giovedì 31 marzo 2016









Alberto Di Girolamo






DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO GIUDAICO-CRISTIANO



PRIMA EDIZIONE





CAPITOLO SECONDO



IL CONTENUTO DELL’ANTICO TESTAMENTO



COSA RACCONTA IL VECCHIO TESTAMENTO?
Secondo il racconto biblico, Dio, essere eterno e non-creato, intorno al 3761 a. C., (1) creò tutto ciò che esiste con la forza della sua parola; egli creò dal nulla e non da se stesso o da una materia già esistente. La genesi del mondo e di tutti gli esseri, invisibili e visibili, richiese sei giorni; l’ultima creatura a essere creata fu Adamo, il primo uomo, a cui Dio poi pensò di dare una compagna, Eva, traendola dal suo fianco, per rendergli più piacevole la vita nel paradiso terrestre. Nel porre l’uomo nell’Eden, Dio gli aveva dato queste disposizioni:
 “Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai” (Gn 2, 16 – 17).

Ma il demonio spinse le due ingenue creature a violare la proibizione divina facendo credere loro che, mangiando di quel frutto, avrebbero acquisito la conoscenza del bene e del male, come la possedeva lo stesso Jahweh. Per la loro disubbidienza Dio li cacciò dal paradiso terrestre, li rese mortali e li condannò a vivere nella sofferenza; ma nel castigarli volle attenuare la loro disperazione, accennando alla possibilità di un futuro riscatto.

Purtroppo i discendenti di Adamo non fornirono migliore prova, a cominciare da Caino che uccise per invidia il proprio fratello Abele, tanto che Iddio, di fronte a questa continua perversione, “si pentì” di aver fatto l’uomo e lo avrebbe volentieri cancellato dalla faccia della terra se Noè non avesse “trovato grazia” ai suoi occhi. Per premiare quell’uomo giusto, il Signore lo salvò dal diluvio universale facendogli costruire un’arca nella quale si poté rifugiare insieme ai suoi familiari e a una coppia di ogni specie di animali. Quando il diluvio ebbe termine Noè ringraziò Iddio per averlo risparmiato con un sacrificio di animali puri, e il Signore, raggiunto da quell’odore soave, promise a lui e ai suoi figli che non avrebbe mai più sterminato gli esseri viventi; il patto fu suggellato dall’apparizione dell’arcobaleno. I discendenti di Noè, quando divennero numerosi, incominciarono a costruire una città con un’alta torre (la torre di Babele) che fosse segno della loro unione. Ma la cosa non piacque al Signore perché quella costruzione li poteva rendere troppo orgogliosi, così decise di confondere “il loro linguaggio” in modo che, non comprendendosi più tra loro, si disperdessero su tutta la faccia della terra.
Quando la discendenza di Sem, Cam e Iafet, figli di Noè, incominciò a tralignare, Dio scelse un uomo giusto, Abramo della progenie di Sem, e gli promise che, se lui e i suoi posteri fossero stati fedeli, li avrebbe moltiplicati “come la polvere della terra” e resi padroni del territorio di Canaan. Il segno di questo patto sarebbe stato la circoncisione di tutti i maschi della progenie del patriarca:
 “Voi circonciderete la carne del vostro prepuzio, e questo sarà il segno del patto fra me e voi”. (Genesi 17, 11)

La medesima promessa, poi, Iddio rinnovò a Isacco, figlio di Abramo, e a Giacobbe - detto Israele per aver lottato con un angelo (cfr.Gn 32) - secondogenito di Isacco. Giacobbe dalle due mogli e da due serve ebbe complessivamente dodici figli dai quali discesero le dodici tribù d’Israele. Fra tutti i figli, Giacobbe ebbe una particolare predilezione per Giuseppe che aveva avuto dall’amata moglie Rachele, ciò determinò una forte invidia negli altri che decisero di liberarsi del fratello, vendendolo come schiavo. Portato in Egitto, Giuseppe fu comprato da un certo Putifar, ufficiale del Faraone. Giuseppe per la sua onestà e per la sua intelligenza si guadagnò ben presto la fiducia del suo padrone che finì con l’affidargli tutto quello che aveva. Ma la moglie di Putifar s’invaghì di Giuseppe e siccome non fu corrisposta dal giovane e avvenente schiavo, lo accusò presso il marito di aver tentato di sedurla. Per questa ingiusta calunnia Giuseppe fu messo in prigione, dove ebbe come compagni di cella il coppiere e il panettiere del Faraone. Durante la prigionia, i due dipendenti del Faraone fecero dei sogni strani di cui non riuscivano a capire il significato, ma Giuseppe riuscì ad interpretarli, erano dei sogni premonitori secondo i quali il coppiere sarebbe stato reinserito al servizio del faraone, mentre il panettiere sarebbe stato decapitato. Dopo poco tempo accadde tutto ciò che il giovane ebreo aveva presentito. Ritornato a fianco del Faraone, il coppiere si ricordò di Giuseppe e della sua capacità di interpretare i sogni, quando gli indovini di corte si trovarono in difficoltà a spiegare dei sogni che il sovrano aveva fatto, ne parlò al Faraone che acconsentì a ricevere il prigioniero. Giuseppe dopo aver ascoltato il sogno fatto dal re profetizzò che per il futuro ci sarebbero stati sette anni di abbondanza e poi sette anni di carestia. Il Faraone, convinto che l’interpretazione data da Giuseppe fosse quella esatta, volle servirsi di quell’uomo eccezionale e gli affidò il compito di accumulare derrate alimentari negli anni dell’abbondanza per poi utilizzarli negli anni di carestia. Grazie all’oculato lavoro svolto da Giuseppe, gli Egiziani non risentirono della carenza di cibo, mentre tutti gli altri popoli della regione soffrivano la fame. Un giorno Giuseppe si vide comparire davanti quei fratelli che lo avevano venduto come schiavo, essi erano venuti in Egitto ad acquistare vettovaglie per la numerosa famiglia che, in Palestina, viveva nella penuria. Giuseppe accolse senza rancore i familiari, li fece venire tutti in Egitto e, col permesso del Faraone, li fece stabilire nella regione di Gessen alla destra del Nilo.
Dopo alcuni secoli gli Ebrei crebbero di numero e prosperarono molto, tanto che il Faraone dell’epoca, considerando pericolosa la loro potenza, decise di ridurli in schiavitù e comandò di gettare i loro nati maschi nelle acque del Nilo. Ma Iddio volle che un neonato di nome Mosè scampasse a quell’infanticidio e fosse allevato a corte dalla figlia dello stesso Faraone. Divenuto adulto, Mosè, un giorno, uccise un egiziano che angariava uno schiavo giudeo, poi, per evitare di essere condannato per l’omicidio commesso, fuggì nella regione del Sinai, dove sposò Sefora, figlia di un sacerdote, dalla quale ebbe un figlio che chiamò Ghersom “perché” disse “abito in terra straniera”. Per tutto il tempo che stette a Median, Mosè visse pascolando le pecore del suocero. Un giorno essendosi spinto con il gregge sul monte Oreb, al di là del deserto, egli vide un pruno che ardeva senza consumarsi, quando, incuriosito, gli si avvicinò, Dio gli parlò di mezzo al roveto e gli diede l’ordine di ritornare in Egitto per liberare dalla schiavitù il popolo eletto e guidarlo alla terra promessa. Quando Mosè tornò in Egitto, trovò sul trono un nuovo Faraone, un uomo molto superbo il quale non solo si oppose alla richiesta di ridare la libertà al popolo ebreo, ma ne aggravò la misera condizione, imponendo una maggiore mole di lavoro. Allora Iddio per piegare l’ostinazione del re d’Egitto colpì quel paese con dieci piaghe, l’ultima delle quali causò la morte di tutti i primogeniti egiziani:
A mezzanotte, il Signore colpì tutti i primogeniti nel paese d'Egitto, dal primogenito del faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame (Esodo 12:29).

