e chiede solo di essere
trattata con amore.
Naturalmente il discorso dell’angelo Omael rimase
lettera morta, perché nessun orecchio interessato lo sentì mai, e Caterina
continuò a essere vittima dell’incomprensione degli adulti, suore comprese.
Quest’ultime stanche delle lamentele delle maestre,
finito il ciclo scolastico delle elementari, decisero di togliere la ragazza
dalle scuole pubbliche e di farle frequentare le scuole medie in un istituto
privato, gestito dalle suore paoline che godevano fama di essere molto brave e
severe. Qui la ragazza sviluppò un autocontrollo che prima non aveva e,
nonostante l’ostilità di molte compagne e delle loro famiglie che pagavano la
retta proprio per stare lontano dagli extracomunitari, riuscì a conseguire il
diploma.
VI
Finiti gli studi, Caterina si trovò impegnata nelle
faccende e nelle attività che fervevano in convento. E non erano poche, giacché
le suore erano impegnate a fare introiti vendendo dolci da loro prodotti e
ospitando viaggiatori che avessero bisogno di pernottare in città. Dire che
fosse una cenerentola sarebbe un’esagerazione, ma di Cenerentola condivideva il
sogno di un principe azzurro. In passato l’aveva individuato in qualche
compagno d’istituto, ma ne era rimasta sempre delusa, perché non c’era stata
alcuna corrispondenza o perché l’amato si voleva sentire superiore per la sua
italianità e la pelle chiara.
Questa esperienza negativa l’aveva resa scostante
verso l’altro sesso, ma dietro il suo femminismo radicale era sempre vivo il
desiderio di trovare il compagno della vita.
Di tutti i giovanotti frequentati da Caterina, non
ce n’era uno che piacesse all’angelo, in ognuno ci trovava difetti
insormontabili, e quando la sua protetta lo mollava o ne rifiutava la corte,
lui ne era contento, salvo a rattristarsi, poi, nel vederla sconfortata.
Egli era convinto che solo un giovane affettuoso,
comprensivo e calmo nella fermezza, potesse rendere felice Caterina, ma un tipo
con questi requisiti non c’era nell’orizzonte sociale della ragazza, eccetto
lui naturalmente, spiritello invisibile con difficoltà nel comunicare e da un
po’ di tempo anche a starle vicino, perché i cori angelici lo richiamavano
indietro e lui doveva fare violenza a se stesso per non accorrere.
Proprio al compimento del quindicesimo compleanno di
Caterina, l’angelo custode aveva cominciato a sentire in sé una dolce forza che
lo sospingeva verso l’alto: era l’attrazione esercitata dal raggio angelico del
Coro degli Angeli Dominazioni, controllato dal suo maestro Hesediel.
Non c’era niente di fisico in quello che gli stava
accadendo, il richiamo che lo pervadeva era un fatto mentale: un bisogno
dell’intelletto di tornare alla sua origine, per rigenerarsi.
VII
L’arcangelo
Hesediel lo aspettava assiso nella sua gloria, avvolto in una vampata simile a
fuoco.
«Ho avuto il dubbio che ti fossi dimenticato
dell’articolo dieci del regolamento».
«L’ho avuto sempre presente: “Per non arrecare
pregiudizio alla libertà del singolo uomo giunto all’età della ragione,
l’angelo custode porrà fine alla sua missione di salvezza”. Così sta scritto».
«E allora perché hai opposto resistenza alla sua
attuazione?».
«Mi sono attardato un po’».
«Non ti sembra grave ciò?»
«Lei aveva bisogno di me» si giustificò l’angelo.
«Tutti gli esseri umani hanno bisogno di noi».
«Si, è vero», ammise Omael, «ma lei è l’unica della
quale mi importa. Gli altri sono perfetti
sconosciuti, uomini non persone, figuranti anonimi che popolano il pianeta. Lei
invece è in me, nella mia mente, e mi fa essere ciò che sono».
«Ti sei troppo affezionato a quella ragazza».
