Alberto Di Girolamo
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO
GIUDAICO-CRISTIANO
PREFAZIONE
Per parecchi
anni (2002 – 2008) ho cercato nei libri di esegesi e di teologia una risposta
alle numerose domande che mi ponevo sulla religione giudaica e su quella
cristiana.
Alcune
risposte sono state convincenti, altre generiche o evasive, ma alla fine mi
sono fatto un mio convincimento.
Dagli appunti di questo studio ha preso
forma questo scritto che non posso definire in altro modo se non un resoconto
delle letture fatte (1) e delle
riflessioni che ne sono derivate.
Leggerlo potrà servire a farsi un’idea del dibattito, mai
concluso, sul fronte storico-critico-esegetico e a
suscitare la voglia di un approfondimento.
Questo tipo
di studi costituisce un fatto sconvolgente e affascinante che avvince il
ricercatore in modo tale da non lasciare spazio per nient’altro: è il caso di
dire che una lettura tira l’altra.
Almeno così è stato per me.
NOTA
1) Chiarisco
che, avendo condotto questo studio per il soddisfacimento di un bisogno
personale, non sono stato molto accurato nell’annotare i testi da cui ho preso
qualche concetto. Su richiesta sono pronto a fare ammenda della mia leggerezza,
aggiungendo i dati mancanti.
CAPITOLO PRIMO
LA COMPOSIZIONE DEL LIBRO SACRO
SI CONOSCONO GLI AUTORI E LA DATA DI REDAZIONE DELL’ANTICO
TESTAMENTO?
Secondo
i fondamentalisti di ogni tempo, tutti i libri che compongono l’A.T. hanno un
preciso autore e quindi una data di composizione, relativa al periodo in cui visse
lo scrittore. Ma la critica moderna ormai è unanime nel considerare ogni
singolo libro come un’opera stratificata, scritta, in un lungo arco di tempo,
da più autori successivi e in diversi generi letterari. È molto probabile che
inizialmente si trattassero di racconti tramandati oralmente che furono fissati
per iscritto a partire dal XIII-X secolo a.C.
Prendiamo ad esempio i libri più antichi, quelli della Torah (Pentateuco per i cristiani) che costituiscono le fondamenta di tre religioni (Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo). I sostenitori della tesi Mosè-autore-della-Torah si richiamano, oltre a quanto trasmesso dalla tradizione, ad alcuni passi che esplicitamente parlano di un Mosè scritturale:E il Signore disse a Mosè: “Scrivi queste cose [la
vittoria sugli Amaleciti] per ricordo nel libro e fai ben comprendere a Giosuè,
che io cancellerò affatto la memoria di Amalec di sotto al cielo” (Esodo 17,
14).
Quindi Mosè mise per scritto tutte le leggi del
Signore; e la mattina, levatosi per tempo, eresse ai piedi del monte un altare
e dodici cippi, per le dodici tribù d’Israele (Esodo 24, 4).
Poi il Signore disse a Mosè: “Scrivi queste parole;
poiché in base a queste clausole Io ho stretto un patto con te e con Israele”.
E Mosè rimase sul Monte col Signore per quaranta giorni e quaranta notti, senza
mangiar pane, né bere acqua. E il Signore scrisse sopra le tavole le clausole
del patto, i dieci comandamenti (Esodo 34, 27 – 28).
Queste sono le tappe dei figli d’Israele che uscirono
dall’Egitto, divisi a schiere, sotto la guida di Mosè ed Aronne. Mosè scrisse
le loro marce, tappa per tappa, per ordine del signore; e queste sono le tappe
secondo l’ordine delle loro marce…(Numeri 33, 1 – 2).
Mosè scrisse poi questa legge e la
consegnò ai sacerdoti figli di Levi, che portavano l’Arca del patto del
Signore, e a tutti gli anziani d’Israele (Deuteronomio 31, 9).
Ma ci sono anche dei passaggi che portano a
conclusioni completamente diverse; citiamo come esempio il cap. 34 del Deuteronomio dove
vengono raccontati la morte e i funerali di Mosè:
Allora Mosè, dalle steppe di Moab, salì sul monte di
Nebo, una vetta del Fasga, il quale eleva dirimpetto a Gerico. E il Signore gli
fece vedere tutto il paese. […] Poi il Signore gli disse: “Questo è il paese
che Io giurai di dare ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, quando dissi: Io lo
darò alla tua progenie. Io te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non
c’entrerai”. […] E Mosè, servo del Signore, morì lassù, nel paese di moab; come
il Signore aveva ordinato: e Dio lo seppellì nella valle. […] Mosè, quando
morì, aveva 120 anni; tuttavia la vista non gli si era indebolita e il vigore
non gli era venuto meno. Allora i figli d’Israele lo piansero nelle steppe di
Moab per trenta giorni, terminati i quali, ebbero fine i giorni di pianto
dedicati al lutto per Mosè.
È ovvio che questo passo smentisce la tesi che Mosè possa essere stato l’autore della Torah,
per il semplice fatto che nessuno può raccontare i particolari della morte di
se stesso. Di fronte a questa difficoltà, gli studiosi di parte si tolgono
d’impaccio considerando questi versetti delle aggiunte successive, forse
da parte di Giosuè. Può essere che sia stato così, ma è pure legittimo pensare
che le aggiunte siano le frasi pro-Mosè-autore; magari il beneficio del dubbio
dovrebbe essere concesso, volendo vestire di scientificità la propria fede, invece
di utilizzare i risultati del moderno esame testuale solo quando conviene alla
propria tesi.
QUANDO HA AVUTO
INIZIO LO STUDIO CRITICO DELL’A.T.?
Nel 1600 alcuni teologi e alcuni filosofi incominciarono a
mettere in dubbio che i libri del Pentateuco fossero stati scritti ai tempi in
cui era vissuto il loro presunto autore, senza però riuscire a produrre una
prova convincente a sostegno del loro sospetto. La cosa riuscì al medico
francese Jean Astruc, appassionato lettore della Bibbia; egli nel 1753
pubblicò, a sue spese, un’opera (Conjectures sur les mèmoires originaux dont
il paroit que Moyse s’est servi pour composer le livre de la Genèse) nella
quale rilevò che in molti passi del primo libro del Pentateuco Dio è chiamato Elohim
e in altri Jhwh. Ciò era la prova, per l’esegeta francese, che nel
Genesi confluivano due fonti diverse che trattavano lo stesso argomento.
Successivamente gli studiosi continuarono l’analisi critica
testuale, iniziata dall’Astruc, pervenendo a delle conclusioni che si possono
così sintetizzare: 1) le differenze di stile e di sintassi, riscontrabili nelle
varie pagine, stanno ad indicare che l’estensore di quei libri non poté essere
stata una sola persona; 2) le contraddizioni e le numerose ripetizioni (non
sempre opportune per una narrazione ordinata) degli stessi fatti e l’utilizzo
di nomi diversi per indicare Dio (Jahweh, Elohim) e il monte sacro (Horebb,
Sinai) si possono spiegare in modo ragionevole solo con l’ipotesi che la
redazione in nostro possesso sia la risultanza di una sovrapposizione, spesso
mal riuscita, di diverse versioni degli stessi avvenimenti. Oggi in modo
unanime gli studiosi ammettono l’esistenza di quattro fonti o strati originari
che differiscono per data e luogo di composizione e che sono indicati con le
lettere I. E. P. D. (= codice Iahvista, codice Elogista, Priestercodex o codice
sacerdotale, codice Deuteronomista); 3) Il Pentateuco - ma il discorso vale per
tutta la Bibbia - fu compilato in un lungo arco di tempo da diversi agiografi
che si sono succeduti nella compilazione con l’intento di rendere duraturo il
ricordo, trasmesso oralmente, delle vicissitudini del popolo eletto.
La tesi documentarista, che si venne così dispiegando,
agitò perfino le quiete acque dell’uniforme mondo cattolico tanto che la
Pontificia Commissione Biblica all’inizio del ‘900 volle salvare la tradizione
senza negare le recenti conclusioni esegetiche, affermando che i libri erano
stati scritti sostanzialmente da Mosè anche se si doveva ammettere una
tradizione orale e dei documenti anteriori a Mosè, come pure modifiche e
aggiunte posteriori. La stessa Commissione stimolava i cattolici ad
approfondire le ricerche: “Invitiamo perciò gli scienziati cattolici a
studiare, senza preconcetti, tali problemi alla luce di una sana critica e dei
risultati delle altre scienze connesse con quelle materie; tale studio
stabilirà senza dubbio la grande parte e la profonda influenza di Mosè come
autore e come legislatore” (1).
L’INVITO È STATO SEGUITO?
Da allora l’editoria cattolica ha prodotto moltissime
opere di esegesi biblica di pregevole valore, dove non viene più nascosta che
la compilazione dei testi sacri è avvenuta in un lungo arco di tempo, coinvolgendo
numerosi autori. Molti
studiosi-ecclesiastici per spiegare la stratificazione dei testi sacri
ricorrono all’esempio del tell archeologico, “cioè ad una di quelle
colline costituite artificialmente dagli strati dei vari stanziamenti umani:
una città costruiva sopra la precedente la sua storia, e l’archeologo,
tagliando la successione degli strati, riesce a leggere nella terra e nei
reperti la mirabile o tragica avventura d’una porzione della storia umana. Il
Pentateuco si presenta appunto come un tell dagli strati molteplici[…]”(2).
Tuttavia agli uomini di fede il “quando” e il “chi” relativi alla redazione
materiale del testo sacro interessa solo marginalmente, perché per loro, in
ultima istanza, la Bibbia ha avuto un solo autore, Dio, che ha ispirato i vari
agiografi, come viene specificato nelle delibere del concilio Vaticano II “Dio
scelse e si servì di uomini in possesso delle loro facoltà e capacità affinché,
agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte
quelle e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte” (3).
GLI AGIOGRAFI AGIRONO DUNQUE COME AUTOMI?