Avuto, in seguito a questo terribile prodigio divino, il permesso di partire, il popolo ebreo attraversò il mar Rosso le cui acque si divisero miracolosamente per lasciarlo passare, mentre i soldati egiziani, che l’inseguivano per farlo tornare indietro, rimasero sommersi nel riflusso delle acque. Per ricordare la miracolosa liberazione fu istituita da Dio la Pasqua.
Quando i fuggitivi giunsero ai piedi del monte Sinai, Mosè salì, da solo, sul monte e, tra lampi e tuoni, ricevette le tavole con i dieci comandamenti scritte direttamente dal dito di Dio. Dopo quaranta giorni, Mosè tornò dal suo popolo e lo trovò che adorava un vitello d’oro; allora si accese d’ira, infranse le tavole dei comandamenti divini e punì con la morte coloro che non furono pronti al pentimento. Dopo aver chiesto, in nome del suo popolo, perdono all’Altissimo Signore, Mosè ritornò sul Sinai, dove Dio riscrisse le due tavole. Pur avendo accolto la preghiera di Mosè, Dio decise che la generazione che si era macchiata del peccato d’idolatria non sarebbe entrata nella terra “in cui scorre latte e miele”; solo Mosè, dall’alto di un monte ebbe il privilegio di poter ammirare la futura patria dei figli d’Israele. Mosè morì all’età di 120 anni e fu seppellito da Dio stesso in modo che “nessuno fino al presente ha mai saputo dove sia la sua tomba” (Dt 34: 6).
Dopo quarant’anni di peregrinazione nel deserto, Giosuè, scelto da Dio come successore di Mosè, oltrepassò prodigiosamente il Giordano e iniziò la conquista della Palestina. I popoli che abitavano la regione furono eliminati senza pietà, per esplicito ordine divino:
E votarono allo sterminio tutto ciò che era nella città [Gerico], passando a fil di spada uomini, donne, bambini, vecchi, buoi, pecore e asini. (Giosuè 6:21)

Poi il Signore disse a Giosuè: «Non temere, e non ti sgomentare! Prendi con te tutta la gente di guerra, àlzati e sali contro Ai. Guarda, io do in tua mano il re di Ai, il suo popolo, la sua città e il suo paese.
Tu tratterai Ai e il suo re come hai trattato Gerico e il suo re; ne prenderete per voi soltanto il bottino e il bestiame. Tendi un'imboscata dietro la città». (Giosuè 8:1-2)

Alla presa di Gerico è legato un episodio di autodafè. Prima dell’attacco, Giosuè aveva ordinato che “tutto l’argento, l’oro, i vasi di rame e di ferro” che c’erano nella città dovevano andare ad arricchire il tesoro del Signore. Ma Acar, un membro della tribù di Giuda, aveva preso per sé un manto, 200 sicli d’argento e un lingotto d’oro, determinando l’ira di Dio contro i figli d’Israele tanto che il corso della guerra si mise male per loro. Giosuè, disperato si rivolse a Dio che gli spiegò il motivo della sua ira e gli suggerì il modo per rimuovere l’anatema. Dare alle fiamme il colpevole. In breve tempo, con l’aiuto del signore, Acar fu smascherato e punito, insieme a tutto ciò che gli apparteneva, come Dio aveva ordinato:
Poi Giosuè e tutto Israele con lui presero Acar con l’argento, il manto, il lingotto d’oro, insieme con i suoi figli e le sue figlie, e li condussero con i buoi, gli asini, le pecore, la tenda, e tutto ciò che gli apparteneva, nella valle di Acor. E Giosuè gli disse. “perché tu hai fatto del male a noi, il Signore fa del male a te in questo giorno”. E tutto Israele lapidò lui e tutti i suoi, poi li dettero alle fiamme, quindi ammassò sopra di lui un grande mucchio di pietre che esiste ancor oggi. Così si placò lo sdegno del Signore. Per tale motivo quel luogo fu chiamato Valle di Acor, fino al presente (Genesi 7: 24-26).

