domenica 20 marzo 2016






FAVOLA TRISTE


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FAVOLA TRISTE
Alberto Di Girolamo

La madre era uscita in cerca di cibo e Verdino era costretto a stare dentro a sorvegliare l’eventuale schiusa delle uova dalle quali dovevano nascere i suoi fratellini; egli era venuto al mondo prima degli altri e la madre non sapeva spiegarsi se era stato lui prematuro, oppure erano in ritardo gli altri. Sta di fatto che appena possibile lo aveva messo a controllare le due uova ancora con l’embrione dentro.
Quell’ordine materno gli seccava perché era una bella giornata e il sole riscaldava le pietre fino a renderle infuocate, tant’è che il tepore arrivava all’interno del muretto, dove c’era la loro tana.
Dal profondo dell’ammasso dei sassi tufacei, stirando il collo, riusciva a scorgere in fondo al camminamento il giorno luminoso, e ciò lo pervadeva di malinconia e lo spingeva ad autocommiserarsi: “Mi tocca stare in questo posto ombroso quando potrei essere beato su una calda roccia” si diceva Verdino, e questa considerazione lo faceva sentire più rattrappito di quanto fosse.
Quel bagliore che s’incuneava tra le pietre era una tentazione seducente per quelli della sua specie che solo stando al sole potevano aumentare la propria temperatura corporea e quindi il loro benessere. Nelle viscere del muro a secco non c’era freddo ma l’ombra che vi stagnava era insopportabile per Verdino, tuttavia, per non disubbidire alla madre, rimase al suo posto, finché notò qualcosa che poteva soddisfare le sue esigenze di calore senza allontanarsi troppo: il sole del mezzodì cadeva sul muricciolo dall’alto inondando l’orlo inferiore del tunnel che portava alla tana.
«Potrei», pensò Verdino, «distendermi nell’ingresso lucente di sole e mantenermi pronto ad accorrere alla schiusa delle uova».
Contento della trovata che lo metteva in pace con il suo senso del dovere, percorse più veloce che poté la galleria che saliva verso l’uscita e, oltrepassato il confine ombroso, si stravaccò sul sasso, già bello caldo.
La posizione appena raggiunta non era proprio come se l’era immaginata, perché l’ultima curva gli nascondeva le uova con l’embrione dei fratellini. Ma il calore era troppo piacevole e non se la sentiva proprio di tornare indietro nell’ombra della tana, e per tacitare la sua coscienza si disse: «Vuol dire che di tanto in tanto faccio due passi e guarderò giù».
In quel giorno di luglio per metà consumato, il raggio solare era una lama di fuoco al cui contatto Verdino sentì il sangue sciogliersi e pulsare dentro di lui, quasi esplodere nelle sue viscere. Beato, si appiattì il più possibile, per niente impressionato dallo strano tremolio, appena un fremito, che percorreva la pietra sulla quale si trovava.