Nella delibera del concilio sopra riportata ci sono
due concetti che un logico non esiterebbe a definire contraddittori: da una
parte si afferma che Dio fa scrivere ciò che Lui vuole agli autori umani, e
dall’altra si definiscono costoro “veri autori”, escludendo così che siano
stati degli scrivani che hanno operato sotto dettatura. Ma la fede opera al di
là dei fatti e della ragione per cui non ha l’obbligo di sottostare alle regole
aristoteliche quando enuncia le sue verità. Ciò si può capire meglio attraverso
il seguente immaginoso dialogo.
NEOFITA – Qual è stata la funzione degli autori umani
dei Libri Sacri?
CATTOLICO – Essi si sono limitati ad asserire ciò che
Dio ha asserito, per cui, in ultima istanza, Dio è il vero autore della Sacra
Scrittura. E siccome Dio non può sbagliare, e neanche vuole ingannare, ne
consegue che tutto ciò che è contenuto nei testi rivelati è vero.
NEOFITA – Perciò gli agiografi sono degli strumenti
passivi della parola divina.
CATTOLICO – Non si deve essere così precipitosi nelle
conclusioni. L’agiografo non è passivo, infatti è perfettamente consapevole di
ciò che scrive, mentre scrive. Solo che lui non inventa nulla, ma espone la
verità rivelatagli da Dio.
NEOFITA – Vediamo. Se dico “L’agiografo è uno
strumento di cui si serve Dio” non sbaglio.
CATTOLICO – No.
NEOFITA – Ma non uno strumento passivo, bensì libero e
intelligente.
CATTOLICO – Giusto. Liberamente comprende e
liberamente scrive ciò che Dio gli rivela.
NEOFITA – In forza di questa autonomia - teoricamente -
è possibile un margine di errore da parte dell’agiografo.
CATTOLICO – No. Non è possibile, perché Dio illumina
la sua mente in modo che lo scrittore sacro “si faccia un giusto concetto” (4), il
che vuol dire che comprende il vero senza errore.
NEOFITA – Capisco che nel contenuto, provenendo da Dio,
non possono esserci errori, ma il genere letterario, lo stile, la lingua sono
decisi dall’uomo…
CATTOLICO – Sì e no.
NEOFITA – Sì e no?
CATTOLICO – L’agiografo non può non scrivere che nelle
forme e nella lingua di quel momento storico nel quale vive, ma Dio che lo
assiste mentre scrive gli suggerisce le espressioni più appropriate.
NEOFITA – Ma così siamo tornati al punto di partenza:
l’agiografo non mette nulla di suo; egli è un vero e proprio strumento della
volontà divina.
CATTOLICO – Non siamo esattamente al punto di
partenza, perché, questa volta, non lo hai definito strumento passivo. Egli è,
sì, uno strumento, ma uno strumento che accetta liberamente di essere tale.
NEOFITA – D’accordo. Ma, proprio per questa libertà io
pensavo che ogni eventuale errore fosse attribuibile all’agiografo.
CATTOLICO – Non può sbagliare perché egli è illuminato
e guidato da Dio.
NEOFITA – Se escludiamo l’agiografo, dovremo imputare
un eventuale errore a Dio stesso?
CATTOLICO – Impossibile! Dio non può sbagliare.
NEOFITA – E allora, a chi va addossato un eventuale
errore?
CATTOLICO – La risposta è semplice: o non comprendiamo
noi lettori o ha sbagliato qualche copista. Dio e l’agiografo sono esenti
dall’errore.
NEOFITA – Allora tutto ciò che non è coerente con la
critica esegetica e con la scienza non può essere attribuito alla penna
dell’agiografo e tanto meno a Dio.
CATTOLICO – Su questo bisognerebbe discutere caso per
caso, anche perché bisogna vedere se occorre un’interpretazione allegorica per
cogliere la verità trasmessa da Dio.
NEOFITA – Sarebbe interessante esaminare tutte queste
allegorie.
CATTOLICO – Però senza contraddire la Chiesa, per
evitare la scomunica.
QUANTI SONO I SENSI DELLA SACRA SCRITTURA?
Origene (185 – 255) nel trattato De principiis
sostiene che le Scritture rivelate vanno lette cogliendovi semplicemente il
significato letterale e storico, ma, se si è lettori attenti, si possono anche scoprire
significati morali e allegorie di verità spirituali. L’interpretazione
allegorica tentata da Origene ha lo scopo di correggere gli antropomorfismi del
Vecchio Testamento e di raggiungere un concetto puramente spirituale e
trascendente di Dio fino a identificarlo con il Bene platonico.
Il discorso sui diversi significati del testo sacro
venne ripreso da Agostino (354 – 430) che in La Genesi alla lettera
rileva come le parole della Scrittura si possono intendere in senso
storico-letterale o in senso figurato, e che solo ricercandone il senso
figurato si potesse dare una spiegazione a certe verità bibliche. Egli era
troppo intelligente per accettare alla lettera i miti cosmologici contenuti nel
Genesi e negli altri libri rivelati, ma la Chiesa non lo seguì su questa strada
e così l’interpretazione storico-letterale prevarrà per il lungo periodo
medioevale.
Prigioniera del fondamentalismo da essa stessa creato,
la Chiesa assumerà un atteggiamento di chiusura nei confronti di ogni scoperta
non in linea con i testi dottrinari, scontrandosi inevitabilmente con il
progredire della ricerca scientifica. L’episodio del Galilei, costretto
all’abiura (5), è noto a tutti, anche perché il papa Giovanni Paolo II ha
pubblicamente riconosciuto l’errore allora commesso. L’errore fu dovuto
all’interpretazione letterale di Gs 10, 12 – 13:
Fu allora che Giosuè si rivolse al Signore, in quel
giorno in cui Dio diede l’Amorreo in potere d’Israele, e gridò al cospetto di
tutto il popolo:
“O sole, fermati su Gabaon, e tu, o luna, sulla valle
di Aialon!”.
E il sole si fermò e la luna ristette, fino a che il
popolo si fu vendicato dei suoi nemici.
Basandosi
sui versetti appena citati i dotti della Chiesa avevano elaborato il seguente
sillogismo: Poiché la Bibbia parla di un sole che si muove, e poiché la Bibbia
non può sbagliare, ne consegue che la teoria eliocentrica - con il sole immoto
- è sbagliata ed eretica.
Oggi è impossibile trovare un cattolico disposto a sostenere
la teoria cosmologica della Chiesa seicentesca, perché tutti sanno che bisogna
interpretare il canto di Giosuè non come un testo di astronomia, ma come uno scritto
epico che celebra l’aiuto dato da Dio al suo popolo contro i nemici.
La Chiesa moderna, scottata dagli errori commessi in passato
a causa dell’interpretazione letterale dei testi sacri, si è attestata sul
versante opposto, prediligendo l’interpretazione allegorica dell’A.T. “Qualcuno
rimpiange queste letture <medioevali>. Io, francamente, no. Era un modo
d’intendere Dio troppo secondo la nostra misura, prendendo alla lettera anche
ciò che non solo è chiaramente detto in senso simbolico, ma ciò che proprio
così acquista tutta la sua enorme grandezza e suscita una risposta religiosa
più profonda e definitiva. Varie volte i Padri della Chiesa, ad esempio quel
genio di sant’Agostino, avevano anticipato questo tipo di lettura. Ma è solo
emergendo dalla tempesta critica che per oltre due secoli ha sottoposto le
Scritture al più micidiale dei bombardamenti che, confortati dalla stessa
Chiesa, possiamo leggere i sacri testi con occhi di uomini moderni, scaltriti
dalla comparazione con altre civiltà della Mezzaluna fertile, abituati a
sceverare in uno scritto il lavoro di due o più mani, di due o più tendenze
spirituali parallele o intersecate, aperti alla comprensione del vero
significato di un’enunciazione attraverso la più sicura conoscenza dei vari
generi letterari e dei loro diversi modi di <porgere> una stessa notizia.
È grazie a questo santo (sottolineo l’aggettivo) accrescimento di
nozioni e di intendimenti che oggi la lettura della Bibbia si rivela un
nutrimento ricchissimo, quasi sovrabbondante, per la nostra cultura laica
(anche se non, mi permetto di sperare, laicista) e una luce corroborante per la
nostra fede”(6).
Confortati dalla lunga citazione di questo studioso
cattolico, possiamo dire che:
-la tradizione giudaico-cristiana ha sbagliato attribuendo
precisi autori ai libri che compongono il Pentateuco;
-la tradizione giudaico-cristiana ha sbagliato a non
rigettare le crudeltà gratuite di cui è pieno l’A.T.;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica ad affermare che i testi
sacri sono rimasti integri;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica impuntandosi
sull’interpretazione letterale dei testi biblici;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica a opporre le sue credenze
alle scoperte della scienza.
IN PASSATO SI SONO COMMESSI TANTI ERRORI. PERCHÉ SCANDALIZZARSI
TANTO PER QUELLI COMMESSI DALLA CHIESA?
La Chiesa non è un soggetto qualunque. Per sua stessa
ammissione essa è illuminata dalla presenza costante nel suo seno dello Spirito
Santo che ha ricevuto dal Cristo. La Chiesa per sua stessa definizione non può
errare, perché, se sbagliasse, sarebbe come se sbagliasse lo Spirito Santo, il
che è impossibile.
I
Vescovi sono i successori degli apostoli, ed è per questo che “Dio, il quale ha
parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto, e
lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella
Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la
verità e fa risiedere in essi abbondantemente la Parola di Cristo” (7).
La convinzione di essere sostenuta dallo Spirito
Santo ha spinto la Chiesa ad auto proclamarsi unica interprete autorizzata e
verace dei testi sacri:
L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio
scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la
cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo”, [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 10] cioè
ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma
(Catechismo, par. 85).
Questo “Magistero però non è al di sopra della Parola di
Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per
divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta,
santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito
della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio [Conc.