Alla morte di Giosuè le dodici tribù d’Israele si erano ormai stanziati in Palestina, ma, malgrado la guerra fosse stata particolarmente spietata, non erano riusciti a sopprimere totalmente i loro nemici, per cui alla fine,  stanchi della guerra, fu giocoforza vivere a fianco dei  Cananei e degli altri popoli che abitavano quei luoghi. Secondo Giudici 2, 20-21, Jahweh avrebbe deciso di lasciare i Cananei in Palestina per punire Israele reo di avere adorato gli idoli dei popoli circostanti:
 “Poiché questa gente ha violato il patto da me stabilito coi loro padri, e non ha obbedito alla mia voce, d’ora in poi Io non distruggerò più dinanzi a loro nessuno di quei popoli che Giosuè ha lasciato alla sua morte.”

I rapporti di vicinato furono molto difficili e spesso degenerarono in conflitti armati più o meno ampi, anche perché così voleva Dio che era contrario ad una pacifica convivenza del popolo eletto con gente che serviva altre divinità. Quando scoppiava una di queste guerre, se le cose si mettevano male per gli Ebrei, il Signore suscitava tra il suo popolo un Giudice che veniva insignito temporaneamente di autorità militare e civile; questi condottieri carismatici riuscirono con le loro imprese a consolidare, poco per volta, la conquista del territorio. In quei tempi ciascuna delle dodici tribù era indipendente dal punto di vista politico-militare ma disponibile, in caso di guerra, a collaborare temporaneamente con le altre agli ordini del Giudice designato dal dio comune. Il pericolo più grave gli Ebrei lo corsero nel 1120 a. C. quando il paese fu invaso dai Filistei, proveniente dall’Asia minore attraverso l’isola di Creta. In occasione di questo grave pericolo il popolo d’Israele sentì la necessità di unire tutte le tribù sotto un solo capo, un re.

Il primo re fu Saul (l’invocato), egli fu unto e consacrato capo d’Israele dal veggente Samuele su ordine di Dio. La monarchia così istaurata fu teocratica, perché il re era tenuto a eseguire la volontà di Dio che lo aveva scelto, volontà che veniva comunicata dai sacerdoti e/o profeti. Uniti sotto il comando di Saul, gli Ebrei, fiduciosi dell’appoggio divino, affrontarono i Filistei e li sconfissero.

Alla vigilia della battaglia contro i Filistei, Saul aveva ricevuto dal Signore, tramite Samuele, quest’ordine:
 “Non risparmiare nulla, ma uccidi tutti: uomini e donne, fanciulli e lattanti, bovi e pecore, cammelle e asini” (I Samuele 15, 3).

Ma il sovrano disobbedì perché risparmiò dallo sterminio il re nemico e il bestiame migliore, e allora Samuele, l’uomo del Signore, dopo aver fatto a pezzi il re di Amalec, dichiarò decaduto Saul e consacrò re d’Israele Davide della tribù di Giuda. Dopo la morte di Saul, il nuovo re, Davide, unificò sotto il suo scettro tutto il territorio d’Israele e fece di Gerusalemme la città santa di tutta la nazione, trasportandovi l’Arca di Dio. Prima di morire, Davide designò come suo successore Salomone, il figlio che aveva avuto dalla bella Betsabea, moglie di Uria.
Uomo saggio e amante della pace, Salomone consolidò il prestigio politico del suo stato instaurando relazioni diplomatiche con l’Egitto, Tiro e Saba; poi utilizzò l’immensa ricchezza accumulata con il commercio per costruire in Gerusalemme un magnifico tempio (il cosiddetto Primo Tempio) a Jahweh, dio d’Israele.  Ma non impedì che nel suo regno si adorassero altre divinità, anzi, egli stesso fece erigere luoghi di culto per gli dei delle sue mogli pagane (2).  Dio, allora, sdegnato contro Salomone decise di dividere in due il regno d’Israele, ma per fare questo aspettò che il re fosse morto:
 “Tuttavia non compirò questo durante la tua vita, per amore di Davide, tuo padre: lo strapperò [il regno] dalle mani di tuo figlio.” (I Re 11, 12)

         Il regno si divise, nel 930 a. C., in quello di Giuda, comprendente le due tribù di Giuda e di Beniamino, con capitale Gerusalemme, e in quello d’Israele, comprendente le altre dieci tribù, con capitale Samaria. La storia di questi due Stati si concluderà con la loro distruzione.
Lo Stato d’Israele sarà conquistato nel 722 a. C. dagli Assiri perché i suoi abitanti si erano macchiati del solito peccato d’idolatria; le dieci tribù saranno deportate nell’estremo nord della Mesopotamia e, a questo punto, di loro si perderanno le tracce.
Il regno di Giuda continuerà ad esistere fino al 587 a. C. quando Gerusalemme sarà occupata dal re Nabucodonosor che farà distruggere il Tempio e trascinerà il popolo giudeo prigioniero in Babilonia. Tutto ciò accadrà perché gli ultimi re di Giuda avevano fatto ciò che è male agli occhi del Signore.

