lunedì 7 marzo 2016

















L’Angelo custode

I
Nel Ciad, al confine con la Libia si trova il villaggio di Omou. Esso sorge entro un catino sabbioso, all’interno di un altopiano di rocce a scaglie sovrapposte. Le alture rocciose sono molto tormentate e presentano fratture, canyon e valloncelli di tutti i tipi, grazie ai quali esiste, in quei luoghi, un po’ di vita vegetale: arbusti di giuggiolo selvatico, pistacchio, acacia spinosa, graminacee, palme dattilifere e piante grasse.
Le rocce proteggono le piante dai venti caldi, secchi e sabbiosi del nord (harmattan), ma non dalle siccità periodiche e dalla piaga delle locuste che rendono impossibile ogni attività agricola. Per questo gli abitanti di Omou si dedicano esclusivamente all’allevamento di capre e pecore che portano a brucare tra gli anfratti rocciosi.
Gouglja e Itmo vivevano in questo villaggio a fine anni Novanta; poveri tra i poveri, conducevano una vita di stenti e la loro capanna, di frasche e fasci d’erba essiccata, non si distingueva dalle altre, posizionate attorno ad un basso edificio di mattoni che ospitava la missione cattolica.
Le suore italiane e francesi, che si alternavano annualmente, oltre a cercare di insegnare a leggere e a scrivere ai bambini, gestivano un’infermeria, ben fornita di medicinali, che costituiva l’unico presidio sanitario della zona. Erano state le suore italiane a fare venire dal loro paese, un paio di anni prima, degli esperti che avevano trivellato il terreno fino a trovare l’acqua, oltre cento metri di profondità. Da allora, grazie a una pompa idraulica manuale, nessuno aveva più sofferto la sete a Omou.
Durante i lavori del pozzo, Itmo aveva fatto amicizia con i tecnici stranieri, ai quali aveva venduto la carne dei suoi teneri capretti. Il capo del gruppo era un geologo molto curioso che, quasi ogni mattina, voleva essere accompagnato da Itmo nelle sue escursioni per le balze e le grotte della zona; questa quotidiana frequentazione aveva fatto nascere un sentimento d’affetto tra lo studioso e il capraio, tanto che, quando arrivò il giorno della partenza, lo scienziato diede alla sua giovane guida un biglietto da visita, dicendogli in un francese bastardo: «Se dovessi venire in Italia, potrai cercarmi a questo indirizzo».
«Mi troveresti un lavoro?» gli chiese Itmo che conosceva il francese, come tutti i suoi compatrioti, a causa della colonizzazione subita.
«Ma certo!» lo rassicurò il tecnico, dandogli delle pacche espansive sulle spalle. «A Cremona il lavoro non manca».
Quel biglietto e le parole dell’italiano entrarono prepotentemente nella vita di Gouglja e Itmo.  Erano giovani e ardimentosi, insieme non arrivavano a quarant’anni, e si sentivano pronti ad affrontare pericoli e fatiche pur di dare una svolta alla loro misera vita.
Bastava un nonnulla per accendere, soprattutto la sera nella capanna semibuia, i loro discorsi sull’Italia con le sue meraviglie e il benessere al quale avrebbero compartecipato.
«Ancora ugali?» si lamentava Itmo, davanti al piatto serale. Lo chiedeva pur essendo consapevole dell’inutilità della domanda: non c’era altro da cucinare in quella casa.
Lo diceva per provocare la moglie e tenere vivo il loro progetto di espatrio. E Gouglja che non aspettava altro, coglieva subito l’occasione.
«In Italia non ne mangerai più di questa roba» gli diceva. «Lì ci sono gli spaghetti».
«L’amico Carlo me li ha fatti assaggiare» assentiva l’uomo. «Erano buoni; bisogna mettervi molta salsa, però».
«In Italia potremo permettercelo, lì i pomodori non mancano».
«Ho sentito dire che assumono senza limiti, per raccoglierli».
«Io preferirei lavorare in fabbrica».
«Magari dove fanno le auto».
«Oppure le lavatrici».
In questi discorsi l’anziana madre di Gouglja, che viveva con loro, non metteva lingua, anche se la rattristavano, perché sapeva che non avrebbe più rivisto la figlia se fossero partiti. «Sono troppo vecchia, la morte arriverà prima che ritornino» si compiangeva, e le uscivano le lagrime dagli occhi quando soggiungeva: «Non mi vogliono bene! Parlano come se io non ci fossi».
Ma ciò non era vero! Anche se la partenza era divenuta la loro ossessione, i due giovani non si decidevano proprio per pietà della vecchia madre, accontentandosi di sognare l’Italia.
A fare questo sogno non erano i soli nel paese; tanti giovani erano già partiti e tanti si proponevano di farlo, anche se le notizie che arrivavano negli ultimi tempi parlavano di molti, troppi, morti nel deserto, nelle prigioni libiche, in mare.
Ma ogni giovane, simile in questo ai coetanei di tutto il mondo, escludeva che una cosa simile potesse accadere a lui – toccava sempre agli altri morire! – Piuttosto preoccupavano le difficoltà di trovare una sistemazione remunerativa dopo l’arrivo in Europa.