Le vibrazioni, che a intermittenza si propagavano sotto la pancia di Verdino, erano prodotti da due ragazzi, appena adolescenti, che, sfruttando gli appigli e gli interstizi, salivano sopra il muro diseguale che separava un campo coltivato dal sentiero, e poi saltavano giù, a gara; regola era il restare inchiodati sul punto di caduta come un vero ginnasta: la fissità nell’atterraggio e la lunghezza del salto determinavano la vittoria. Ma a ogni salto il perdente aveva sempre da ridire e si accendevano discussioni serrate.
«Ti sei mosso».
«Ho vinto e basta»
«Hai fatto un saltello in avanti».
«Niente affatto».
«Io ho vinto cinque volte».
«Adesso siamo pari».
«Ti sei mosso».
«Non sai perdere».
«Con te non gioco più».
«Neanche io gioco più con te».
«Vai via!»
«Vai via tu!»
La foga o la calura canicolare accendeva i volti dei ragazzi dal piglio guerresco, e se non fosse stato per Davide, si sarebbero sicuramente accapigliati.
Davide era il più grande dei tre e invece di partecipare alla gara se ne stava seduto per terra, spalle al muro e sigaretta accesa tra le labbra; guardava i compagni con un occhio solo, l’altro lo teneva chiuso per proteggerlo dal fumo che, salendo tortuoso, gli lambiva la palpebra.
«Lo dico io chi ha vinto» intervenne, con autorità, e gli altri due si rimisero al suo arbitrato, anche se il perdente, per ripicca, si rifiutò di continuare il gioco.
«Hai fifa!» lo provocò Alessio, il vincitore.
Mauro non raccolse la sfida, si limitò a dire con aria annoiata: «Mi sono stufato di saltare!»
E il provocatore: «Hai capito che con me non ci puoi».
«Neanche ti penso!» affermò Mauro sempre con noncuranza, per non dargli credito.
«Facciamo un altro salto» propose Alessio, sicuro della sua superiorità. «Chi vince questo, è il campione assoluto».
«Ti dissi che mi sono stufato» ribatté Mauro, che temeva il confronto.
E Alessio, in piena baldanza: «Cambiamo gara».
«Andiamo al carrubo e vediamo chi sale più in alto» propose con grinta Mauro che aveva molta fiducia nella sua agilità.
«Andiamo!»
«Andiamo!»
E si sarebbero avviati verso l’albero della tenzone, continuando a sfidarsi, se non fosse intervenuto Davide.
«Fermi!» ordinò, sempre con un occhio chiuso e l’altro aperto. «Prima devo finire questo lavoro».
«Si può sapere cosa stai facendo?» chiese Alessio.
«Non lo vedi?» fece Davide, infastidito.
«Non capisco» insistette Alessio ottusamente.
«Sono delle freccette» spiegò Mauro felice di superare l’amico-avversario in intelligenza, almeno.
«Proprio quelle» confermò Davide. «E appena finisco, ci giochiamo».
«E il carrubo?» chiese Mauro.
«Niente carrubo oggi» tagliò corto Davide. «E ora lasciatemi completare il lavoro in santa pace».
Egli stava legando con un filo da cucito quattro fiammiferi di legno, stretti in modo da formare un fascio parallelepipedo rettangolare dalla cui base inferiore, quadrata, spuntava uno spillo di sartoria che sarebbe stato bilanciato nella base opposta da due piume di gallina. Da questa legatura dipendeva il buon funzionamento della freccetta: un avvolgimento allentato avrebbe fatto rinculare la punta al momento dell’impatto col bersaglio; per questo Davide aveva chiesto di non essere disturbato; addirittura si era tolta la sigaretta dalla bocca, per utilizzare entrambi gli occhi in quell’operazione di massima concentrazione.
Alessio e Mauro non glielo fecero ripetere due volte e cominciarono a girovagare per ingannare il tempo, poi cominciarono a correre lungo il muro, con l’intenzione di calpestare l’avena selvatica che vi cresceva rigogliosa a ridosso. A un tratto Alessio si fermò, fulminato da un’idea, e trattenne per un braccio l’amico che continuava a saltellare.
«Che c’è?» chiese Mauro, liberandosi con uno strattone dalla presa.
«Non hai visto quante lucertole vi sono?» chiese a sua volta Alessio, mentre gli occhi gli brillavano per la trovata che aveva in testa.
«E allora?»
«Proviamo a catturarne una» propose Alessio.
«Per fare cosa?» chiese Mauro commiserando il compagno, e provò a riprendere la galoppata ma Alessio lo trattenne di nuovo.
«C’è da divertirsi» assicurò.
«Non è facile acchiappare una lucertola con le mani» obiettò Mauro.
«Con le mani no, ma con il cappio si può» affermò Alessio.
Mauro non era ancora convinto: «E come facciamo il cappio?»
«Con l’erba» rispose Alessio, sicuro di sé. «Che ci vuole?»
«Io non ci riesco» dovette ammettere Mauro.
«Lo faccio io» si propose Alessio.
E si mise subito all’opera.
Tagliò alla base, con le unghie, uno stelo di avena fatua: era un gambo lungo quasi un metro, sottile in alto e robusto in basso, perfetto per realizzare un cappio. Lo ripulì dalle guaine fogliari e strappò con cura, a una a una, le spighette, stando attento a non spezzare il fuso sottile della pannocchia cadente. Sempre con delicatezza prese la punta filiforme, la piegò verso il basso e realizzò un nodo scorsoio: scorreva bene, ma per prudenza Alessio lo lubrificò, sputandovi sopra.