In questo triste periodo di crisi morale oltre che politica, la fede nel Dio dei padri fu tenuta viva dai profeti, uomini santi che, sulla base delle loro visioni, consolidarono e precisarono il monoteismo ebraico, dichiarando Jahweh unico vero dio, infinitamente giusto e buono, il quale non guarda più al comportamento collettivo di Israele, ma alla virtù di ogni singolo individuo.
Già Isaia (vissuto nell’VIII sec. a. C.) negò che il sacrificio di animali nel Tempio potesse riscattare i peccati ed esaltò il valore di un cuore pentito agli occhi di Dio. Ma il vero salto di qualità si ebbe nel periodo della schiavitù, quando gli Ebrei maturarono la convinzione che Jahweh non fosse solo dio di un popolo e di un luogo, ma di tutta l’umanità e di tutta la natura.
Un altro grande merito dei profeti fu di aver infuso, nella disgrazia, la speranza di tempi migliori, annunciando la venuta del Messia (Mashiach = unto), un re salvatore che avrebbe fatto cessare tutte le sofferenze e ripristinata l’antica potenza israelita:
Io stavo contemplando nelle visioni notturne:
or, ecco venire sulle nubi del cielo,                                                                                                   uno come un figlio d’Uomo,                                                                                                                            il quale s’avanzò fino all’Antico di giorni                                                                                                e fu condotto davanti a lui,                                                                      che gli conferì potere, maestà e regno,                                                                                 sì che tutti i popoli, le nazioni 
e le genti di ogni lingua lo servivano.                                                                           Il suo potere è un potere eterno, che non passerà,                                                                                                                                     e il suo regno non sarà mai distrutto (Daniele 7, 13 - 14).

Il Messia sarebbe nato a Betleem:
E tu, Betleem-Efrata,
tu sei piccola fra le migliaia di Giuda;                                                                                                     ma da te mi uscirà Colui,                                                                                                                          che deve regnare in Israele:                                                                                                                            la sua origine risale ai tempi antichi,                                                                         ai giorni lontani (Michea 5, 1).

L’attesa messianica era proclamata sulla base delle promesse che Dio aveva fatto in passato:
Non sarà tolto lo scettro da Giuda
né il bastone del comando dai suoi discendenti,                                                                  finchè venga colui, al quale appartiene                                                                              e a cui i popoli dovranno obbedire (Genesi 49, 10).

 “La tua casa e il tuo regno sussisteranno per sempre davanti a me, il tuo trono durerà in eterno”. Natan comunicò a Davide tutte queste parole [di Dio] e l’intera rivelazione (II Samuele 7, 16-17)

Il Messia non è inteso (a differenza dei Cristiani) come un essere soprannaturale, ma come un uomo, un uomo scelto dal Signore:
Lo Spirito del Signore riposerà su di lui:
Spirito di saggezza e d'intelligenza,
Spirito di consiglio e di forza,
Spirito di conoscenza e di timore del Signore.  (Isaia 11, 2)

Egli, ispirato dal Signore, convertirà tutti i popoli e riuscirà a realizzare sulla terra il “Regno di Dio” e allora:
Il lupo abiterà con l'agnello,
e il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme,
e un bambino li condurrà.

La mucca pascolerà con l'orsa,
i loro piccoli si sdraieranno assieme,
e il leone mangerà il foraggio come il bue.

Il lattante giocherà sul nido della vipera,
e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.

Non si farà né male né danno
su tutto il mio monte santo,
poiché la conoscenza del SIGNORE riempirà la terra,
come le acque coprono il fondo del mare.  (Isaia 11,  6 – 9)

La venuta del Messia e l’avvento del regno di Dio sarebbero coincisi con la fine del mondo e il giudizio universale o giorno del Signore:
Ah, quel giorno!                                                                                                               È vicino quel giorno del Signore, esso viene                                                             come una distruzione dell’Onnipotente! (Gioele 1, 15).

Per quel giorno vengono preannunziati segni prodigiosi in cielo e sulla terra: “sangue, fuoco e colonne di fumo”. Poi i popoli, usciti dalle tombe, si raduneranno nella valle di Giosofat:
Si muovano e salgano le nazioni
alla valle di Giosafat!                                                                                                         Là m’assiderò per giudicare                                                                                                                       tutti i popoli confinanti.                                                                                                                        Date mano alla falce,
perché la messe è matura!                                                                                       Venite, premete, perché il torchio è pieno,
traboccano i tini,                                                                                                                                  tanto è grande la loro malizia! (Gioele 4, 12 – 13).

 [Nel giorno del Signore] “saranno salvi, fra il tuo popolo, tutti coloro che si troveranno iscritti nel libro. E un gran numero di quelli che dormono nella polvere della terra, si desteranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per il ludibrio e per l’infamia perpetua” (Daniele 12, 2)

La credenza in una resurrezione della carne alla fine del mondo e in un giudizio universale erano poco sviluppate prima della cattività babilonese, com’è dimostrato dal fatto che nella Torah non si parla di una retribuzione nell’aldilà, ma di una ricaduta su tutto il popolo e/o sui discendenti delle conseguenze delle azioni buone o cattive. In vista del Giudizio universale, che si ritenne sempre più immediato, si fece pressante l’invito al pentimento:
 “or dunque” invita il Signore “tornate a me con tutto il vostro cuore, con digiuni, con pianti e lamenti; lacerati i vostri cuori, non i vostri vestiti, ritornate al Signore, Dio vostro, perché egli è misericordioso e compassionevole, lento all’ira, ma ricco di bontà e gli dispiace colpir con castighi (Gioele 2, 12 – 13).