Quando si parlava di ciò tra amici e conoscenti, Gouglja e suo marito si guardavano complici, scambiandosi un sorriso rassicurante: loro non avrebbero avuto questo problema, grazie al geologo Carlo Rossi. Su questo punto erano stati rassicurati anche dalle suore che, confermando le loro attese, avevano detto: «Il prof. Carlo Rossi è molto conosciuto nel suo paese, e sicuramente saprà aiutarvi».
Era questo vantaggio a mettere fretta a Itmo. Temeva che, passando troppo tempo, il professore si potesse dimenticare di lui, oppure che potesse andare a vivere in un’altra città, oppure…
La decisione fu presa nell’ultimo febbraio del secolo, quando Gouglja ebbe la certezza di essere incinta.
«Mio figlio deve nascere in Italia» disse Itmo con determinazione, quando lo seppe.
Gouglja per un po’ continuò ad avere qualche incertezza, ma ci furono delle congiunture che fecero decidere anche lei: altri quattro giovani erano pronti a partire con loro, e stare in gruppo la rassicurava; una cugina si era offerta di badare alla madre, e, cosa più importante, la madre stessa si era messa a sollecitarli affinché realizzassero il loro progetto senza preoccuparsi di lei.
La vecchia donna aveva fatto un sogno rivelatore: le era apparso lo spirito del marito, morto quattro anni prima, rassicurandola sulla riuscita del viaggio che i ragazzi si accingevano a fare e annunciandole il ritorno della figlia con un’auto per portare pure lei in Italia.
«Saresti contenta di andare a finire i tuoi giorni in Italia?» le chiese la figlia, dopo aver appreso di questa predizione onirica.
«Tutti i posti sono buoni per morire!» affermò serena la vecchia.
«Anche l’Italia?»
«Un posto vale l’altro» aveva confermato la madre, ma nel suo cuore sapeva che sarebbe morta prima del ritorno della figlia.
Anche il genero si stranì dell’incoraggiamento dato dalla suocera, ma non volle approfondire la questione; quel tanto gli bastò per organizzare la partenza.

II
«Tocca a te scendere giù!» gli disse l’arcangelo Hesediel, suo maestro.
Era una grande notizia per Omael, aspirante angelo-custode, che esultò.
«Finalmente!»
«Ti senti pronto?»
«Preparatissimo!» affermò con sicurezza, come un soldato.
«Sei stato un bravo allievo in tutto questo tempo» lo elogiò il maestro.
«Usando il calendario terrestre, sono passati due secoli» precisò l’angelo.
«Hai tenuto il conto?» si meravigliò l’arcangelo.
«Non perché me la sia passata male quassù…»
«Ci mancherebbe!»
«…ma perché mi piacciono i numeri».
«Io non ci vado matto» confidò Hesediel. «Preferisco il canto e l’arte dei colori».
«Penso», disse l’angelo, «che sarei potuto diventare un grande matematico se fossi rimasto più a lungo col mio corpo».
«Ne sono certo!» affermò il capo per cortesia.
«Ho vissuto umanamente troppo poco» disse sconsolato Omael. E poi aggiunse: «Neanche il tempo d’imparare a leggere e a scrivere».
«Non dovresti ricordare queste cose della vita passata!» fece il maestro perplesso.
«Difatti non ricordo nulla».
«Ma…»
«Erano solo delle congetture, intuizioni».
«Stavo quasi per trattenerti» confessò l’arcangelo. «Lo sai che non si può fare l’angelo custode se si ricorda la precedente vita umana».
«Lo so bene».
«Per questo motivo solo gli spiriti che vi hanno risieduto poco tempo possono ritornare sulla terra a svolgere questo compito».
«Solo le anime dei bambini possono fare i custodi dei nuovi nati» affermò Omael, da scolaro preparato qual era.
«Appunto!»
«È stata la tua prima lezione».
«Appunto!»
«Non si può scordare».
«Mi fa piacere» disse compiaciuto Hesediel.
«Stai tranquillo, sarò un bravo angelo custode».
«Lo spero bene».
«Ancora non è arrivato il momento?» domandò l’allievo.
Si vedeva che era agitato; per l’emozione sbatteva le piccole alette trasparenti senza che ce ne fosse bisogno: lì, nell’etere privo di materia, le ali non servivano, perché ci si spostava con la forza del pensiero. Le ali di apina gli sarebbero tornate utili nell’atmosfera terrestre.
Il maestro sorrise alla frenesia dell’angioletto e decise di rompere gli indugi.
«Spostiamoci in America» disse.
«È lì che dovrò scendere?»
«Sì».
«E quale sarà il nome del mio protetto?»
«Margareth».
L’angelo non seppe dissimulare la sua delusione.
«Una bambina!»
«Cosa c’è che non va in una bambina?»
«Nulla. Solo avrei preferito una missione più movimentata».
«Guarda che oggigiorno, uomo e donna, pari sono!»
«Non lo metto in dubbio, ma avrei preferito lo stesso un maschietto».
L’arcangelo Hesediel, che era buono come si addice alla sua natura celestiale, si dispiacque nel vedere partire il suo allievo con diminuito entusiasmo, anche perché la scarsa determinazione avrebbe potuto indurlo a un impegno superficiale nel lavoro che lo attendeva. Così un po’ per accontentarlo, un po’ per evitare un fallimento della missione, guardò giù, sulla terra, alla ricerca di un’eventuale alternativa.