Ecum. Vat. II, Dei
Verbum, 10] (Catechismo, par. 86).
Per
questa pretesa infallibilità interpretativa la Chiesa di oggi si trova
impantanata in un vicolo cieco. Da una parte non può rinunciare al principio
dell’infallibilità perché ciò significherebbe rinnegare la sua storia e il suo
essere istituzione divina; dall’altra parte, l’asserita infallibilità la mette
in difficoltà, quando è costretta, dall’evidenza della ricerca critica, a riconoscere
eventuali errori interpretativi, perché ne va di mezzo la sua credibilità e la
sua potestà nel cuore dei fedeli:
I fedeli, memori della Parola di
Cristo ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), [Cf Conc. Ecum.
Vat. II, Lumen
gentium, 20] accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono
loro dati, sotto varie forme, dai Pastori (Catechismo, par. 87).
Gli
errori della Chiesa hanno, oltre un valore storico, un valore dottrinale ancora
attuale. Ciò spiega la dura e rigida posizione della Chiesa quando le si
rivolgono delle contestazioni, e spiega pure
perché ogniqualvolta non abbia potuto fare a meno di rivedere certe
errate convinzioni lo abbia fatto utilizzando un fuoco di sbarramento fatto di
“se” e di “ma”, che sminuisse la portata teologica dello sbaglio. Per evitare
queste imbarazzanti situazioni la Chiesa – come abbiamo detto prima – ha capito
di dovere rinunciare il più possibile alla lettura letterale e affidarsi a
quella “spirituale” che è meno contestabile. Infatti con l’interpretazione
allegorica si rimane comunque sul piano soggettivo delle congetture: si può non
essere d’accordo, ma non è dato dimostrare il contrario.
IL FONDAMENTALISMO È SCOMPARSO?
I Testimoni di Geova continuano imperterriti a interpretare
alla lettera i testi sacri. Oltre a loro, quanti altri credenti, per ignoranza
o per fanatismo, continuano a farlo, non lo sappiamo. Sicuramente sono tanti.
IN CHE MODO LE TRE GRANDI RELIGIONI MONOTEISTE SI RAPPORTANO
CON I LIBRI DELL’A.T.?
Tre religioni fanno riferimento all’A.T. – Ebraismo,
Cristianesimo e Islamismo – e tutte e tre si pongono, oggi, in una posizione di
superamento dell’A.T. anche se continuano a proclamarne la sacralità. Nelle
loro dottrine il testo arcaico dell’ebraismo ha un carattere di provvisorietà
superato da nuove posizioni che costituiscono il coronamento, il punto di
arrivo di quanto era stato rivelato dagli antichi profeti.
ISLAMISMO. Secondo l’insegnamento di
Maometto i libri biblici costituiscono una parziale rivelazione divina superata
e completata dal Corano (lettura), che contiene le rivelazioni ricevute dal
Profeta grazie all’intermediazione dell’angelo Gabriele (non è chiaro se Allah
si sia rivelato anche direttamente). Siccome la parola di Allah è eterna e
siccome il Corano è la forma visibile della parola di Dio, i musulmani
concludono che una copia originale, un prototipo del Corano sia sempre esistito
in cielo. Questo prototipo celeste, chiamato madre del libro (Umm al – kitab),
a un certo punto della storia, in una notte santa del mese di Ramadan, fu
trasferito dal cielo superiore al cielo inferiore affinché l’angelo Gabriele
potesse rivelarlo al Profeta. Alcuni esegeti ritengono che anche il libro che i
fedeli leggono quotidianamente è eterno e increato, perché “Ciò che si trova
tra le due copertine è la Parola di Dio”.
Per gli storici i 114 capitoli (surah) che lo
compongono sono stati scritti in tempi diversi e dopo la morte di Maometto. Le
prime trascrizioni furono volute da ‘Omar, verso il 633, per evitare che la
memoria dei discorsi del Profeta andasse dispersa, ma la redazione definitiva
fu compiuta sotto il califfo ‘Utman (644 – 655 d.C.). Durante il suo califfato
un’apposita commissione redasse l’edizione canonica del Corano, bloccando così
la circolazione di raccolte incontrollate dei discorsi del Profeta. “Ora la
recensione utmanita, che aveva posto termine alle controversie fra le comunità,
non risolse tutti i problemi e principalmente non apparve soddisfacente per
l’uso liturgico. Apparvero, poi, varianti che riguardano la lettura a motivo della
carenza dei copisti addetti alla trascrizione, alla persistenza di differenti
tradizioni orali, alla peculiarità dell’arabo scritto che, mancando di vocali e
di segni diacritici, consentiva notevolissime varianti nella lettura, con conseguenze in alcuni
casi importanti per la interpretazione del testo”(8).
Dal punto di vista esegetico appare evidente la influenza
ebraico-cristiana nell’impianto teologico ed escatologico presente nel Corano:
personaggi biblici come Mosè, Abramo e Gesù sono esplicitamente citati come
precursori e uomini santi; e poi c’è l’aspettativa della fine del mondo e del
giudizio universale; è di chiara derivazione giudaica anche il concetto base di
un
dio personale che, pur trascendendolo, domina il mondo in modo completo, e il
fedele non può fare altro nella vita che abbandonarsi alla sua volontà. Anche
la maggior parte delle leggende coraniche sono rielaborazioni di narrazioni
riportate dalla Torah o di racconti ebraici popolari, come il mito della
creazione, la disubbidienza dell’angelo Iblis, il peccato di Adamo ed Eva.
Va precisato che gli Islamici riconoscono come testi
rivelati, precedenti la predicazione del Profeta, la Torah, i Salmi
e l’Evangelo, forse perché erano i soli testi conosciuti da Maometto.
GIUDAISMO. Il Concilio ebraico di Iamnia, tenutosi nel
90 d. C., ha stabilito che bisognava considerare come rivelati i libri della
Torà (cinque), quelli dei Profeti (otto) e gli Agiografi (undici). Con questa
delibera il Concilio fece propria la tradizione degli Ebrei di Palestina
risalente ai tempi di Esdra (V sec. a. C.) e rigettò la tradizione degli Ebrei
di Alessandria, formatasi qualche secolo dopo, che considerava ispirati da Dio
vari altri libri (9). Gli scritti inseriti nel canone ufficiale e
considerati ispirati furono chiamati “protocanonici”, mentre quelli esclusi dal
catalogo furono detti “deuterocanonici”. Questa distinzione si fece secondo
Giuseppe Flavio utilizzando il criterio dell’immutabilità nel tempo: “La
venerazione di cui noi circondiamo questi libri [protocanonici] è dimostrata
dal fatto che da tanti secoli nessuno ha mai osato aggiungervi niente,
togliervi niente, alterare niente. S’inculca a tutti i Giudei, fin dalla
nascita, che bisogna credere che essi contengono gli ordini di Dio, che bisogna
custodirli, e, se necessario, dare anche la vita per essi” (10).
I primi sacerdoti della storia ebraica
furono Aronne e suo figlio della tribù di Levi. I loro discendenti formarono
una classe a parte sotto la guida dei sommi sacerdoti, massime autorità
religiose e in certi momenti anche capi politici. Ma l’ufficio decadde con la
distruzione del tempio. Dopo la diaspora, la guida delle singole comunità passò
nelle mani del rabbino (rabbi = mio signore) che pur esercitando mansioni
religiose non è considerato un sacerdote, ma piuttosto un maestro religioso.
La dispersione della popolazione fece nascere nei rabbini la
preoccupazione che l’interpretazione della Bibbia, elaborata nei secoli e
trasmessa oralmente di generazione in generazione, andasse dimenticata; per
evitare questo si provvide a metterla per iscritto. Nel III sec. Rabbì Jehudà
Ha-Nassì compilò la prima raccolta (arricchita poi da altri maestri
prestigiosi) degli insegnamenti orali, chiamata Mishnah (ripetizione della
legge), in essa vennero descritti gli usi e i costumi che, ispirandosi alla Torah,
si erano consolidate nel tempo, diventando le norme religiosi, civili e penali
che avevano regolato la vita della nazione israelita fino alla diaspora. Tra la
Torah e la Mishnah, c’è lo stesso rapporto che c’è tra la lingua
latina e la lingua italiana, nel senso che questa, pur derivando da quella, ne
ha preso il posto nella vita pratica. Per gli ebrei la Bibbia contiene in modo
esaustivo tutti i precetti possibili che servono all’uomo, pertanto basta lo
studio del testo sacro e una sua retta interpretazione per trovare la giusta
risposta a ogni problema collettivo o individuale, religioso o profano,
spirituale o materiale. Ma questa risposta non sempre è esplicita, e quindi
bisogna travalicare la lettura letterale per scoprire il significato nascosto
della Bibbia, ciò è possibile solo a chi si accosta alle sacre parole con la
giusta predisposizione:
«Questo comandamento che
oggi ti do, non è troppo difficile per te, né troppo lontano da te. Non è nel
cielo, perché tu dica: "Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce
lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?". Non è di là dal mare,
perché tu dica: "Chi passerà per noi di là dal mare e ce lo porterà e ce
lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?".
Invece, questa parola è
molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in
pratica. (Deuteronomio 30, 11 – 14)
L’Insegnamento del passo appena riportato è abbastanza
chiaro: è necessario e doveroso studiare la Torah per capirla nei minimi
particolari e per metterla in pratica. Questo studio, fin dal VI sec., innescò
un dibattito interpretativo che si mantenne sempre acceso nei secoli, per cui
quando si prospettò la necessità di mettere per iscritto la Legge orale, molti
Maestri espressero il dubbio che la passione e la vivacità culturale che aveva
fino allora accompagnato la lettura della Torah potesse, per così dire,
sclerotizzarsi, ingessarsi in formule fissate per sempre. Ma, come abbiamo visto,
alla fine la preoccupazione che il frutto di quegli studi secolari andasse
perduto fu più forte e nacque la Mishnah. A sua volta la Mishnah
stimolò i rabbini di Gerusalemme e quelli di Babilonia a studiare questo testo
e a esprimersi sulle leggi in esso contenute; la Mishnah e l’insieme di
questi commenti (Gemara) costituisce il Talmud (studio) (11).