La cattività babilonese dei Giudei durò circa cinquant’anni, fino a quando nel 538 a. C. l’impero babilonese fu conquistato dai Persiani, guidati dal re Ciro. Costui, spinto da Dio, emanò un editto con il quale permise ai Giudei di ritornare in Palestina, affinché costruissero a Gerusalemme un tempio al Signore, a tale scopo il re persiano restituì “gli utensili del tempio che Nabucodonosor aveva portato via da Gerusalemme”.
Zorobabel, principe di Giuda, guidò il ritorno della maggior parte del popolo eletto nella sua terra (ma molti ebrei rimasero volontariamente a Babilonia, dove avevano avviato fruttuose attività, formando una notevole colonia che continuò a sussistere nel tempo) e fece costruire a Gerusalemme il cosiddetto secondo Tempio. I rimpatriati furono consapevoli di costituire “il resto” delle gloriose dodici tribù, e, guidati da Esdra e Neemia, s’impegnarono a riconsacrarsi al Signore, a essergli fedeli e a osservare la sua Legge. La fanatica osservanza della Legge portò a degli eccessi come il ripudio delle mogli straniere e dei figli nati da loro, e a chiudere, all’inizio del sabato, le porte di Gerusalemme per impedire ogni tipo di attività. Per attuare questa restaurazione religiosa, furono istituite le sinagoghe, dove veniva letta e commentata la Legge; nacque pure la categoria degli scribi, dedita allo studio e alla interpretazione della Legge, e il Consiglio del Sinedrio che fu l’autorità spirituale e giuridica del paese, anche sotto le successive dominazioni straniere, a partire da quella macedone.
        Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro Magno, il vasto impero da lui conquistato venne diviso tra i suoi generali: la Siria con capitale Antiochia toccò alla dinastia dei Seleucidi,(3) mentre I Tolomei ebbero l’Egitto con capitale Alessandria. La Palestina appartenne all’Egitto fino al 198 a. C. quando fu conquistata da Antioco III (223 – 187) di Siria. Lui e il suo successore, il figlio Seleuco IV (187 – 175), condussero verso gli Ebrei una politica improntata alla tolleranza religiosa, invece il successore Antioco IV Epifanie (175 – 163) cercò di imporre la religione ellenistica in tutte le parti del suo impero allo scopo di cementare attorno a una religione comune le diverse etnie che costituivano i suoi sudditi. Per attuare questo suo progetto dichiarò fuori legge la religione giudaica proibendone le pratiche e le cerimonie, depose e poi uccise il sommo sacerdote Onia III, elevò al pontificato uomini di sua fiducia (4), e, infine, nel 167 inviò un esercito comandato da un certo Apollonio che saccheggiò e occupò Gerusalemme: “l’abominio della desolazione”  culminò con i Giudei più bellicosi uccisi o venduti come schiavi e con il Tempio profanato e adibito al culto di Giove Olimpico.
        Molti israeliani cedettero alla violenza e abiurarono la loro fede, ma vi fu chi preferì la morte e chi si rifugiò nel deserto per organizzare la resistenza armata. A guidare la lotta fu l’illustre famiglia degli Asmonei (5), nella quale primeggia la figura di Giuda Maccabeo. Quest’ultimo con le sue vittoriose battaglie costrinse i Siriani a rinunciare al loro progetto politico-religioso e nel 164 a. C. stipulò un accordo grazie al quale poté insediarsi a Gerusalemme e restituire il Tempio al culto ebraico. I rappresentanti del partito filo-ellenico, fuggiti da Gerusalemme all’arrivo dei ribelli, tentarono di ritornare al potere con la forza delle armi siriane, dando vita a una lotta lunga e incerta, ma Giuda Maccabeo e, dopo la sua morte in battaglia nel 160 a. C., i suoi fratelli Gionatan e Simone riuscirono sostanzialmente a resistere. Quando nel 134 a. C. muore Simone, la famiglia degli Asmonei era riuscita a concentrare nelle sue mani il potere religioso e civile; i suoi successori si poterono così dedicare all’estensione del regno della Giudea, conquistando la Samaria e parte della Transgiordania.

LA STORIA VETEROTESTAMENTARIA SI FERMA A QUESTO PUNTO. MA COSA SUCCESSE DOPO?
La dinastia asmonea entrò in crisi quando nella regione arrivarono i romani. Pompeo conquistò Gerusalemme nel 63 a. C., dopo tre mesi di assedio i suoi soldati irruppero nella città profanarono il Tempio e fecero strage di uomini. Della nuova situazione politica ne seppe approfittare Antipatro, di origine idumea (6), che si schierò dalla parte dei romani e ottenne così da Cesare la nomina di procuratore della Giudea, poi, approfittando del suo posto di comando, riuscì a fare in modo che alla sua morte (avvenuta per avvelenamento nel 43 a. C.) il figlio Erode prendesse il suo posto. Erode continuò la politica filo romana del padre, e soprattutto ebbe l’abilità di stare sempre dalla parte del vincitore nelle lotte politiche che si susseguivano a Roma per il potere, così nel 40 a. C. riuscì  ad ottenere da Antonio e Ottaviano il titolo di re della Giudea.
Da allora ci furono nella Palestina dei sovrani locali nominalmente indipendenti, ma, di fatto, i romani continuarono a esercitare un dominio assoluto e incontrastato. Erode fu un buon amministratore del denaro pubblico e, sotto il suo governo, la Giudea godette un periodo di benessere: egli avviò una serie di opere pubbliche che stimolarono l’economia della zona e ridussero la disoccupazione; fra l’altro fece ricostruire il Tempio e, accanto ad esso, innalzò la fortezza “Antonia”. Ma quest’aspetto positivo del suo governare fu offuscato  dagli  eccessi di violenza sanguinosa che lo portarono - soprattutto nella vecchiaia quando, preda della pazzia, si vedeva circondato da traditori - a fare uccidere la propria moglie, tre dei suoi figli e il Sommo Sacerdote e ad ordinare “la strage degli innocenti” di cui parlano i vangeli (7).
Morto Erode (circa quando nacque Gesù), gli successe il figlio Archelao. Ma subito dopo scoppiarono delle rivolte contro gli erodiani e i loro protettori, per cui i Romani, dopo aver represso nel sangue i moti popolari, decisero di modificare l’assetto politico della Palestina. Dal 6 a. C. la Giudea, dove più vivi erano i sentimenti nazionalistici e più facili le rivolte, fu governata direttamente da un procuratore romano, invece, gli altri territori vennero affidati ai successori di Erode.