 Proprio allora si trovavano sul Mediterraneo, spumeggiante, a causa di un forte scirocco, come acqua saponata in una tinozza di lavandaia. L’Arcangelo passò al setaccio tutte le terre emerse, dalla Grecia alle Baleari, alla ricerca di un nascituro al quale non fosse stato ancora assegnato un custode. Ma sia sul versante europeo sia in quello africano tutte le nascite del futuro prossimo erano coperte.
«I tempi sono cambiati, caro mio» commentò amaramente il maestro. «In passato gli angeli-custodi quasi non riuscivano a soddisfare le nascite, adesso, invece, sono in soprannumero».
Stava per aggiungere che si doveva rassegnare ad andare in America, da Margareth, quando notò un punto scuro tra due creste schiumose, come pupilla in un occhio d’acqua.
«Là!» disse il maestro, indicando il posto col suo dito diafano. «Su quell’imbarcazione».
«È in corso una nascita» confermò Omael, tutto contento.
 «Vai!» ordinò il capo, mentre la palpebra marina copriva la pupilla.
L’onda si abbatté sul natante come una cascata e scaraventò fuori bordo la maggioranza degli occupanti. Dopo aver colpito come una mazzata, l’acqua tumultuosa ebbe un momento di risetto e l’angioletto, arrivando, poté rendersi conto della situazione drammatica che gli stava difronte: molte persone erano scomparse fra i flutti; chi, sapendo nuotare bene, era ancora a galla, cercava di riaccostarsi alla barca, chiedendo disperatamente aiuto ai pochi rimasti sul natante, ma costoro non potevano soccorrere quelli che stavano annegando, occupati com’erano a svuotare lo scafo dall’acqua che si era riversata dentro semi affondandolo; intanto sulla tavola all’angolo delle murate una creatura finiva di uscire dall’utero, senza che nessuno se ne curasse.
Non sapendo quale delle emergenze affrontare prima, Omael alzò gli occhi, là ove credeva si trovasse ancora il maestro, ma non vide nessuno. La decisione spettava a lui. Egli fece ciò che gli dettò il cuore di angelo custode: risolvette di aiutare, fra tutti, il neonato.
La partoriente era spossata e sarebbe rotolata in mare, se il marito, prima di essere trascinato via dall’onda assassina, non l’avesse legata al dritto di prua. Pur essendo semincosciente, la donna teneva, istintivamente le gambe piegate in modo da costituire una barriera che impedisse al neonato di scivolare nella sentina stracolma d’acqua.
L’angelo, essendo puro spirito, materialmente non poteva fare nulla, ma suggerì alla mente confusa della madre quelle operazioni che potessero salvare il bambino. Sollecitata telepaticamente, la donna tagliò con i denti il cordone ombelicale, si tolse un grande fazzoletto che le cingeva i fianchi e vi avvolse il piccolo in modo da formare un fagottino, legando insieme i quattro angoli della stoffa.
Nel frattempo le onde ribollenti si erano di nuovo rialzate, creando un muro che minacciava da poppa l’imbarcazione. Fu chiaro a tutti che nel momento in cui quella massa d’acqua si fosse abbattuta in avanti, sarebbe stata la fine.
Lo capì anche l’angelo che sollecitò la puerpera ad adoperarsi per la salvezza del piccolo essere che piangeva tra le sue cosce: la donna si liberò della cintura di corda, che la legava alla punta sporgente del dritto di prua, e la usò per assicurare il fagottino di stoffa al legno.
L’onda gigantesca, che incombeva sulla barca, esitò un attimo, come per dare tempo alla madre di compiere il suo lavoro, e poi si arrotolò su se stessa, rovesciandosi, possente e densa, su quelle tavole già in parte sconnesse, spezzandole in mille pezzi.

III
Nella notte il vento cessò di colpo e la motovedetta della Capitaneria di Lampedusa uscì in mare che era ancora buio, andava a perlustrare un settore a settanta miglia dall’isola dove il sistema radar VTS aveva segnalato la presenza di un’imbarcazione.
Il guardiamarina Pigiatore, appena fuori dal porto alzò la manetta e la lancia raggiunse ben presto la sua massima velocità di trentotto nodi. L’imbarcazione leggera, di vetroresina, rimbalzava da onda in onda, dando l’impressione di volare e i due assistenti sistemati nel sedile posteriore si dovevano tenere ben stretti al passamano metallico per non essere sbalzati fuori bordo.
La corsa durò più di un’ora e albeggiava già, quando il sottocapo Aletta, che per tutto il viaggio non aveva perso di vista il rilevatore GPS, gridò: «latitudine 34.582210861043 e longitudine 12.060083085937».
Erano arrivati, e il graduato al timone diminuì sensibilmente la velocità, mentre il terzo militare, un giovane volontario, spegneva il potente faro con il quale aveva sciabolato il buio della notte.
Alla luce livida e fredda che scalzava la notte, i guardiacoste videro i rottami della barca, che il gioco delle onde aveva ammucchiato in una lunga teoria a mezzaluna.
Con il motore al minimo costeggiarono il materiale galleggiante, legni, bottiglie di plastica, sandali spaiate, qualche bambolotto.
«Niente cadaveri!» si meravigliò il più giovane dei militari.