Teoricamente la discussione non è conclusa e il Talmud è un libro aperto a ogni
futuro contributo. Il Talmud è un’opera enciclopedica dove si parla,
oltre che di teologia, di disparati argomenti scientifici, storici, letterari.
Il Talmud è diventato un libro fondamentale nella formazione spirituale
e culturale degli Ebrei, tanto che esso è posto allo stesso livello della
Bibbia. L’ebraismo oggi esistente, pur avendo le sue radici nella Torah,
è molto diverso dalla religione praticata dai patriarchi. Alcuni teologi, per
armonizzare il vecchio e il nuovo, hanno definito l’ebraismo attuale come la
religione della doppia Legge, appunto la Torah e il Talmud. Nel loro
rapportarsi con la Legge dei Loro padri, gli Ebrei moderni si sono scissi in
due confessioni: i Riformisti e Gli Ortodossi. L’ebraismo riformista ebbe
inizio in Europa durante l’Illuminismo, ma si diffuse nel corso dell’Ottocento
mettendo in discussione l’autorità del Talmud e dell’interpretazione rabbinica
in nome del metodo della critica storica che essi stavano adottando nella
lettura della Bibbia ebraica. Ai Riformisti si deve il concetto teologico di
Rivelazione progressiva “Forse, come aveva argomentato Spinoza, le vecchie
leggi bibliche (per non parlare di quelle rabbiniche) erano le leggi
dell’antico governo ebraico, non più applicabili in cui venivano < rivelati
> nuovi valori etici, morali e spirituali.” (12). Il
manifesto dell’ebraismo riformato fu stilato in un’apposita conferenza tenutasi
a Filadelfia:
Conferenza di Filadelfia, 3-6 novembre 1869.
Dichiarazione dei principi.
I. Lo scopo messianico di Israele non è la restaurazione
del vecchio Stato ebraico sotto un discendente di Davide, che implicherebbe una
seconda separazione dalle nazioni della terra, ma l'unione di tutti i figli di
Dio nel riconoscimento dell'unità di Dio al fine di realizzare 1'unità di tutte
le creature razionali e la loro chiamata alla santificazione morale.
2. Consideriamo la distruzione della seconda comunità
ebraica non una punizione per la cattiveria di Israele, ma il risultato del
proposito divino rivelato ad Abramo, che, com'è diventato ancora più evidente
nel corso della storia del mondo, consiste nella dispersione degli ebrei in
tutte le parti della terra per la realizzazione della loro somma missione
sacerdotale, ovvero condurre le nazioni alla vera conoscenza e adorazione di
Dio.
3. Il sacerdozio di Aron e il culto sacrificale di Mosè
furono passi preparatori al vero sacerdozio dell'intero popolo, che cominciò
con la dispersione degli ebrei, e ai sacrifici di devozione sincera e
santificazione morale, gli unici apprezzati e accettabili per il Santissimo.
Queste istituzioni, preparatorie per una religiosità più elevata, furono
consegnate al passato una volta per tutte con la distruzione del Secondo
Tempio, e soltanto in questo senso -come influenze educative del passato -
devono essere menzionate nelle nostre preghiere.
4. Per quanto riguarda i riti e i doveri religiosi, ogni
distinzione tra aaronidi e non-aaronidi è di conseguenza inammissibile sia nel
culto religioso sia nella vita sociale.
5. La scelta di Israele come popolo della religione,
portatore dell'idea più elevata di umanità, deve essere ancora, come sempre,
fortemente sottolineata, e proprio per questa ragione, ogniqualvolta sarà
menzionata, ciò avverrà mettendo nel massimo risalto la missione mondiale di
Israele e l'amore di Dio per tutti i Suoi figli.
6. La fede nella resurrezione del corpo non ha fondamento
religioso, e la dottrina dell'immortalità si riferisce unicamente alla
sopravvivenza dell' anima.
7. Sebbene il mantenimento della lingua ebraica, in cui
vennero riposti i tesori della rivelazione divina e in cui sono conservati i
resti immortali di una letteratura che influenza tutte le nazioni civilizzate,
debba sempre essere una nostra priorità assoluta in quanto realizzazione di un
dovere sacro, bisogna prendere atto che questa è diventata inintelligibile alla
grande maggioranza dei nostri correligionari. Pertanto, le attuali circostanze
consigliano di cedere nella preghiera a una lingua intelligibile, giacché la
preghiera, se non è compresa, è una forma senz’anima (13).
In seguito la piattaforma, soprattutto nel XX sec., è stata
adeguata ai nuovi tempi con delle deliberazioni che hanno cambiato la legge
tradizionale ebraica: così alla donna è stata data l’opportunità di diventare
rabbino, al figlio di una coppia mista di essere considerato ebreo in ogni
caso, e non soltanto quando lo fosse la madre, all’omosessuale di vivere con
dignità la sua “diversità”; negli ultimi tempi, poi, c’è stato un recupero
della lingua ebraica, segno di un accresciuto orgoglio nazionale, dopo
l’olocausto e la formazione dello Stato d’Israele, e si è accentuata la
dimensione etica e spirituale dell’Ebraismo, rinunciando ai sogni di gloria e
di potenza legati all’aspettativa di un Messia esclusivo.
Furono gli stessi riformisti a coniare il termine “ortodosso”
per indicare i propri oppositori troppo legati, secondo loro, all’Ebraismo
tradizionale. Gli ortodossi naturalmente rigettano le novità suggerite dai
riformisti, per ribadire una assoluta fedeltà alla Torah le cui norme, essendo
di origine divina, non possono essere sottoposti ad alcun cambiamento. Detto
questo, non è più possibile fare un discorso unitario sull’Ebraismo ortodosso
perché esso forma un mondo molto variegato dove i punti di divisione prevalgono
su quelli che uniscono.
Questa tendenza a dividersi sull’interpretazione delle leggi della
loro religione è sempre esistita nel popolo ebraico. Così, ad esempio, ai tempi
di Gesù, c’erano le seguenti correnti o sette che caratterizzavano la
spiritualità ebraica: 1) i Sadducei (“figli di Sadoq”, gran sacerdote
contemporaneo di Salomone), i quali ritenevano vincolanti solo le dottrine
della Torah e di conseguenza non credevano nella sopravvivenza dopo la
morte e nella resurrezione dei corpi, inoltre, avevano un atteggiamento
tollerante e permissivo nei confronti degli obblighi religiosi; politicamente
essi ritenevano inevitabile collaborare con i Romani per averne in cambio pace
sociale e libertà religiosa; 2) i Farisei (separati) che si
contrapponevano ai Sadducei, perché consideravano rivelati anche gli scritti
successivi alla Torah, perché credevano nella sopravvivenza e nella
resurrezione e perché rigettavano ogni “lassismo” nell’adempimento dei precetti
religiosi, anzi sostenevano che solo un minuzioso rispetto della tradizione
poteva garantire la sopravvivenza della religione dei padri. Nei Vangeli Gesù si
scaglia appunto contro il loro formalismo in nome di una fede più spontanea,
interiore e concretamente realizzata. In politica i Farisei erano meno
disponibili dei Sadducei a collaborare con i Romani e ad accettare l’influenza
culturale del mondo ellenico. Una sottocorrente farisaica fu quella degli
zeloti che si distinguevano per il loro odio contro i romani contro i quali non
esitavano a usare la violenza; 3) i Samaritani, stanziati nella
regione omonima, discendevano da quegli ebrei che, avendo evitato la
deportazione in Assiria, si erano fusi con altri popoli della regione. I
Giudei, fin dai tempi di Esdra ebbero nei loro confronti un atteggiamento di
disprezzo sia perché non si erano mantenuti etnicamente puri sia perché praticavano
una religione eterodossa in quanto limitavano la rivelazione ai soli cinque
libri di Mosè, e per i loro culti non facevano capo al Tempio di Gerusalemme ma
a un santuario situato sul monte Garizim; 4) gli Esseni (uomini pii e
santi), che abbiamo imparato a conoscere dopo la scoperta dei rotoli del Mar
Morto (1947, nei pressi della località di Qumran), avevano costituito un ordine
monastico in una località desertica (il deserto, fin dai tempi di Mosè, era
considerato luogo privilegiato per incontrare Dio) dove praticavano una santa
vita comunitaria, aspettando l’avvento imminente del regno di Dio. Essi avevano
un’alta opinione di se stessi, tanto che si consideravano come “il resto o
residuo eletto d’Israele” e che pertanto il Patto o Alleanza di cui parla la
Bibbia si riferiva solo a loro e non più a tutti gli ebrei, perché la classe
sacerdotale, divenuta strumento del male, aveva trascinato il popolo nel
peccato. Alcuni studiosi, alla luce degli antichi manoscritti di Qumran,
ritengono che tra i fedeli di questa setta ci fossero stati anche Giovanni il
battezzatore e Gesù, i quali a un certo punto avrebbero lasciato il loro eremo
nel deserto, dissociandosi dagli altri seguaci, per spingere il maggior numero
possibile di connazionali a prepararsi all’imminente giudizio di Dio.
CRISTIANESIMO. I Cristiani vantano un numero maggiore di
testi sacri, in quanto, oltre ai testi “protocanonici” (riconosciuti da
cattolici e protestanti) e a quelli “deuterocanonici” (riconosciuti solo dai
cattolici), (14) hanno i loro scritti specifici che costituiscono il
cosiddetto nuovo testamento, e precisamente:
-i
quattro Vangeli che contengono la nuova Legge;
-gli
Atti degli Apostoli che narrano della chiesa nascente e della sua
diffusione;
-le
quattordici lettere di San Paolo e le sette lettere cattoliche – chiamate
così perché non indirizzate ad una Chiesa in particolare, ma alle Chiese in
generale – che hanno un valore didattico;
-l’Apocalisse
di San Giovanni Apostolo.