Ora che si era riscaldato, Verdino si sentiva veramente in forma, e gli era venuta anche fame. L’istinto lo induceva ad andare a caccia per acquetare lo stimolo che gli veniva dallo stomaco, ma la promessa fatta alla madre lo bloccava. Fremente d’impazienza, non si dava requie: correva verso le uova, nessuna novità, ritornava all’imboccatura, la calura esterna lo invitava all’aria aperta, ma la proibizione della madre era come un ostacolo invisibile che lo bloccava; era severa la madre! La sera prima lo aveva morso sul collo, perché aveva addentato una falena riposta vicino alle uova, a disposizione dei nascituri. Neanche la fame riusciva a cancellare l’invisibile presenza della madre!
In uno di quest’andirivieni trovò all’imboccatura qualcosa di nuovo: un filo sottilissimo, attorcigliato su se stesso. Che caspita era? Vibrava leggermente ma non era minaccioso. Forse lo si poteva mangiare. Bastava sporgere la testa per afferrarlo e tirarlo dentro. La madre non avrebbe avuto nulla da ridire. Pur convinto che fosse inoffensivo si avvicinò quatto quatto al filo verde e lo toccò col muso, era leggermente inumidito ma morbido, sicuramente masticabile. Aprì la bocca per afferrarlo e proprio allora il filo d’erba gli scivolò sulla testa e misteriosamente gli si strinse attorno al collo.



«Preso» gridò Alessio, e strattonò il gambo vegetale verso l’alto in modo da impiccare la lucertolina che si trovò a penzolare nel vuoto sebbene avesse tentato, con gli artigli delle venti dita, di tenersi attaccata alla pietra.
In aria, senza alcun appiglio, dopo un paio di guizzi Verdino si afflosciò come morto: era la prima cosa che la madre gli aveva insegnato: “Se non puoi scappare resta immobile”.
«È piccola» costatò Mauro, girando attorno alla preda.
«E con questo?» fece Alessio con rabbia, temendo che il compagno volesse sminuire la sua impresa.
«È una lucertola appena nata».
«E con questo?»
«Lasciamola libera» propose Mauro. «Fa pena!»
«Prima ci gioco un poco» decise Alessio, e depose lentamente il piccolo sauro a terra.
A Verdino non sembrò vero avere di nuovo le zampe sul duro terreno battuto e, istintivamente, si mise a correre verso il muro a secco: in una di quelle crepe avrebbe trovato la salvezza. Ma, quando stette per toccare il ruvido tufo, il filo erboso si tese di nuovo e gli strozzò la gola e riprese a sollevarlo, nel frattempo il muro, l’agognato muro, si allontanava. E di nuovo Verdino fu posto con le zampe sul terreno polveroso e di nuovo iniziò la sua folle corsa per essere bloccato, quando stava per arrivare alla salvezza.
«Corre come un cavallo» disse Alessio, mentre tallonava il giovane sauro, tenendo il gambo d’avena come fosse una briglia.
«Vuoi provare?» chiese generosamente al compagno, mentre riportava il suo destriero al punto di partenza.
«No, grazie!» rispose Mauro che non si voleva indebitare, neanche moralmente.
«Sei invidioso!» lo accusò Alessio, e indispettito com’era, prese a scuotere il fusto erbaceo fino a spezzarlo.
A lui, in mano, ne restò un mozzicone mentre il resto cominciò a serpeggiare nella sabbia, tirato da Verdino che correva disperatamente verso il muro.
Vi fu la risata di Mauro che disse: «Ti ha fregato!»
Ma si sbagliava, perché Alessio saltò a piedi uniti sul gambo che strisciava, bloccando Verdino mentre infilava la testa in un buco del muro a secco.
«Volevi fuggire!», disse Alessio, tenendo il giovane sauro impiccato davanti a sé, «e per questo sarai punito».
«Che vuoi fare?» chiese Mauro, preoccupato del ghigno che trasfigurava la faccia del compagno.
Ma Alessio non lo degnò di una risposta. Tenendo la lucertola sospesa come un pesciolino all’amo, raggiunse un gelso dal tronco esile per la giovane età e vi legò il rettile, utilizzando la sfilacciatura dello stelo, poi si allontanò di qualche passo, raccattò una pietra e si preparò a lanciarla contro Verdino, dicendo: «Ora ti spiaccico!»
 E l’avrebbe fatto se non fosse stato fermato da Davide.
«Aspetta!» disse costui. «Usiamola come bersaglio per le mie freccette».
E ne lanciò una per provarla. La freccetta, roteando su se stessa, arrivò, come un proiettile, sul tenero tronco e lo spillo vi si conficcò dopo aver attraversato la coda della lucertola. Automaticamente Verdino con una contrazione staccò da sé la coda che, pur infilzata, prese ad agitarsi convulsamente. La qualcosa divertì enormemente i ragazzi che si misero a ridere piegandosi in due.
«Adesso ci provo io» disse Mauro che, a fronte del divertimento, non sentiva più pietà per l’animale.
Si fece dare una freccetta da Davide e la tirò, dopo aver preso la mira: la spilla infilzò la zampa superiore e le cinque dita si tesero per il dolore.
Proprio allora, Verdino, guardando verso il basso, la vide. Nascosta da un ciuffo d’erba, la madre lo guardava con infinita tristezza: teneva la bocca aperta e il cuore sottogola le pulsava all’impazzata.
«Perché, madre, perché?» fu la muta domanda di Verdino.
Ma non ebbe risposta. Non poteva averla, neanche la madre capiva tanta crudeltà.