«Li troveremo più a sud» spiegò il capo. «È una questione di correnti e di…»
«Zitti!» disse il sottocapo Aletta.
«Che c’è?» chiese il guardiamarina, infastidito per l’interruzione.
«Mi è sembrato di aver sentito un vagito».
«Avrai strasentito!»
Stava per ammettere: «Probabilmente…hai ragione», ma si trattenne e si corresse: «L’ho sentito di nuovo!»
«È impossibile che ci possa essere un bimbo tra questi rottami» affermò il capo pattuglia.
«Da che parte proviene questo presunto pianto?» chiese, per curiosità, il militare giovane.
«Di là!» fece con sicurezza il più anziano.
Il punto indicato si trovava al centro della falce, dove i rottami occupavano una superfice più vasta ed erano stranamente affastellati attorno a un pezzo di prua, galleggiante come un guscio d’uovo, quasi a impedire che non si capovolgesse.
«Solo per scrupolo, andremo a dare un’occhiata» disse il sottoufficiale al timone.
La barca, adesso adagiata interamente sulla superfice marina, procedette pigramente verso la tazza di legno, tagliando in due la falce che il movimento del mare aveva realizzato, mettendo assieme ogni cosa fosse tornata a galla dopo il naufragio.
Giunti a un paio di metri di distanza anche gli altri due militari sentirono un vagito lamentoso e fioco, proveniente dal guscio di legno sospeso su gli abissi marini.

IV
«Se non era per te, sarei rimasta a morire di fame  e di sete» affermò con convinzione la ragazza.
«Lo puoi ben dire!» confermò l’uomo anziano.
«Continua, zio Maurizio» lo invitò la fanciulla.
Il sottocapo in pensione cercò di scansare la richiesta: «Te l’ho raccontata mille volte, questa storia».
Ma la giovane insistette: «Mi piace risentirla!»
 Erano nel parlatorio dell’orfanotrofio Bambinello Gesù di Trapani, dove Maurizio Aletta si era recato per la visita domenicale alla bambina che aveva salvato quindici anni prima. Egli era fermamente convinto che in quell’alba marzolina fosse avvenuto un miracolo in quelle acque. Solo così riusciva a spiegarsi di aver sentito quel flebile gemito, tra lo sciabordio dell’acqua contro le fiancate della lancia, mentre i suoi due colleghi, che avevano orecchie più buone delle sue, lo sentirono solo a pochi metri dal relitto. Anche il fatto che la neonata fosse ancora in vita, era – secondo lui – la conferma dell’evento miracoloso.
«Dai, zio, racconta!» insistette la ragazza, a mani giunte.
«E va bene!» cedette l’uomo. «Presi l’asta con l’uncino, agganciai il rottame e lo tirai verso di noi, ormai il lamento si sentiva distintamente, ma per quanto ci sforzassimo, non ti vedevamo là in fondo al catino, vuoi perché c’era poca luce, vuoi perché eri completamente coperta dal pareo. Allora il militare Bastiano Corposano si penzolò a testa in giù, mentre io lo tenevo dalla cinghia dei pantaloni, riuscendo ad afferrare il fardello e a tirarlo a bordo. Il capo lo prese subito in consegna e sciolse i nodi del drappo».
«Dovevo essere malconcia» interloquì la ragazza.
«Da fare venire il panico» convenne l’uomo. «Eri ghiacciata, cianotica e afflosciata. Subito il comandante lanciò il battello a tutta manetta e via verso Pantelleria».
«Perché Pantelleria?»
«Perché era l’isola più vicina con un reparto di pediatria nell’ospedale».
«Parlami dei giornalisti» propose la ragazza.
«La notizia del miracoloso salvataggio fece ben presto il giro del mondo, e Trapani, dove nel frattempo eri stata trasferita per usufruire dell’incubatrice, fu invasa da inviati e troupe televisive».
«Sembra una favola!» sospirò la giovane.
«Per certi versi lo è: la tua foto pubblicata dappertutto, io e i miei colleghi intervistati di continuo. Adriano Pigiatore promosso tenente e trasferito nell’importante base di Augusta…»
«Mi telefona spesso».
«…il militare volontario è divenuto effettivo ed io ho avuto una bella medaglia».
«Un finale lieto per tutti», disse con malinconia la ragazza, «eccetto per la protagonista principale».
«Non dire così!» la pregò il vecchio. «Essere in vita è un buon finale anche per te».
«Vivere felicemente sarebbe stato un buon finale» rettificò la ragazza.
«Tu non lo sei?»
«Felice?»
«Si, felice».
«Restare drammaticamente orfana e crescere in un istituto religioso non sono il massimo per una ragazza».
«Ne convengo!» fece l’uomo.
«Aggiungi, nel mio caso, che tra quelle onde ho perso anche la mia identità: non so da quale paese provenivano i miei genitori, porto un nome inventato che neanche mi piace tanto. Chiamare me, africana nera, Caterina Rossi, significa non avere avuto alcuna considerazione nei miei confronti».
«Hai ragione».
«Un nome simile l’avrei potuto accettare se fossi stata adottata. Invece neanche questo è accaduto, sebbene mezza Italia si fosse dichiarata disponibile ad accogliermi».