«Anche questo è vero» mormorò l’angelo, e lasciò che
il suo pensiero si manifestasse tutto: «Forse ne sono innamorato!»
«Quello che stai pensando è molto grave».
«È più forte di me. Darei me stesso per la sua
felicità!»
«Tu appartieni a Dio!» gli ricordò Hesediel, con
tono scandalizzato.
«Ma Dio può fare a meno di me…lei, forse, no!»
«Sacrificheresti per lei il tuo stato angelico?»
«Si, lo farei!»
«Inaudito!» fece l’arcangelo, meravigliato.
«Ridatemi l’involucro di carne, affinché possa accorrere
da lei!» pregò Omael.
«Ormai è polvere, e comunque inadeguato all’età che
ti abbisogna» gli fece notare l’arcangelo per scoraggiarlo.
«Datemene un altro!» e nella sua richiesta c’era
un’urgenza incontenibile. «Uno qualunque!»
«Ma non saresti più tu!»
«Io sono il mio corpo?»
«Assolutamente no!» affermò risoluto Hesediel.
«L’uomo non è il suo corpo, ma la sua anima, sede dell’intelligenza».
«E allora sarei sempre io» dedusse l’angelo.
«La fusione con il corpo azzererebbe la tua memoria
e il tuo sapere», lo avvertì l’arcangelo, «e la nuova esperienza ti potrebbe
foggiare diversamente, come ferro antico nella fucina di un fabbro».
«Potrei non ricordare Caterina?»
«Diventerebbe un’estranea per te».
«Tanto può il corpo, pur essendo inferiore
all’anima?»
«Sì! Addirittura gli impulsi corporali ti potrebbero
fare innamorare di un’altra».
«I sentimenti che ho in me sarebbero cancellati?»
«Non del tutto. Una loro traccia rimarrebbe in fondo
alla mente, ma una traccia labile, difficile da ridestare».
«È sempre una possibilità, e mi basta per tentare».
«Sei stato sempre un angelo strano» disse
l’arcangelo rassegnato a quella richiesta inusuale tra i beati del Paradiso.
«Non sei mai stato puro, come se la natura umana ti fosse rimasta appiccicata
addosso in modo indelebile. A questo punto è meglio che porti fino in fondo
l’esperienza di una vita terrena completa, per ritornare qui totalmente
purificato. Preghiamo il buon Dio affinché ciò possa accadere».
VIII
Azem si riteneva fortunato
ad aver trovato quel lavoro, anche se, alla fine della giornata, la fatica, su
quel campo d’ortaggi, gli spezzava le ossa: oltre a sradicare le erbacce,
raccoglieva le verdure, le sistemava nelle cassette e le portava al mercato con
l’Ape. Quel campo era solo un pezzo
della grande azienda agricola del cavalier Chiaromonte, e Azem ne aveva la
piena responsabilità; forse per questo lavorava come un dannato per quattordici
ore il giorno. Si regalava qualche momento di riposo per mangiare o quando da
un balcone dell’edificio confinante col campo si affacciava una giovane
incantevole, nera come lui, con una massa di riccioli scuri in testa, occhi
grandi con sopracciglia folti, zigomi alti e labbra carnose.
Sarà stato che fosse africana come lui, ma fin
dal primo momento ebbe l’impressione di un viso familiare. Non si affacciava
mai per fare la perdigiorno o per essere ammirata da lui, ma per necessità
(scuotere un tappeto, stendere qualche panno, pulire i vetri); la qualcosa non
dispiaceva al giovane.
Egli, di solito
accovacciato sulle lattughe, subito si alzava in piedi, appena la vedeva, si
toglieva il cappellino di ciclista con la tesa lunga, che portava per
proteggere la testa dal sole, e le rivolgeva uno smagliante sorriso senza
confini.
«Buon giorno, signorina!»
le gridava.
Ma lei non rispondeva.
Anche questa cosa gli piaceva… però fino a un certo punto, perché non riteneva
riposante avere una moglie arcigna, essendo lui era un tipo allegro.