«Siete delle schiappe!» gridò con derisione Alessio, e si preparò a lanciare la terza freccetta.
Con la scusa della rincorsa egli rubò qualche metro alla distanza e lanciò il dardo in modo da fargli descrive un arco. La punta arrivò sul bersaglio girando come un trapano, perforò senza sforzo il cuore di verdino e s’inchiodò tutta quanta nella scorza del gelso.
La madre istintivamente saltò fuori dal ciuffo d’erba, quasi ad accorrere in soccorso del figlio.
«Guardate!» avvertì Mauro. «Ce n’è un’altra».
«L’acchiappo io!» gridò Davide e si tuffò, per agguantare il rettile.
La madre, terrorizzata, prese a correre tra i fili d’erba, schivando le mani del predatore, e riuscì a infilarsi in una crepa prima che una scarpa calasse su di lei. Il buco era abbastanza profondo da farla sentire al sicuro e rimase lì a vegliare nell’angoscia il figlio in croce.
«Ormai non la pigliamo più» disse Mauro.
«Correva come una saetta» affermò Davide pe giustificare il suo fallimento.
«Però io la stavo schiacciando» si vantò Alessio.
«Andiamo al carrubo?» chiese Mauro che aveva voglia di rivincita.
«Ma sì, andiamo!» concesse Davide.
«Andiamo!» approvò pure Alessio.
«Prima però recupero le mie freccette» disse Davide, accendendosi un’altra sigaretta.
Si avvicinò al gelso ed estrasse facilmente le prime due freccette, la terza, quella che aveva trafitto il cuore di Verdino, si portò dietro il rettile perché la carne si era appiccicata ai fiammiferi.
«Che schifo!» fece Davide.
Poi con un sorriso sardonico si tolse la sigaretta dalle labbra e accostò la brace alla testa di un fiammifero che s’infiammò subito, accendendo gli altri. Davide aspettò che la fiamma divenisse vivace e poi lanciò il tutto, rettile e stecchini, in aria, lontano. Fu come una cometa che attraversò l’aria tersa per andare a cadere oltre il muro.





































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