«Tutta colpa della burocrazia. Prima di dichiararti adottabile, il giudice tutelare ha dovuto espletare una complicata indagine alla ricerca di eventuali parenti che potessero avere cura di te…»
«Nel frattempo sono stata messa in orfanotrofio – la conosco la storia – e finito il clamore sul mio ritrovamento, tutti si sono scordati di me, lasciandomi qui, in istituto».
«Tu hai mille ragioni per essere avvilita e sfiduciata, ma…»
«Non mi parlare di felicità però!» interruppe la giovane.
«Eppure, secondo me, si può essere lo stesso felice», affermò testardamente Maurizio Aletta, «perché la felicità è, essenzialmente, una virtù, un abito interiore».
«Che vuoi dire?»
«Possiamo sentirci felici, a prescindere da ciò che ci succede».
«Impossibile!» dissentì la ragazza. «Come fai a essere felice mentre hai un lutto o ti picchiano o ti disprezzano?»
«In quei momenti no, ma in generale si può essere felici, anche se si è stati particolarmente sfortunati nella vita».
«Non vedo come».
«Sopportando con pazienza il presente e sperando nel futuro».
«E se il futuro lo vedi più fosco del presente?»
«Se c’è fede c’è speranza, magari nell’aldilà, ma c’è».
«Tu hai molta fede?»
«Sì, soprattutto dopo che ho visto in vita una neonata, inzuppata d’acqua fredda, senza mangiare e senza bere da otto ore … dentro la prua di una patera completamente sfasciata».
«Anche tu credi nel miracolo?»
«Chi altri lo credono?»
«Suor Serafina, anzi lei crede di sapere chi sia stato l’autore».
«Sarebbe…»
«La mia tutrice».

V
«Suor Serafina ha perfettamente ragione!» affermò l’angelo custode, svolazzando attorno al divano, dov’erano seduti Maurizio Aletta e la giovane Caterina Rossi.
Peccato che nessuno dei due lo sentisse, perché avrebbe potuto spiegare tanti particolari sulla sopravvivenza della piccola in mezzo al mare agitato, e sul suo salvataggio. Il miracolo c’era stato, e l’aveva compiuto Gouglja, la madre della bambina, sotto la guida dell’angelo.
Quando il cavallone si era riversato sulla barca, la donna aveva protetto la bambina con il suo corpo, poi, sollecitata da una voce interna, aveva ammucchiato più rottami possibili attorno al moncone di legno che conteneva la sua creatura.  Questa operazione, compiuta in acqua, fu un lavoro immane per la donna, già stremata dal parto, tanto che a un certo punto si lasciò rapire da Plutone senza opporre resistenza.
Gouglja aveva potuto essere il braccio operativo dell’angelo, perché, molto sensitiva, percepiva chiaramente i comandi e li eseguiva senza esitazione.
Più difficile era stato per l’angelo farsi ascoltare dall’equipaggio della capitaneria di porto. Il sottoufficiale e il militare semplice erano del tutto refrattari ai suoi messaggi telepatici, invece il sottocapo Aletta percepiva qualcosa, anche se in modo confuso e disturbato. Non potendo fare arrivare a nessuno dei tre un messaggio intelligibile, l’angelo custode trasmise alla mente della guardia più predisposta un suono simile al pianto di un neonato.
Una trovata geniale, della quale l’angelo era orgoglioso, ma non poteva vantarsene, come avrebbe voluto, con i due umani che aveva accanto: non erano abbastanza sensitivi da permettere una comunicazione telepatica, l’unica possibile per lui.
La mancanza di qualità metapsichiche in Caterina gli aveva reso più difficile svolgere i suoi compiti di angelo custode: illuminare, custodire, reggere e governare la creatura che gli era stata affidata dalla pietà celeste.
Dal canto suo Caterina, col suo comportamento ostinato e imprevedibile, aveva messo del suo nel complicargli il lavoro. La colpa di questo carattere capriccioso della ragazza, Omael la dava alle persone che l’avevano cresciuta – suore, insegnanti, assistenti sociosanitari – che, per non fare la figura delle arcigne o sospinte dalla pietà, preferirono, fin dai primi giorni che l’ebbero in consegna, viziarla piuttosto che rimproverarla. La conseguenza di questa educazione troppo indulgente aveva fatto in modo che la bambina sviluppasse negli anni un carattere capriccioso, imprevedibile, ostinato, incontentabile e soprattutto permaloso.
Quante avventure aveva vissuto per colpa di quella scatenata! E dire che era rimasto deluso nello scoprire che aveva salvato una femminuccia, pensando al compito noioso che lo attendeva.
I cinque anni della scuola primaria erano stati un continuo azzuffarsi, con chi la escludesse da qualche gioco o con chi alludesse in qualche modo al colore della sua pelle.
 «Mai immischiarsi nei litigi umani!» gli aveva insegnato il maestro Hesediel, così a Omael toccava assistere impotente alle baruffe della sua protetta.
Quando nella zuffa erano coinvolti più bambini, immaginava i tanti angeli che, come lui, svolazzavano sopra il parapiglia dei litiganti – come gli dei omerici nelle battaglie dell’Iliade – Questa scena la poteva solo supporre, perché, per regolamento, i custodi celesti non avevano nessun contatto, visivo o telepatico, tra di loro. A lite sedata, li pensava, basandosi sempre su se stesso, intenti a propinare rimproveri, per fare pentire i pargoli della baruffa.