Per i cristiani Il N.T. è l’ultima
rivelazione di Dio, quella definitiva che non annulla le precedenti, ma le
modifica fornendo una nuova chiave di lettura che è il vero modo di intendere
il contenuto veterotestamentario.
Secondo la nuova chiave di lettura, L’A.T.
acquista il suo autentico significato se riferito allegoricamente a Cristo;
ecco alcuni esempi:
-il versetto 15 del Genesi è
chiamato “protovangelo”, perché in esso Dio preannunzia la futura redenzione:
Io porrò inimicizia fra te e la Donna, fra il seme tuo e il
Seme di lei; Egli ti schiaccerà il capo e tu lo insidierai al calcagno.
Per i Cristiani queste parole sono una
profezia riguardante Maria e Gesù, che riapriranno quel paradiso che Eva e
Adamo avevano fatto chiudere;
-Isacco raffigura Cristo: Isacco è il
figlio più amato di Abramo, come Gesù è il figlio prediletto del Padre, Isacco
è condotto a versare il suo sangue su un monte e lo stesso accadrà a Gesù,
Isacco trasporta la legna che servirà al suo sacrificio e Gesù trasporterà la
croce, Isacco si lascia legare senza resistenza offrendo la gola al coltello e
Gesù si lascia stendere sulla croce e inchiodare;
-il roveto ardente di Es 3, 2 è simbolo
della verginità di Maria. Come il roveto arde senza bruciare, così Maria generò
senza corrompersi (San Gregorio – Cf in
La Sacra Bibbia nota 2 di pag. 71);
-la traversata del mar Rosso è un segno
della vittoria di Cristo e del Battesimo che ci salva dal peccato come la
traversata salvò gli Ebrei dalla schiavitù (Cf 1Cor 10, 2);
-la manna è simbolo dell’Eucarestia.
Concludendo, le scritture giudaiche
rappresentano per il Cristianesimo il passato – tanto che vengono chiamate
Vecchio Testamento – e il loro valore consiste soprattutto nel fatto che in
essi è possibile individuare i segni profetici, e quindi la legittimazione, di
quella nuova “economia” che trova la sua piena espressione nei libri del nuovo
testamento ove il Dio d’Israele si rivela a tutta l’umanità.
SI DEVE CONCLUDERE CHE SULL’A.T. SIA CALATO IL SIPARIO DELLA
STORIA?
Il testo è sempre vivo e attuale perché
continua ad alimentare la fede di milioni e milioni di persone; perché è un
libro esistenziale con il quale bisognerebbe che tutti facessimo, prima o poi,
i conti; perché è un libro storico con il quale si è avviato un percorso di
cultura e di civiltà che ancora non si è esaurito; perché “vuole essere” un libro
di storia che narra le vicissitudini di un popolo.
IL PUNTO SUL PRIMO CAPITOLO
Il
pio cattolico che ci ha seguito fin qui si sarà chiesto se il Nuovo Testamento,
a differenza del Vecchio, sia esente da problemi filologici-letterari. Per
rispondere a questa domanda consideriamo solo i Vangeli che sicuramente
costituiscono le fondamenta di tutta l’“economia” cristiana, perché riassumono
ciò che Gesù ha fatto e ha detto negli ultimi anni della sua vita. Ogni buon
cristiano li ha sempre letti, pensando che si trattassero di testi semplici,
lineari e soprattutto veritieri, visto che gli autori presunti furono compagni
di Gesù (Matteo e Giovanni) o vissero a ridosso di quegli anni (Marco e Luca),
ma chi volesse curiosare tra i numerosissimi libri di critica, anche quelli di
matrice cattolica, scoprirebbe un tale groviglio di problemi sui tempi di
composizione, sugli autori, sul contenuto e sull’integrità dei testi che lo
lascerebbe quanto meno perplesso sull’origine rivelata a cui è abituato a
credere.
SUI
TEMPI: Subito dopo la morte di Gesù si diffuse una vasta tradizione orale che
cominciò a essere messa per iscritta non prima degli anni cinquanta;
inizialmente dovettero essere (usiamo il condizionale perché non esistono più)
degli appunti o comunque brevi scritti che riportavano singoli episodi della
vita del Messia o i suoi detti (loghia). Tutti gli studiosi sono
d’accordo nel ritenere che gli evangelisti abbiano attinto a questo materiale
primitivo, scegliendo ciascuno ciò che maggiormente si adattava al tema e
all’obiettivo che si era proposto. Oltre a sfruttare tutti quanti la stessa
fonte, ogni evangelista (eccetto, naturalmente, il primo) ha utilizzato quello
che avevano scritto gli altri in precedenza, ciò vale soprattutto per i
sinottici.
Sulla
primogenitura dei vangeli sinottici ci sono due ipotesi: 1) Il Vangelo di Marco
è il più antico; a esso hanno attinto Matteo e Luca aggiungendovi notizie prese
da altre fonti; infatti in Matteo e Luca troviamo materiale preso da Marco
mentre in Marco non c’è materiale preso dagli altri due sinottici. 2) Matteo fu
il primo a scrivere il Vangelo; lo dice Origene (III sec.) in un passo
riportato da Eusebio (Hist. Eccl., VI):
Come ho appreso dalla tradizione
riguardo ai quattro vangeli, che soli sono ammessi senza controversia nella
Chiesa di Dio che è sotto il cielo: per primo fu scritto secondo Matteo, che
era stato pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo, pubblicato per i credenti
provenienti dal giudaismo, composto in lingua ebraica.
Ma
se dobbiamo tenere conto della testimonianza più antica del vescovo Papia (metà
del sec. II), non è appropriato parlare di un Vangelo di Matteo in lingua
ebraica, perchè si trattò solo di una raccolta di detti, infatti Papia dice:
Quanto a Matteo, egli riunì in lingua
ebraica le sentenze e ciascuno le tradusse come potè. (La frase è riportata da Eusebio Hist. Eccl.,
III).
Ovviamente
(altrimenti il problema non sussisterebbe) questo scritto di Matteo in aramaico
(la lingua parlata in Palestina ai tempi di Gesù) è andato perduto, per cui noi
possediamo solo una traduzione in greco; il traduttore nel suo lavoro ha tenuto
conto del Vangelo di Marco, a tal punto che W. G. Kummel vede in Matteo la
stessa struttura di Marco arricchita da altro materiale (15). Questo basta per
farci concludere che tra i vangeli a nostra disposizione la priorità cronologica spetta a Marco. Oggi, anche in
campo cattolico, dove Matteo è stato sempre posto al primo posto, si dà la
precedenza a Marco (pur con qualche distinguo per non smentire del tutto la
posizione passata): “Si potrebbe iniziare la trattazione dei vangeli sinottici
da quello di san Marco, che sembra tra i tre il più arcaico quanto alla
composizione. Tuttavia se si guarda all’utilizzazione della Chiesa antica, il
vangelo di san Matteo è il primo tra i vangeli che appare usato negli scritti
cristiani fin dal I secolo, e quello a cui si ricorre con maggiore frequenza” (16).
E ancora lo stesso autore, dopo aver attribuito a Matteo “almeno” i “detti”,
aggiunge: “Ciò che si deve ritenere è che il Matteo greco, se non è stato
composto direttamente in greco, è almeno stato profondamente rielaborato in
occasione della traduzione sulla base di Marco” ( 17).
Se
sulla priorità di Marco quasi tutti gli studiosi sono d’accordo, lo stesso
vasto consenso non si ritrova invece sulla data di composizione del primo
Vangelo. Gli studiosi su questo punto si dividono in due gruppi: quelli che
suggeriscono come data possibile i primi anni settanta e quelli (soprattutto
cattolici) che indicano gli anni cinquanta o addirittura gli anni quaranta. I
primi sostengono che il vangelo sia stato scritto dopo il 70 perché in esso –
come negli altri sinottici - viene riferito, sotto forma di predizione, un
grave evento accaduto in quell’anno: la distruzione di Gerusalemme da parte
delle legioni di Tito (vedi capitolo secondo). Di fronte a questa “prova” i
cattolici ribadiscono che non è assolutamente chiaro che i versetti evangelici
si riferiscano all’avvenimento del 70, può essere benissimo che la descrizione
di quella sciagura sia effettivamente una previsione, un presagio nato dal
timore che il grande fermento nazionalistico che serpeggiava in quegli anni in
Palestina potesse suscitare una feroce reazione dei romani i quali non
avrebbero esitato a commettere l’abominio che era già avvenuto nel 176 a. C. e
raccontato nel Vecchio Testamento (2 Mac 6. Dn 9). Scartata, con questo
ragionamento, la collocazione dopo il 70, alcuni studiosi si sono spinti a
indicare il periodo della redazione di Marco tra il 42 e il 50, ipotizzando che
l’evangelista sia stato indotto a scrivere la “piccola apocalisse” dai tumulti
scoppiati a Gerusalemme in seguito alla notizia che l’imperatore Caligola (37 –
41) volesse porre le sue statue nel tempio della città santa. Di questo
episodio avvenuto nel 40-41 abbiamo, oltre alla testimonianza di Tacito, quella
di Giuseppe Flavio :
[Caligola]inviò Petronio con un esercito a
Gerusalemme per collocarvi le sue statue nel tempio, dandogli ordine, se i
giudei non le avessero volute introdurre, di uccidere chi avesse voluto opporre
resistenza (la Guerra Giudaica II,10 –
Mondadori, Milano 1982).
Inoltre
- argomentano i sostenitori della stesura del Vangelo di Marco prima del 70 - ammesso
e non concesso che la descrizione in questione si riferisca alla impresa di
Tito, nulla toglie che sia stata un’aggiunta fatta a un testo già fissato prima
della fatidica rivolta.