Era un tipo così festoso
da cantare mentre la schiena, sempre curva, gli doleva, e le cassette di
verdure gli pesavano come macigni, pur essendo di fatto leggere. Cantava la sua
voglia di vivere pure guidando l’Ape,
stracolma di ortaggi verdi, gialli, rossi e viola. Il vento della corsa gli
asciugava i sudori e lui cantava a squarcia gola, e la radiolina, appesa allo
specchietto, cantava con lui, anche la marmitta scassata dell’Ape cantava, a suo modo.
Il “tre ruote” carico di
colori e circonfuso di musica, uscì sobbalzando dallo sterrato per immettersi
nella comunale, proprio davanti al portone del convento e proprio mentre una
ragazza ne usciva sopra una bici. L’urto fu evitato per un pelo, grazie alla
manovra dei due guidatori, istintivamente coordinata: lui a sinistra e lei a
destra.
Caterina andò a sbattere
contro la facciata dell’orfanotrofio e, lasciata la bici a terra, si avventò
come una furia verso l’incauto giovane, pronta a colpirlo con la borsetta.
«Tu sei pazzo!»
Il giovanotto, irritato
dal dolore perché aveva sbattuto la testa contro il tettuccio, fu sul punto di
rispondere con pari aggressività, ma riconoscendo la fanciulla dei suoi sogni,
rimase bloccato, a bocca aperta.
«Lo capisci che mi potevi
ammazzare?»
Azem sorrise, deciso ad
allentare la tensione: non poteva consumare questo incontro in un litigio.
«Mi vuoi picchiare?»
chiese con dolcezza.
«Te lo meriteresti!» disse
lei calmandosi. «Non si corre così».
«Corro, ma faccio anche
tanto rumore».
«E con questo?»
«Tutti si scansano sempre»
spiegò il giovane. «Solo tu non ti sei scansata, oggi».
I due giovani parlavano
gridando, come se litigassero, per sovrastare la musica che continuava a
provenire dal veicolo.
«Ah! La colpa è mia
adesso!»
«Non tua» la calmò il
giovane. «Ma del destino che ci ha voluto fare incontrare in questo modo».
Adesso toccò alla ragazza
restare perplessa.
Disse: «Hai una bella
faccia tosta».
«Però io ho aiutato il
destino».
«Come?»
«Correndo per arrivare in
tempo all’appuntamento con te».
«Come facevi a sapere che
stavo per uscire?» chiese la ragazza per metterlo in difficoltà.
La risposta fu improntata
dalla massima sicurezza; «Lo sentivo, qua dentro di me».
A quella risposta la
giovane, completamente smontata, rise di cuore. Un trillo, in cui la “Ah”
variava continuamente di tono, che piacque ad Azem. “Non è arcigna” si disse.
“Non me la devo lasciare scappare!” E intanto si lambiccava il cervello per
cercare di ricordare dove mai avesse sentito un riso così chiaro e sincero.
«Sono venuto da Omou per questo
incontro».
«Omou?»
«Ciad! Africa!» fece il
giovane, stupito della sua ignoranza.
«Ok, ho capito», disse la
giovane, «non te la prendere!»
«Io venuto da lì per te».
«Per me?» chiese la
ragazza sfasata dall’affermazione detta in tutta serietà, poi capì che la
voleva sorprendere e aggiunse: «sei uno sbruffone!»
«Va bene buffone, se ti
piaccio» disse lui.
E la ragazza tornò a
ridere colorando d’azzurro la giornata.
«Non sei mai stata a
Omou?» chiese lui.
Lei fece segno di no,
continuando il suo trillo.
«Sono Italiana, nata in
Italia, mai stata in Africa» aggiunse poi.
«Eppure credo di averti
vista in altro luogo, in altro tempo».
Adesso la radiolina,
appesa allo specchietto, cantava con dolce passione e anche la marmitta
scassata dell’Ape scoppiettava romanticamente.
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