Omael non sapeva degli altri, ma lui riusciva a suscitare nel cuore di Caterina il rimorso senza difficoltà, tanto che di solito era lei a correre dai compagni per chiedere scusa e fare pace, anche quando era stata provocata.
Le maestre e le suore non si sapevano spiegare il comportamento della ragazzina, oscillante tra l’aggressività e l’affettuosità. E, nell’ignoranza, si limitavano a ripetere che era un soggetto difficile, tanto che la direttrice indisse una riunione, per parlare esclusivamente della piccola immigrata.
«Ha delle turbe caratteriali congenite» fu il severo giudizio della direttrice a inizio seduta.
Al che l’insegnante dell’area scientifica, che tanto appassionava Caterina, cercò di difenderla senza contraddire eccessivamente il capo dell’Istituto, perché, essendo una precaria, temeva per il posto.
«Nel giudicare i suoi eccessi si deve considerare il trauma da lei subito».
«Secondo me», disse la maestra di riferimento, «ciò che la rende suscettibile è il colore della sua pelle: non sopporta l’essere diversa. Sarebbe meglio trasferirla in una scuola con tanti immigrati come lei, per farla sentire a suo agio».
Suor Serafina che rappresentava l’orfanotrofio fu la più benevola.
«Tutti i bambini a quell’età sono testardi e litigiosi. È l’egocentrismo che li porta a questo. La sua aggressività è una forma di autodifesa».
Allora la direttrice, che non voleva rinunciare al suo giudizio iniziale, parlò dell’ingratitudine dimostrata da Caterina verso le persone che si occupavano di lei. Ciò determinò un’opposizione più decisa della maestra scientifica che fece notare come l’alunna fosse educatissima verso gli adulti e come se la prendesse con i coetanei, solo se esclusa o sbeffeggiata.
Il suo discorso venne in parte appoggiato dalla maestra prevalente che, nella foga, più per povertà di linguaggio che per cattiveria, usò il termine “disadattata”. La parola piacque alla direttrice che la rilanciò e a questo punto, per compiacerla, anche le altre la usarono, finché andò a finire a verbale e nella scheda personale di Caterina, sebbene la suora la contrastasse con il termine “comprensione".
Omael abbandonò la riunione disgustato dalla superficialità con la quale si giudicavano i piccoli alunni. Ah, se avesse potuto parlare lui! Avrebbe detto loro: Ma avete guardato i suoi occhi all’uscita della scuola? Tutti i bambini sono felici in quel momento, invece lei è triste. Perché? Rispondete! Perché? Non lo sapete? Allora ve lo dico io: gli altri vanno a casa e lei in orfanotrofio; esce dall’Istituto scolastico per entrare in un convento. «La trattiamo benissimo!» avrebbe strillato, a questo punto, suor Serafina. Non lo nego, avrebbe ancora detto lui, siete puntuali e gentili, non le fate mancare nulla: dai pasti al dentifricio. Ma il vostro affetto? Il vostro amore? Tutto rivolto allo sposo divino e solo le briciole vanno alle creature che ospitate. Non capite che Dio va amato attraverso il vostro prossimo?
La ramanzina dell’angelo non si sarebbe fermata qui. Avrebbe aggiunto: Gli altri bambini all’uscita della scuola corrono incontro alle mamme o ai papà che li accolgono tra le loro braccia e li stringono al petto, sollevandoli da terra. Anche Caterina corre verso la suora che aspetta vicino al pulmino pieno di altri orfani; corre Caterina verso l’abbraccio desiderato…la suora le accarezza appena i capelli e la sollecita a entrare nel pulmino, che il giro, prima di arrivare in periferia, all’orfanotrofio, è ancora lungo.
Adesso vi è chiaro perché Caterina sia triste? Le manca l’affetto di un padre e l’amore di una madre, che i suoi compagni hanno e lei no! Volete una controprova? Caterina non si comporta in questo modo dentro il brefotrofio, e suor Serafina ne è testimone, con le orfanelle come lei è gentile e amorevole.
La mia conclusione? Caterina è una bambina molto buona che soffre per il vuoto affettivo nel quale vive e chiede solo di essere trattata con amore.
Naturalmente il discorso dell’angelo Omael rimase lettera morta, perché nessun orecchio interessato lo sentì mai, e Caterina continuò a essere vittima dell’incomprensione degli adulti, suore comprese.
Quest’ultime stanche delle lamentele delle maestre, finito il ciclo scolastico delle elementari, decisero di togliere la ragazza dalle scuole pubbliche e di farle frequentare le scuole medie in un istituto privato, gestito dalle suore paoline che godevano fama di essere molto brave e severe. Qui la ragazza sviluppò un autocontrollo che prima non aveva e, nonostante l’ostilità di molte compagne e delle loro famiglie che pagavano la retta proprio per stare lontano dagli extracomunitari, riuscì a conseguire il diploma.