SUGLI
AUTORI: La Chiesa ha sostenuto fin dal II secolo che gli autori dei quattro
vangeli siano stati rispettivamente Marco, Matteo, Luca e Giovanni; questa
vecchia tradizione è la miglior prova sulla paternità dei vangeli. La prima
testimonianza è di Papia che si rifà a quanto gli ha riferito un presbitero di
nome Giovanni. La testimonianza di Papia ci è stata conservata da Eusebio di
Cesarea:
E il Presbitero diceva questo: Marco, interprete di
Pietro, scrisse con fedeltà,ma senza ordine,(18) quel
che si ricordava degli atti e detti del Signore, giacchè egli non udì né
accompagnò il Signore, ma, più tardi, come ho detto, Pietro. […] Quanto a
Matteo, egli riunì in lingua ebraica le sentenze e ciascuno le tradusse come
potè. (Hist. Eccl., III)
Segue cronologicamente la testimonianza di
Ireneo, padre della Chiesa, che verso la fine del II sec. scrisse Adversus Haereses che conosciamo indirettamente (soprattutto
grazie al solito Eusebio):
Matteo poi tra gli Ebrei nella loro lingua pubblicò un
vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano in Roma e fondavano la
Chiesa. Dopo la dipartita di costoro, Marco discepolo e interprete di Pietro,
anch’egli ci trasmise per scritto le cose predicate da Pietro. Anche Luca,
seguace di Paolo, pose in un libro il vangelo da lui predicato. Poi Giovanni,
discepolo del Signore, colui che aveva riposato sul seno di lui, anch’egli
pubblicò un vangelo durante la sua residenza ad Efeso in Asia. (Adversus Haereses, III)
Che i vangeli canonici siano stati scritti
dai quattro autori tradizionali, apostoli o discepoli di apostoli, è pure
confermato negli scritti di Tertulliano (155 – 222 circa), Clemente
Alessandrino (150 – 215 circa), Origene (185 - 254) e dal Canone Muratoriano.
Quest’ultimo è un documento mutilo, trovato dal sacerdote e storico Ludovico
Muratori (1672 – 1750) nella biblioteca Ambrosiana, che riporta l’elenco dei
libri riconosciuti e utilizzati dalla Chiesa romana alla fine del II secolo,
tra cui i vangeli con i loro autori.
Malgrado queste
autorevoli affermazioni, parecchi critici continuano
ad esternare dubbi sulla paternità dei Vangeli. Ad esempio, a molti studiosi
sembra eccessivo il sentimento antisemitico di cui è pervaso il Vangelo di
Matteo; sentimento che lo porta, lui ebreo, ad accusare i connazionali di
deicidio con il chiaro intento di scagionare il procuratore romano dalla colpa
di aver condannato a morte Gesù:
Ora, i pontefici e gli anziani persuasero le folle a
chiedere Barabba e a perdere Gesù. Riprendendo la parola, il governatore disse
loro: “Quale dei due volete che io vi liberi?”. Allora essi dissero: “Barabba”.
Dice loro Pilato: Cosa dunque farò di Gesù detto il Cristo?”. Rispondono tutti:
“Sia crocifisso”. Ma egli replicò: “Che male dunque ha fatto?”. Essi intanto
gridavano più forte dicendo: “Sia crocifisso”. Allora Pilato, visto che non
approdava a nulla ma,anzi, che ne nasceva un tumulto,
prese dell’acqua e si lavò le mani davanti al popolo, dicendo: “Io sono
innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi”. E tutto il popolo
rispose: “Il sangue suo ricada su noi e sui nostri figli”.
Allora, egli lasciò loro libero Barabba e, dopo averlo
fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. (Matteo 27, 20 –
26)
Inoltre un ebreo non avrebbe commesso
l’errore di collocare un branco di maiali in Palestina (dove non erano allevati
perché considerati animali impuri) e non sarebbe incorso in una serie di
anomalie nel raccontare il processo di Gesù: il sinedrio si riunisce di notte e
non di giorno, presso la casa del sacerdote Caifa e non nel luogo deputato per
questo, la condanna è pronunciata immediatamente senza ascoltare tutte le
testimonianze.
Anche su Giovanni quale autore del quarto
Vangelo sono avanzate diverse perplessità. In primo luogo l’età: quando lo
compose all’inizio del II secolo, egli avrebbe dovuto avere circa 90 anni, il
che smentirebbe Gesù che gli aveva predetto una morte da martire (MARCO 10, 35 – 40). In secondo luogo l’istruzione: se dobbiamo credere a Matteo (4, 21) e a Marco (1, 19), Giovanni era un
pescatore privo d’istruzione e quindi non poteva scrivere in greco e tanto meno
esordire parlando del logos, concetto sviluppato dalla filosofia greca per
indicare il principio metafisico del cosmo. In terzo luogo le amicizie
altolocate: l’autore raccontando dell’arresto di Gesù dice di se stesso che
ebbe la possibilità di entrare nella casa del gran sacerdote, mentre Pietro era
stato bloccato davanti al portone (Giovanni 18, 15 – 18); orbene, gli studiosi
non riescono a spiegarsi come facesse Giovanni, provinciale poco più che
adolescente, ad avere amicizie così altolocate come il pontefice Anna.
SUL CONTENUTO. La conclusione unanime degli
studiosi è che ciascun evangelista ha sfruttato solo una parte del materiale
preesistente e l’ha scelto in base allo scopo che si prefiggeva e in base alle
persone cui era diretto il suo scritto, così: Marco è presentato dalla
tradizione come un ebreo palestinese che conobbe bene Pietro tanto che Giustino
definisce il suo Vangelo “le memorie di Pietro”, si tramanda pure che il suo
scritto, in lingua greca, si rivolgesse alle comunità cristiane convertitosi dal
paganesimo e, per mostrare a esse la divinità di Gesù, indugia sui fatti
miracolosi; l’apostolo Matteo scrive il suo Vangelo per dimostrare ai suoi
connazionali giudei che Gesù è il figlio di Davide, il Messia promesso, e per
fare questo collega le profezie messianiche dell’Antico Testamento agli eventi
della vita di Gesù e alle parole da lui dette o forse sarebbe meglio dire che
adatta la figura di Gesù alle profezie messianiche in modo da dimostrare che
esse si sono realizzate con lui; Luca, un medico di Antiochia, fu compagno di
Paolo e conformemente al suo insegnamento presenta insistentemente Gesù come il
salvatore di tutta l’umanità e non solo dei Giudei; l’apostolo Giovanni,
infine, scrisse il suo Vangelo quando la comunità cristiana era in piena
espansione e quindi si rendeva necessario (e possibile) un approfondimento
teologico della figura e dell’insegnamento di Gesù.
Pur ammettendo che ciascun evangelista
abbia attinto quello che gli interessava dalla copiosa tradizione primitiva dei
detti e dei fatti che riguardavano Gesù, si rimane lo stesso sconcertati per le
divergenze che esistono tra i quattro Vangeli e soprattutto tra i sinottici e
il quarto vangelo; e si badi bene che non sempre si tratta di minuzie, ma
spesso le divergenze riguardano eventi e messaggi fondamentali nella dottrina
di Gesù Cristo, per i quali si ci aspetterebbe una perfetta corrispondenza in
tutti e quattro i vangeli. Facciamo alcuni esempi:
-I sinottici citano dodici apostoli mentre
Giovanni ce ne segnala solo otto dei quali uno, Natanaele, non c’è nei
sinottici;
-nel quarto Vangelo non si parla
dell’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena, invece occupa un posto
di rilievo la lavanda dei piedi, assente nei sinottici;
-secondo i sinottici l’ultima cena
avvenne, come voleva la tradizione ebraica, il giorno di Pasqua (14 Nisan). Ma,
per Giovanni, Gesù nel giorno di Pasqua era già nelle mani di Pilato, e quindi
la cena è avvenuta prima (Giovanni 18, 39);
-le sfasature cronologiche tra i quattro
vangeli non riguardano solo l’ultima cena e la crocifissione. Anche sulla data
di nascita di Gesù le indicazioni degli evangelisti sono discordanti: Matteo
(II, 1) sostiene che Gesù è nato al tempo del re Erode, sicuramente si tratta
di Erode il grande, e questo significa almeno quattro anni prima della nostra
era, perché è certo che Erode morì nell’anno 750 di Roma. Luca indica come momento della nascita
il censimento ai tempi di Quirino, governatore della Siria:
Ora, in quei giorni uscì un editto di Cesare Augusto
che ordinava il censimento di tutta la terra abitata. Questo censimento fu il primo che ebbe luogo quando Quirino era
governatore dellaSira. E tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella
propria città. Pertanto, anche Giuseppe salì dalla Galilea, dalla città di
Nazaret in Giudea, alla città di Davide, per farsi iscrivere con Maria sua
promessa sposa che era incinta.
Or avvenne che, mentre essi erano là, si compirono i
giorni in cui essa doveva partorire, e partorì il suo figlio primogenito, lo
avvolse in pannolini e lo depose in una mangiatoia, perché non vi era posto per
loro nell’albergo. ( Luca II, 1 – 7)
Ora, grazie a Tacito (Annali 3, 48), e a
Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XVII, 13; XVII, 1,1 e 2,1) sappiamo che il senatore Sulpicio Quirino
(morto il 21 d. C.) fu legato della Siria fra il 6 e il 12 e che nell’anno 6/7
attuò un censimento, perché, avendo Augusto deposto Archelao ( figlio e
successore di Erode) la Giudea era diventata una provincia imperiale e come
tale doveva pagare i tributi a Roma; il censimento costituiva il primo passo
per l’imposizione fiscale. Come si vede tenendo presente l’indicazione di Luca
la data di nascita si sposta di circa dieci anni.