I procuratori romani, nei territori che controllavano direttamente, avevano come referenti della popolazione giudea le autorità religiose che garantivano l’ordine sociale in cambio della libertà religiosa. È noto che Roma condusse una politica di grande tolleranza nei confronti dei popoli che aveva sottomesso, ma gli ebrei non si accontentarono di avere libertà di culto, il loro monoteismo li portava a rigettare la possibilità che nella loro santa terra potesse venerarsi un altro dio che non fosse il loro. Anche per quest’atteggiamento insofferente degli assoggettati, i procuratori, inviati in quel lontano lembo dell’impero, non mancarono di compiere gesti provocatori per ribadire la loro autorità, irridendo alla religione ebraica (erigendo, ad esempio, statue al dio-imperatore). Dal punto di vista economico questo periodo fu caratterizzato da una crescente povertà che acuì negli Ebrei l’odio per gli occupanti e il desiderio di una rivalsa. Molti andarono a ingrossare le fila degli zeloti, un movimento nazionalista fondato, all’inizio dell’era volgare, dal patriota Giuda il Galileo, prima che fosse giustiziato dai Romani. Gli zeloti furono molto attivi durante la sollevazione generale avvenuta tra il 67 e il 73; in un primo momento i ribelli ottennero dei successi, riuscendo a controllare gran parte della regione, ma in seguito vennero sconfitti dalle legioni romane guidate prima da Vespasiano e poi da Tito.  Gerusalemme fu presa nel 70 dopo una disperata resistenza da parte dei suoi abitanti che videro il loro Tempio profanato da Tito, saccheggiato e infine dato alle fiamme. Nel 73 con la conquista della fortezza di Masnada, i Romani stroncarono l’ultima resistenza, ma la rivolta si riaccese nel 132, quando Simeone bar Kosiba convinse gli ebrei che Jahweh avrebbe combattuto al loro fianco; l’insurrezione finì con un completo disastro per la nazione giudea, perché l’imperatore Adriano, che comandava le legioni, disperse gli ebrei ai quattro angoli della terra: aveva inizio la diaspora.




IL PUNTO SUL CAPITOLO SECONDO
        
Alla luce dei moderni criteri che guidano il lavoro dello storico, l’Antico Testamento non si può considerare un libro di storia perché in esso non si fa alcuna differenza tra fatti e interpretazione, tra avvenimenti reali e miracolosi.
Qualche credente, nel tentativo di difenderne il valore storico, ha sostenuto che l’Antico Testamento non è molto diverso dell’opera di Erodoto (ca. 484 – 425 a.C.), giacché anche il padre della storiografia tende a sconfinare nella leggenda e nel mito, e considera il fato come una forza superiore che guida gli avvenimenti.
L’accostamento è sicuramente suggestivo, ma non tiene conto di alcuni fattori che rende Erodoto più storico degli antichi scrittori d’Israele. Anzitutto Erodoto riporta ciò che ha visto personalmente o ciò che ha sentito con le sue orecchie raccontare da altri uomini; ci sono spesso, nel suo raccontare, esagerazioni fantasiose e imprecisioni grosse come macigni, ma è sempre un parlare umano, non c’è alcun Dio che si rivela e che gli suggerisca ciò che deve scrivere. E poi Erodoto non pretende che i suoi lettori prendano per oro colato tutte le notizie che propina e tanto meno pretende di esporre la “verità” universale. Insomma in lui troviamo un metodo e un atteggiamento del tutto opposti a quelli degli agiografi biblici che, si sostiene, hanno scritto su ispirazione divina.
       
Gli storici indipendenti, cioè coloro che non si lasciano influenzare nel loro lavoro da sentimenti religiosi, considerano l’Antico Testamento un resoconto dell’epopea di alcune tribù nomadi che si fanno nazione, conquistando una patria e maturando un comune sentire religioso. La saga inizia in Egitto, dove un popolo di schiavi vive nella fede che il loro Dio li libererà da quella triste condizione e donerà loro un paese ricco di pascoli e di coltivazioni. Nel XIII si ha l’esodo dalla schiavitù d’Egitto e nel secolo successivo inizia la conquista della terra promessa; una conquista, quella di Canaan, lenta e sanguinosa e mai totale, tant’è che Gerusalemme sarà strappata agli indigeni Gebusei solo con Davide due secoli dopo. A questo punto quel sogno, che sembrava impossibile, si può considerare realizzato. Israele non riesce a capacitarsi di aver domato popoli tanto numerosi e agguerriti; non credendo che ciò possa essere avvenuto solo grazie alle sue forze e al suo valore, attribuisce il successo all’aiuto di Jahweh, il suo dio degli eserciti, che, essendo più potente delle divinità dei popoli nemici, l’ha portato alla vittoria. Se ciò è avvenuto lentamente e con delle battute militari brucianti, la colpa è di Israele che spesso cade nel peccato, non rispettando le Leggi divine.
Tutte le vicende narrate nell’Antico Testamento non hanno storicamente nulla di eccezionale; tanti altri popoli (ricordiamo, en passant, i Franchi e i Magiari) hanno attuato un processo che li ha visti conquistare una patria e diventare una grande nazione. Pertanto il contenuto del Libro è sicuramente “umano, troppo umano” ed è eccessivo parlare di fatti sovrumani. La convinzione che l’opera compiuta fosse così straordinaria da farla discendere da Dio produsse una serie di racconti popolari, raccolti e ordinati dagli agiografi.