VI
Finiti gli studi, Caterina si trovò impegnata nelle faccende e nelle attività che fervevano in convento. E non erano poche, giacché le suore erano impegnate a fare introiti vendendo dolci da loro prodotti e ospitando viaggiatori che avessero bisogno di pernottare in città. Dire che fosse una cenerentola sarebbe un’esagerazione, ma di Cenerentola condivideva il sogno di un principe azzurro. In passato l’aveva individuato in qualche compagno d’istituto, ma ne era rimasta sempre delusa, perché non c’era stata alcuna corrispondenza o perché l’amato si voleva sentire superiore per la sua italianità e la pelle chiara.
Questa esperienza negativa l’aveva resa scostante verso l’altro sesso, ma dietro il suo femminismo radicale era sempre vivo il desiderio di trovare il compagno della vita.
Di tutti i giovanotti frequentati da Caterina, non ce n’era uno che piacesse all’angelo, in ognuno ci trovava difetti insormontabili, e quando la sua protetta lo mollava o ne rifiutava la corte, lui ne era contento, salvo a rattristarsi, poi, nel vederla sconfortata.
Egli era convinto che solo un giovane affettuoso, comprensivo e calmo nella fermezza, potesse rendere felice Caterina, ma un tipo con questi requisiti non c’era nell’orizzonte sociale della ragazza, eccetto lui naturalmente, spiritello invisibile con difficoltà nel comunicare e da un po’ di tempo anche a starle vicino, perché i cori angelici lo richiamavano indietro e lui doveva fare violenza a se stesso per non accorrere.
Proprio al compimento del quindicesimo compleanno di Caterina, l’angelo custode aveva cominciato a sentire in sé una dolce forza che lo sospingeva verso l’alto: era l’attrazione esercitata dal raggio angelico del Coro degli Angeli Dominazioni, controllato dal suo maestro Hesediel.
Non c’era niente di fisico in quello che gli stava accadendo, il richiamo che lo pervadeva era un fatto mentale: un bisogno dell’intelletto di tornare alla sua origine, per rigenerarsi.

VII
 L’arcangelo Hesediel lo aspettava assiso nella sua gloria, avvolto in una vampata simile a fuoco.
«Ho avuto il dubbio che ti fossi dimenticato dell’articolo dieci del regolamento».
«L’ho avuto sempre presente: “Per non arrecare pregiudizio alla libertà del singolo uomo giunto all’età della ragione, l’angelo custode porrà fine alla sua missione di salvezza”. Così sta scritto».
«E allora perché hai opposto resistenza alla sua attuazione?».
«Mi sono attardato un po’».
«Non ti sembra grave ciò?»
«Lei aveva bisogno di me» si giustificò l’angelo.
«Tutti gli esseri umani hanno bisogno di noi».
«Si, è vero», ammise Omael, «ma lei è l’unica della quale mi importa. Gli altri sono perfetti sconosciuti, uomini non persone, figuranti anonimi che popolano il pianeta. Lei invece è in me, nella mia mente, e mi fa essere ciò che sono».
«Ti sei troppo affezionato a quella ragazza».
«Anche questo è vero» mormorò l’angelo, e lasciò che il suo pensiero si manifestasse tutto: «Forse ne sono innamorato!»
«Quello che stai pensando è molto grave».
«È più forte di me. Darei me stesso per la sua felicità!»
«Tu appartieni a Dio!» gli ricordò Hesediel, con tono scandalizzato.
«Ma Dio può fare a meno di me…lei, forse, no!»
«Sacrificheresti per lei il tuo stato angelico?»
«Si, lo farei!»
«Inaudito!» fece l’arcangelo, meravigliato.
«Ridatemi l’involucro di carne, affinché possa accorrere da lei!» pregò Omael.
«Ormai è polvere, e comunque inadeguato all’età che ti abbisogna» gli fece notare l’arcangelo per scoraggiarlo.
«Datemene un altro!» e nella sua richiesta c’era un’urgenza incontenibile. «Uno qualunque!»
«Ma non saresti più tu!»
«Io sono il mio corpo?»
«Assolutamente no!» affermò risoluto Hesediel. «L’uomo non è il suo corpo, ma la sua anima, sede dell’intelligenza».
«E allora sarei sempre io» dedusse l’angelo.
«La fusione con il corpo azzererebbe la tua memoria e il tuo sapere», lo avvertì l’arcangelo, «e la nuova esperienza ti potrebbe foggiare diversamente, come ferro antico nella fucina di un fabbro».
«Potrei non ricordare Caterina?»
«Diventerebbe un’estranea per te».
«Tanto può il corpo, pur essendo inferiore all’anima?»
«Sì! Addirittura gli impulsi corporali ti potrebbero fare innamorare di un’altra».
«I sentimenti che ho in me sarebbero cancellati?»
«Non del tutto. Una loro traccia rimarrebbe in fondo alla mente, ma una traccia labile, difficile da ridestare».
«È sempre una possibilità, e mi basta per tentare».
«Sei stato sempre un angelo strano» disse l’arcangelo rassegnato a quella richiesta inusuale tra i beati del Paradiso. «Non sei mai stato puro, come se la natura umana ti fosse rimasta appiccicata addosso in modo indelebile. A questo punto è meglio che porti fino in fondo l’esperienza di una vita terrena completa, per ritornare qui totalmente purificato. Preghiamo il buon Dio affinché ciò possa accadere».