Marco non ci dà alcuna indicazione sulla
data e sul luogo di nascita di Gesù; mentre Giovanni nel capitolo VIII (54-59)
riporta un dialogo di Gesù con i Giudei che rimette in discussione la
cronologia degli altri evangelisti:
Rispose Gesù: “Se io glorifico me stesso, la mia
gloria è nulla. C’è il padre mio che mi glorifica, che voi dite: è il nostro
Dio, ma non l’avete conosciuto; io invece lo conosco. E se dicessi che non lo
conosco, sarei mentitore come voi. Ma lo conosco e osservo la sua parola.
Abramo il padre vostro, esultò al pensiero di vedere il mio giorno, lo vide e
ne godè”. Gli dissero dunque i Giudei: “Tu non hai ancora cinquant’anni
e hai veduto Abramo?”. Disse loro Gesù: “In verità, in verità vi dico, prima
che Abramo fosse, io sono”. Presero dunque dei sassi per gettarli su di lui, ma
Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Questa discussione si svolge durante la
vita pubblica di Gesù, collocabile nell’arco di tempo che va dal 26 al 36 della
nostra era, perché questo è il periodo in cui Pilato fu procuratore della
Giudea. Ebbene, se sottraiamo cinquant’anni dalla data dell’incarico di Pilato
andiamo a finire a parecchi anni prima del 4 a. C. che ci veniva suggerito da
Matteo.
SULL’INTEGRITÀ DEI TESTI. Tutti gli
studiosi sono d’accordo nell’ammettere che i testi evangelici siano stati
manipolati dai traduttori e dai copisti finché la Chiesa, a cavallo tra il II e
il III secolo, per evitare controversie dottrinali e per esigenze liturgiche
non ne fissò il testo definitivo. Ma ormai erano diventati dei testi
stratificati e non era semplice scindere l’originale dalle aggiunte o
restaurare ciò che era stato modificato. Tuttavia un duro lavoro esegetico sui
testi iniziato nel ‘700 e che continua tutt’ora è riuscito ad individuare le
interpolazioni, anche se rimane sempre un ragionevole dubbio. Le modifiche e le
aggiunte erano state determinate da esigenze apologetiche, dalle polemiche con
i giudei e i pagani, dalla necessità di adattare gli scritti alla nuova
teologia che si andava elaborando soprattutto per opera di Paolo.
Sicuramente la tradizione orale primitiva
ebbe come nucleo centrale le vicende umane della vita di Gesù e un insegnamento
che non si discostava dall’essenza del giudaismo; e sicuramente la redazione
originale dei sinottici si attenne a quest’aspetto preminente della tradizione.
Le affermazioni sinottiche che si allontanano da questo paletto tradizionale
possono essere sospettate di essere delle glosse successive alla redazione
originale. Nella seconda metà del primo secolo la testimonianza degli apostoli,
travalicando i confini della giudea, si dovette adattare, per essere credibile,
alla cultura e alla mentalità ellenica, cosicché man mano che si discostò
dall’alveo del giudaismo e si diffuse nel mondo greco-romano, il Cristianesimo
subì un’evoluzione che, protesa a valorizzare il Cristo ovvero la divinità del
figlio dell’uomo, finì col perdere di vista il Gesù storico. Viene da sé che questo
sviluppo storico sia stato accompagnato da un “adattamento” degli scritti
evangelici alla contingenza della polemica e della propaganda.
Secondo molti studiosi, e iniziamo così
una serie di esempi, la nascita prodigiosa di Gesù da una vergine, preannunciata
da un angelo, è una leggenda collocata all’inizio dei Vangeli di Matteo e di
Luca, quando non bastò più affermare -come fa Marco - che Gesù sia stato investito da Dio a
compiere la sua missione messianica al momento del battesimo, perché in questo
caso sarebbe restato un semplice profeta, un uomo prescelto da Dio, ma pur
sempre un uomo, come sostenevano i Giudei. Con questa leggenda si vuole
sostenere in modo inconfutabile che Gesù è Dio stesso fattosi uomo, e si
ottengono almeno tre risultati: si rintuzzano le critiche dei Giudei; si
propone il cristianesimo come religione indipendente, esibendo un principio distintivo
inammissibile per la cultura religiosa ebraica; e si favorisce la conversione
dei pagani che già possedevano nella loro cultura storie del genere (19).
Un altro esempio d’interpolazione è dato
dalla spiegazione della parabola del seminatore in Marco (4, 10 – 20). Gesù
inizia la sua spiegazione rifacendosi alle parole di Isaia (6, 9):
E quando si trovò solo, quelli che erano coi dodici
intorno a lui lo interrogavano sulle parabole, ed egli diceva loro: “A voi è
dato il segreto del regno di Dio, a quelli invece che sono fuori tutto si fa in
parabole, affinché, guardando guardino e non vedano e ascoltando ascoltino e
non sentano, perché non si convertano e non sia loro perdonato”. (Marco 4, 10 –
12)
Da queste parole sembrerebbe che Gesù usi
appositamente le parabole affinché la moltitudine non capisca, non si converta
e non si salvi. Ma ciò è contrario alla missione che egli si era prefissato:
annunciare il prossimo avvento del regno di Dio affinché tutti si potessero
preparare a quell’evento escatologico. E poi a che cosa si dovevano convertire?
Egli non propone una nuova dottrina, ma esorta a pentirsi dei peccati commessi
per farsi trovare puri al momento del giudizio divino. Chi aggiunse alla
redazione originale i suddetti versetti (10 – 12) lo fece per spiegare,
rintuzzando così un’obiezione nei confronti del Cristianesimo primitivo, il
perché la massa ebraica non avesse recepito il messaggio di Gesù: i Giudei non hanno creduto, perché il
Signore vedendoli prevenuti nei suoi confronti li ha puniti negandogli quella
comprensione che li avrebbe potuto salvare. In altre parole è stato Gesù che
non li ha accettati e non viceversa (20). In conclusione si può considerare un’aggiunta discriminante nei
confronti dei Giudei, e proprio per questo non può essere attribuita a Gesù che
più volte ebbe a dire che la sua predicazione e la sua azione erano rivolte
alla salvezza del popolo eletto.
Un altro episodio sul quale grava il
sospetto che vi siano state delle aggiunte è quello relativo all’incontro di
Gesù con il Battista, un incontro che dovette essere determinante per il
giovane nazareno visto che subito dopo iniziò la sua vita pubblica. La scena è
questa: Gesù, uno sconosciuto galileo pieno di fervore religioso, arriva alle
rive del Giordano, dove un uomo (21) dalla
forte personalità che si crede essere stato inviato da Dio annunciava la
prossima venuta del regno di Dio, purificava, attraverso il battesimo, le
persone dal peccato per renderle pronte al giudizio divino, sferzava con
invettive i potenti della terra (farisei, sadducei e regnanti), ammaestrava
amorevolmente gli uomini di buona volontà a vivere nella temperanza e a essere
generosi verso i bisognosi. Tutti questi spunti li ritroveremo in bocca a Gesù,
per cui è forte la tentazione di saltare alla conclusione che il Nazareno sia
stato influenzato da Giovanni, e che ne continuasse la missione soprattutto
dopo la sua morte; questa conclusione, però, era inaccettabile da parte dei primi
cristiani che cercavano di accreditare Gesù come figlio unigenito di Dio,
andando al di là del messia-unto-servo-di-Javeh aspettato dagli Ebrei. Per
evitare il pericolo di un simile legame riduttivo di Gesù con Giovanni, gli
agiografi cristiani, non potendo tacere sull’importante funzione del Battista,
hanno voluto sottolineare la naturale superiorità del Signore con due
dichiarazioni. Una dello stesso Giovanni:
Allora anche Gesù si presentò dalla Galilea a Giovanni
presso il Giordano per essere da lui battezzato. Giovanni cercava di impedirlo
dicendo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?”. (Matteo
3, 13 – 14).
E l’altra dello Spirito Santo che irrompe
sulla scena del battesimo:
Or avvenne che, mentre tutto il popolo era battezzato,
anche Gesù si fece battezzare e, mentre pregava, il cielo si aprì, lo Spirito
Santo discese sopra di lui in forma corporea, come colomba, e dal cielo venne
una voce: “Tu sei il mio Figlio diletto; in te mi sono compiaciuto”. (Luca 3,
21 – 22).
L’apparizione dello Spirito Santo non è
una visione del solo Gesù, sicuramente è percepita dal Battista (22), ma, dalla lettura dei testi, si ha
l’impressione che tutti i presenti ne siano stati testimoni. Quindi si trattò
di un evento straordinario; una rivelazione che avrebbe dovuto impressionare in
modo indelebile i presenti e che si sarebbe dovuta diffondere per tutto Israele,
invece (e questo fa pensare a una aggiunta successiva) la visione non bastò a
convincere il Battista (cosa impossibile se fosse veramente avvenuta), tanto è
vero che essendo in prigione mandò alcuni suoi discepoli ad indagare su chi
fosse veramente Gesù:
Ora Giovanni, avendo udito nel carcere le opere di
Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: “Sei tu colui che deve
venire o ne dobbiamo aspettare un altro?”. (Matteo 11, 2 – 3).
Inoltre l’episodio non ebbe ulteriore
risonanza e mai più sarà evocato. Come accade spesso nei vangeli, finita la
narrazione dell’episodio, si comincia a parlare d’altro come se nulla fosse
avvenuto: in questo caso si riprende con la genealogia di Gesù. La struttura
episodica dei sinottici, dove ogni scena è fine a se stessa, ha senz’altro
favorito le interpolazioni, ma non ha potuto evitare le incongruenze anche
perché traduttori e copisti non sono stati tanto spregiudicati da cancellare il
testo primitivo che contraddiceva le loro aggiunte o modifiche. Questa tesi
trova sostegno dall’analisi dell’episodio che vede l’adolescente Gesù tra i
dottori del Tempio (Luca 2, 41 – 52). Nella pericope giganteggia la figura di questo ragazzo che stupisce i
rabbini con le sue domande e con il suo intelligente argomentare. L’episodio è
significativo perché prova la natura divina di Gesù, eppure è ignorato dagli
altri evangelisti e lo stesso Luca lo liquida con una battuta, preferendo
dilungarsi nel meno compromettente dialogo tra la madre preoccupata e il
ragazzo. Ora non si capisce perché Maria fosse tanto stupita e preoccupata,
conoscendo la missione divina del figliolo, missione che giustifica il
rimprovero che gli rivolge Gesù.