Il credente riduce il contenuto dell’Antico Testamento a un racconto del patto o alleanza tra Dio e il popolo ebreo, pertanto i fatti storici sono inquadrati teologicamente in modo da soddisfare l’esigenza di celebrare la presenza divina nella storia umana, tanto è vero che gran parte del Libro è occupata dalle parole pronunciate direttamente da Dio, dalle sue leggi, dalle sue profezie, dalle sue lodi. I fatti reali fanno solo da sfondo a tutto questo. Se si pone Dio come sorgente di ogni esistenza e di ogni accadimento, è logico che lo si deve porre necessariamente anche come autore del Libro che testimonia delle sue intenzioni e del suo operare: un libro che svela la mente di Dio non può essere una umana invenzione letteraria.
Ma questa logica che vuole Jahweh autore del libro appare molto sospetta se si considera che le intenzioni di Dio coincidono con l’interesse dei figli di Israele: dare una patria ai discendenti di Abramo è, infatti, l’impegno fondamentale della divinità; impegno che Jahweh non realizza con i suoi poteri divini, facendo, ad esempio, sorgere dalle acque del mare una terra di nessuno, ma sceglie la soluzione più umana: ripulire un territorio dei suoi abitanti e prendere il loro posto. Un simile agire militaresco non si addice a quel concetto di Dio che il Cristianesimo e la filosofia occidentale hanno posto nella nostra testa. 
       
        I libri del Vecchio Testamento sarebbero esclusivamente le fondamenta della religione di un popolo poco numeroso, quello ebreo, se non fossero stati rivisitati e rivitalizzati prima dal Cristianesimo che ha posto fine alla frustrante attesa del Messia e ha acceso l’entusiasmo per un Regno di Dio prossimo venturo, e poi dall’Islamismo con il suo teocentrismo passionale e intransigente.
Senza questi due nuovi innesti il vecchio tronco biblico sarebbe rimasto solo strumento della costruzione di un potere teocratico da parte di una classe sacerdotale attenta solo ai propri privilegi o un documento dell’antica cultura orientale.
        Le due nuove religioni non si sono limitate ad appropriarsi delle Scritture giudaiche e a reinterpretarle, ma, ciascuno di esse ha ottenuto da Dio un nuovo testo rivelato, il più importante perché l’ultimo, quello definitivo. Non poteva essere diversamente, visto che ogni religione che si rispetti vanta dei testi scritti direttamente o indirettamente da Dio, e ritiene false le scritture altrui. Di fronte a tutti questi testi sacri che circolano nel mondo, volendo assumere una posizione super partes, la cosa più saggia da fare sarebbe di negare a tutti quanti la provenienza divina, a meno che non si voglia aggiungere alle qualità dell’Assoluto anche la grafomania e a meno che non si vogliano considerare proprie dell’essenza divina le contraddizioni che esistono fra i presunti testi rivelati, come si è fatto per le antinomie presenti all’interno del testo biblico.
       
        Un esame critico e spassionato dei libri del Vecchio testamento approda inevitabilmente a una censura morale e letteraria di molte pagine che risultano incomprensibili, illogiche, noiose, contraddittorie, crudeli. Ma la maggior parte dei fedeli, suggestionati dal fatto che si tratta della “parola di Dio”, finisce con l’accettare tutto, elogiando ciò che non esiterebbe a considerare riprovevole se fosse stato detto o fatto da un uomo. In tal senso un grosso contributo è stato dato da una lunga serie di filosofi-teologi (da Tertulliano a Pavel e a Florenskij passando per kierkegaard) che per rendere accettabile le pagine più assurde del V.T. hanno fatto di Dio il sinonimo dei paradossi e della contraddittorietà, pietra di scandalo per la ragione.
        Il pensiero che la Bibbia sia un prodotto della mente divina, genera in noi un sentimento di devozione che ci porta a giustificare e ad approvare tutto ciò che c’è scritto negando voce alla critica della ragione. Noi apprezziamo questo libro perché proviene da Dio, perché è un suo lascito; amiamo Dio e perciò amiamo ciò che gli appartiene. Ma sarebbe meglio per tutti, per l’uomo e per Dio (il concetto che abbiamo di Dio), se questo grande, fanatico sentimento di amore fosse diretto a ciò che Dio ha fatto piuttosto che a ciò che probabilmente non ha mai detto, e che dei sadducei gli hanno attribuito per asservire la volontà di un popolo.
Se amiamo la Bibbia perché “parola di Dio”, a maggior ragione dovremmo amare la natura e gli altri esseri viventi che sono “opera di Dio”: l’opera vale più della parola. Se Dio c’è, è sicuro che l’universo con i suoi esseri viventi lo abbia creato lui, mentre non è sicuro che sia l’autore di Scritture per tanti versi criticabili. Perché non rivolgiamo i nostri sentimenti positivi alla natura e al prossimo? Perché un libro vale più della concordia e della vita, visto che in suo nome si fanno guerre e si uccide?







NOTE AL CAPITOLO SECONDO

1) Il computo e attribuito al rabino Hillel II (metà del IV sec. a.C. ) il quale arrivò a quella data contando le generazioni succedutesi da Adamo in poi.
2) Una leggenda rabinica narra che il giorno in cui egli permise l’idolatria fu fondata Roma, destinata ad abbattere la potenza d’Israele.
3) Dinastia fondata da Seleuco I Monoftalmo, comandante della cavalleria macedone.
4) A Gerusalemme, soprattutto in seno alla classe sacerdotale e fra i dirigenti, ci fu un potente partito filo-ellenista che, senza toccare la fede dei padri, voleva introdurre nel paese usi e costumi ellenici. Questo partito ellenizzante collaborò attivamente col monarca come dimostra la nomina al ponteficato prima di Giasone che fece costruire una palestra dove i giovani potessero svolgere sport tipici del mondo ellenico, e poi di Menelao che strappò il pontificato a Giasone promettendo al sovrano una grossa somma di denaro.
5) e precisamente l’anziano sacerdote Mattatia e i suoi cinque figli Giovanni Gaddi, Simone Tasi, Giuda Maccabeo,Eleazaro Avaran, Gionata Affus. Il soprannome di Giuda, “Maccabeo” (da maqqabà), fu in seguito esteso a tutta la famiglia.
6) Gli Idumei, provenienti da Edom in Transgiordania, si erano stanziati nella Giudea Meridionale, durante la cattività babilonese degli Ebrei. In seguito furono convertiti con la forza all’ebraismo dal re giudeo Giovanni Ircano figlio di Simone.