VIII
Azem si riteneva fortunato ad aver trovato quel lavoro, anche se, alla fine della giornata, la fatica, su quel campo d’ortaggi, gli spezzava le ossa: oltre a sradicare le erbacce, raccoglieva le verdure, le sistemava nelle cassette e le portava al mercato con l’Ape. Quel campo era solo un pezzo della grande azienda agricola del cavalier Chiaromonte, e Azem ne aveva la piena responsabilità; forse per questo lavorava come un dannato per quattordici ore il giorno. Si regalava qualche momento di riposo per mangiare o quando da un balcone dell’edificio confinante col campo si affacciava una giovane incantevole, nera come lui, con una massa di riccioli scuri in testa, occhi grandi con sopracciglia folti, zigomi alti e labbra carnose.
 Sarà stato che fosse africana come lui, ma fin dal primo momento ebbe l’impressione di un viso familiare. Non si affacciava mai per fare la perdigiorno o per essere ammirata da lui, ma per necessità (scuotere un tappeto, stendere qualche panno, pulire i vetri); la qualcosa non dispiaceva al giovane.
Egli, di solito accovacciato sulle lattughe, subito si alzava in piedi, appena la vedeva, si toglieva il cappellino di ciclista con la tesa lunga, che portava per proteggere la testa dal sole, e le rivolgeva uno smagliante sorriso senza confini.
«Buon giorno, signorina!» le gridava.
Ma lei non rispondeva. Anche questa cosa gli piaceva… però fino a un certo punto, perché non riteneva riposante avere una moglie arcigna, essendo lui era un tipo allegro.
Era un tipo così festoso da cantare mentre la schiena, sempre curva, gli doleva, e le cassette di verdure gli pesavano come macigni, pur essendo di fatto leggere. Cantava la sua voglia di vivere pure guidando l’Ape, stracolma di ortaggi verdi, gialli, rossi e viola. Il vento della corsa gli asciugava i sudori e lui cantava a squarcia gola, e la radiolina, appesa allo specchietto, cantava con lui, anche la marmitta scassata dell’Ape cantava, a suo modo.
Il “tre ruote” carico di colori e circonfuso di musica, uscì sobbalzando dallo sterrato per immettersi nella comunale, proprio davanti al portone del convento e proprio mentre una ragazza ne usciva sopra una bici. L’urto fu evitato per un pelo, grazie alla manovra dei due guidatori, istintivamente coordinata: lui a sinistra e lei a destra.
Caterina andò a sbattere contro la facciata dell’orfanotrofio e, lasciata la bici a terra, si avventò come una furia verso l’incauto giovane, pronta a colpirlo con la borsetta.
«Tu sei pazzo!»
Il giovanotto, irritato dal dolore perché aveva sbattuto la testa contro il tettuccio, fu sul punto di rispondere con pari aggressività, ma riconoscendo la fanciulla dei suoi sogni, rimase bloccato, a bocca aperta.
«Lo capisci che mi potevi ammazzare?»
Azem sorrise, deciso ad allentare la tensione: non poteva consumare questo incontro in un litigio.
«Mi vuoi picchiare?» chiese con dolcezza.
«Te lo meriteresti!» disse lei calmandosi. «Non si corre così».
«Corro, ma faccio anche tanto rumore».
«E con questo?»
«Tutti si scansano sempre» spiegò il giovane. «Solo tu non ti sei scansata, oggi».
I due giovani parlavano gridando, come se litigassero, per sovrastare la musica che continuava a provenire dal veicolo.
«Ah! La colpa è mia adesso!»
«Non tua» la calmò il giovane. «Ma del destino che ci ha voluto fare incontrare in questo modo».
Adesso toccò alla ragazza restare perplessa.
Disse: «Hai una bella faccia tosta».
«Però io ho aiutato il destino».
«Come?»
«Correndo per arrivare in tempo all’appuntamento con te».
«Come facevi a sapere che stavo per uscire?» chiese la ragazza per metterlo in difficoltà.
La risposta fu improntata dalla massima sicurezza; «Lo sentivo, qua dentro di me».
A quella risposta la giovane, completamente smontata, rise di cuore. Un trillo, in cui la “Ah” variava continuamente di tono, che piacque ad Azem. “Non è arcigna” si disse. “Non me la devo lasciare scappare!” E intanto si lambiccava il cervello per cercare di ricordare dove mai avesse sentito un riso così chiaro e sincero.
«Sono venuto da Omou per questo incontro».
«Omou?»
«Ciad! Africa!» fece il giovane, stupito della sua ignoranza.
«Ok, ho capito», disse la giovane, «non te la prendere!»
«Io venuto da lì per te».
«Per me?» chiese la ragazza sfasata dall’affermazione detta in tutta serietà, poi capì che la voleva sorprendere e aggiunse: «sei uno sbruffone!»
«Va bene buffone, se ti piaccio» disse lui.
E la ragazza tornò a ridere colorando d’azzurro la giornata.
«Non sei mai stata a Omou?» chiese lui.
Lei fece segno di no, continuando il suo trillo.
«Sono Italiana, nata in Italia, mai stata in Africa» aggiunse poi.
«Eppure credo di averti vista in altro luogo, in altro tempo».

Adesso la radiolina, appesa allo specchietto, cantava con dolce passione e anche la marmitta scassata dell’Ape scoppiettava romanticamente.




































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