Per tutti questi motivi molti studiosi
considerano l’intero episodio come un’interpolazione prodotta dalla fantasia di
agiografi, insoddisfatti del fatto che gli evangelisti avessero lasciato nel
mistero l’infanzia del Signore.
Dopo
questo episodio Luca incomincia a narrare la vita pubblica di Gesù che, come
tutti sanno, si concluderà a Gerusalemme. All’ultimo ingresso di Gesù nella
capitale della Giudea è legata un’altra scena poco verosimile anche se presente
in tutti e quattro i vangeli. Gesù si fa portare un’asina, sulla groppa della
quale entra in città, così come prescriveva la profezia messianica di Zaccaria
(9, 9-10). E la gente che conosce bene quella profezia si lascia coinvolgere e
risponde positivamente, mostrando di credere che Gesù fosse il Cristo.
E la numerosissima folla stese i propri mantelli nella
via, altri poi tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sul cammino.
Intanto le folle che lo precedevano e seguivano gridavano dicendo: “Osanna al
figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna negli
altissimi cieli”. (Matteo 21, 8-9).
Ci sono almeno
due motivi per cui questa narrazione si ritiene inventata: 1) perché “questo
magnifico ingresso non ha alcun seguito; come se tutto l’entusiasmo si sia
fermato alla porta del Tempio, […]. L’indomani, in città, sembra che nessuno si
ricordi più nulla. Non mi pare che le cose sarebbero andate così, se anche una
parte dei Gerosolimiti avesse creduto di accogliere il Messia”(23). 2) Lo stesso Matteo chiude la scena parlando di “profeta” e non di
“messia”, quasi ad attenuare quanto detto prima:
Essendo poi entrato in Gerusalemme, tutta la città fu
commossa e dicevano: “Chi è costui?”. Le folle poi dicevano: “Questi è il
profeta Gesù, da Nazaret della Galilea”. (Matteo 21, 10).
Perché questa conclusione prudente di
Matteo? Forse non ha voluto irritare i suoi lettori ebrei; oppure temeva che l’esagerazione
del racconto potesse essere smentita da chi aveva ancora il ricordo di ciò che
effettivamente era accaduto?Ma, dall’altra parte, il fatto che l’episodio si
trovi in tutti i vangeli fa pensare che la storia circolasse nell’ambiente
cristiano così com’è raccontata; questo è un punto a favore di chi sostiene
l’autenticità dell’avvenimento.
Le ipotesi d’interpolazioni e le relative
dimostrazioni da parte dei critici sono numerose e riguardano tutta la
narrazione evangelica; ci vorrebbe un volume a parte per riportarle tutte. Noi
ci siamo limitati a spigolare qua e là per dimostrare che manca la più
elementare garanzia che quelle evangeliche siano effettivamente parole di Dio e
che tutti i fatti siano accaduti così come sono narrati.
Ciò significa che i Cristiani siano stati
degli imbroglioni che hanno alterato i fatti realmente accaduti? Quasi tutti
gli storici riconoscono il beneficio della buona fede, nel senso che essi non
considerarono i vangeli come un’opera storica, per cui doveva essere rispettata
l’aderenza ai fatti, ma erano considerati fin dall’inizio come un’opera
didattica o catechistica che aveva un compito ben preciso: fare proseliti e
ravvivare la fede della comunità che si stava formando; per questo motivo
sembrò legittimo a uomini pieni di spirito religioso e di fanatismo evidenziare
o calcare la mano su certe credenze, supposizioni, deduzioni, fatti che potessero
fare raggiungere lo scopo che si proponevano. Ma non sempre questo lavoro di
filtro e/o di modifica fu fatto con malizia e con cognizioni di causa tanto che
furono lasciati - la loro coscienza religiosa non permetteva di cancellare ciò
che era stato tramandato dagli apostoli - affermazioni che andavano in senso
contrario alle aggiunte che apportavano. Così, ad esempio, a proposito della
verginità di Maria nello stesso tempo in cui la proclamavano, lasciavano
sussistere delle asserzioni che, se non la negavano, la mettevano in dubbio (24) .
Posta di fronte
a questa lettura critica, disincantata e attenta ai minimi particolari, la
teologia cattolica ha tentato di conciliare certe sue posizioni tradizionali
con i risultati scientifici (e inconfutabili) della critica esegetica e
storica. E l’ha fatto cominciando a parlare anch’essa d’interpolazioni ed
errori di traduzione, pur conservando la convinzione che Dio: “dispose che
quanto Egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre
integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni” (Conc, Ecum, Vat. In
Catechismo, par. 74).
Per cercare di conciliare questa
convinzione con le obiezioni della critica indipendente, si attribuiscono le
difficoltà - come se non fossero reali - ai limiti dell’intelligenza umana che non può pienamente capire le parole di Dio
o ai limiti del linguaggio umano che Dio ha dovuto utilizzare per rivelarsi
all’uomo.
NOTE AL PRIMO CAPITOLO
1) cf in Introduzione de La Sacra Bibbia – Edizioni Paolini, Roma 1964.
Da questa edizione sono tratti tutti i passi biblici riportati in questo libro.
2) G. Ravasi, Antico Testamento -Mondadori, Milano, ristampa 2002
- pag.52.
3) cf. in G. RAVASI, op. cit., pag. 40.
4) Enciclica Providentissimus Deus, cf in Introduzione de La
Sacra Bibbia – Edizioni Paolini, 1964.
5) Riportiamo il testo dell’abiura:
Pertanto volendo io
levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente
sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta
abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e
qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che
per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali
per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun
eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero
all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
6) I. A. Chiusano in G. RAVASI, op. cit., pag. 9.
7) Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum,
7 cf. in Catechismo della Chiesa Cattolica, edito sulla rete di Internet, par.
79.
8) Alfonso M.
Di Nola, L’Islam –Newton Compton editori, Roma, 2001- pag. 59.
9) La
Sacra Bibbia, op. cit., pag. XV.
10) Idem, pag. XVI.
11) Va notato che questo libro che è alla base
dell’Ebraismo moderno, fu scritto dopo il vangelo che è alla base del
Cristianesimo.
12) N.
Solomon, Ebraismo Einaudi, Torino, 1999 – pag. 99.
13) Cfr. in
Solomon, op. cit.
14) Il
Concilio di Trento nel 1546 riconobbe come ispirati tanto i libri protocanonici
quanto i deuterocanonici (L’ECCLESIASTICO, TOBIA, GIUDITTA, I DUE LIBRI DEI
MACCABEI, IL LIBRO DELLA SAPIENZA, BARUC CON LA LETTERA DI GEREMIA E ALCUNE
PARTI DI ESTER E DANIELE), senza distinzione alcuna. Ma questa decisione non
pose fine alla controversia perché i protestanti si schierarono dalla parte del
canone palestinese appellandosi all’autorità di San Girolamo che nel Prologus
Galeatus aveva considerato apocrifi i libri non protocanonici: “ Quidquid
extra hos est inter apocryphos esse ponendum”. La Chiesa Cattolica rispose a
questa ennesima provocazione protestante lanciando “anatema” contro chi non
condivideva la decisione dei padri conciliari. Conclusione: solo i libri protocanonici
sono considerati da tutti come libri rivelati; però, Ebrei e Cristiani li
leggono e li interpretano in una
prospettiva temporale così diversa che non sembrano più gli stessi testi. Per
gli Ebrei quei libri contengono una promessa divina non ancora realizzata: un
futuro radioso su questa terra per tutta l’umanità e soprattutto per il popolo
eletto, quando arriverà il Messia. Per i Cristiani l’evento tanto atteso si è
realizzato sul piano spirituale con Gesù Cristo, egli è il Messia che ha dato
inizio ad una nuova era: a quella città di Dio che per ora si realizza nel
cuore di ogni credente e che dopo il giudizio universale avrà la sua assoluta
attuazione.
15) Cfr. AA. VV. Il Messaggio
della Salvezza, ELLE DI CI, Torino 1970, pag. 49.
16) Idem, pag.38
17) Idem , pag.46.
18) vedi C. Guignebert, Gesù, Einaudi, Torino 1950, pag. 52.
19) Anche in altre religioni troviamo personaggi nati da una vergine prima di Gesù. Ricordiamo: Budda, Dionisio,
Quirino, Krishna, Zoroastro, Mitra.
20) Cfr. in C. Guignebert, op. cit.,
pag.308.
21) “Non c’è da tener conto della leggenda di Luca circa la parentela di
Maria e di Elisabetta, ritenuta madre del Battista (Lc., I, 26), perché è in
contraddizione con tutta la restante tradizione sinottica. Per sincerarsene basta
paragonare Lc.,I, 39, 45, 56, dove Maria ed Elisabetta comunicano nell’annuncio
messianico, a Mc., III, 20 sgg., dove i suoi vengono per tentar di riprendersi
Gesù dicendo che è <<fuor di senno>>” (C. Guignebert, op. cit. pag. 187 – 188).
22) Giovanni, 1, 32:
E Giovanni rese la sua testimonianza, dicendo: “Ho veduto lo
Spirito scendere dal cielo a guisa di colomba e posarsi su di lui”.
23) C. Guignebert, op. cit., pag.276.
24) Come Lc., 2, 6- 7, che parla di Gesù come del primogenito di Maria. E
Come tutti gli altri passi che parlano di fratelli e sorelle di Gesù (Mc., 3,
31 – 32; 6, 3. Mt. 7, 46 – 47;13, 55.
Gv., 2, 12; 7, 2.).
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