7) L’episodio non ha alcun riscontro storico, ma dimostra come il monarca, con la sua crudeltà, abbia colpito negativamente l’immaginario collettivo.



































martedì 29 marzo 2016










Alberto Di Girolamo






DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO GIUDAICO-CRISTIANO








PREFAZIONE

Per parecchi anni (2002 – 2008) ho cercato nei libri di esegesi e di teologia una risposta alle numerose domande che mi ponevo sulla religione giudaica e su quella cristiana.
Alcune risposte sono state convincenti, altre generiche o evasive, ma alla fine mi sono fatto un mio convincimento.
 Dagli appunti di questo studio ha preso forma questo scritto che non posso definire in altro modo se non un resoconto delle letture fatte (1) e delle riflessioni che ne sono derivate.
Leggerlo potrà servire a farsi un’idea del dibattito, mai concluso, sul fronte storico-critico-esegetico e a suscitare la voglia di un approfondimento.
Questo tipo di studi costituisce un fatto sconvolgente e affascinante che avvince il ricercatore in modo tale da non lasciare spazio per nient’altro: è il caso di dire che una lettura tira l’altra.
Almeno così è stato per me.

NOTA
1) Chiarisco che, avendo condotto questo studio per il soddisfacimento di un bisogno personale, non sono stato molto accurato nell’annotare i testi da cui ho preso qualche concetto. Su richiesta sono pronto a fare ammenda della mia leggerezza, aggiungendo i dati mancanti.












CAPITOLO PRIMO



LA COMPOSIZIONE DEL LIBRO SACRO



SI CONOSCONO GLI AUTORI E LA DATA DI REDAZIONE DELL’ANTICO TESTAMENTO?
Secondo i fondamentalisti di ogni tempo, tutti i libri che compongono l’A.T. hanno un preciso autore e quindi una data di composizione, relativa al periodo in cui visse lo scrittore. Ma la critica moderna ormai è unanime nel considerare ogni singolo libro come un’opera stratificata, scritta, in un lungo arco di tempo, da più autori successivi e in diversi generi letterari. È molto probabile che inizialmente si trattassero di racconti tramandati oralmente che furono fissati per iscritto a partire dal XIII-X secolo a.C.  
Prendiamo ad esempio i libri più antichi, quelli della Torah (Pentateuco per i cristiani) che costituiscono le fondamenta di tre religioni (Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo). I sostenitori della tesi Mosè-autore-della-Torah si richiamano, oltre a quanto trasmesso dalla tradizione, ad alcuni passi che esplicitamente parlano di un Mosè scritturale:E il Signore disse a Mosè: “Scrivi queste cose [la vittoria sugli Amaleciti] per ricordo nel libro e fai ben comprendere a Giosuè, che io cancellerò affatto la memoria di Amalec di sotto al cielo” (Esodo 17, 14).

Quindi Mosè mise per scritto tutte le leggi del Signore; e la mattina, levatosi per tempo, eresse ai piedi del monte un altare e dodici cippi, per le dodici tribù d’Israele (Esodo 24, 4).

Poi il Signore disse a Mosè: “Scrivi queste parole; poiché in base a queste clausole Io ho stretto un patto con te e con Israele”. E Mosè rimase sul Monte col Signore per quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiar pane, né bere acqua. E il Signore scrisse sopra le tavole le clausole del patto, i dieci comandamenti (Esodo 34, 27 – 28).

Queste sono le tappe dei figli d’Israele che uscirono dall’Egitto, divisi a schiere, sotto la guida di Mosè ed Aronne. Mosè scrisse le loro marce, tappa per tappa, per ordine del signore; e queste sono le tappe secondo l’ordine delle loro marce…(Numeri 33, 1 – 2).

Mosè scrisse poi questa legge e la consegnò ai sacerdoti figli di Levi, che portavano l’Arca del patto del Signore, e a tutti gli anziani d’Israele (Deuteronomio 31, 9).

Ma ci sono anche dei passaggi che portano a conclusioni completamente diverse; citiamo come esempio il cap. 34 del Deuteronomio dove vengono raccontati la morte e i funerali di Mosè:
Allora Mosè, dalle steppe di Moab, salì sul monte di Nebo, una vetta del Fasga, il quale eleva dirimpetto a Gerico. E il Signore gli fece vedere tutto il paese. […] Poi il Signore gli disse: “Questo è il paese che Io giurai di dare ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, quando dissi: Io lo darò alla tua progenie. Io te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non c’entrerai”. […] E Mosè, servo del Signore, morì lassù, nel paese di moab; come il Signore aveva ordinato: e Dio lo seppellì nella valle. […] Mosè, quando morì, aveva 120 anni; tuttavia la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno. Allora i figli d’Israele lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, terminati i quali, ebbero fine i giorni di pianto dedicati al lutto per Mosè.
È ovvio che questo passo smentisce la tesi che Mosè  possa essere stato l’autore della Torah, per il semplice fatto che nessuno può raccontare i particolari della morte di se stesso. Di fronte a questa difficoltà, gli studiosi di parte si tolgono d’impaccio considerando questi versetti delle aggiunte successive, forse da parte di Giosuè. Può essere che sia stato così, ma è pure legittimo pensare che le aggiunte siano le frasi pro-Mosè-autore; magari il beneficio del dubbio dovrebbe essere concesso, volendo vestire di scientificità la propria fede, invece di utilizzare i risultati del moderno esame testuale solo quando conviene alla propria tesi.

 QUANDO HA AVUTO INIZIO LO STUDIO CRITICO DELL’A.T.?
Nel 1600 alcuni teologi e alcuni filosofi incominciarono a mettere in dubbio che i libri del Pentateuco fossero stati scritti ai tempi in cui era vissuto il loro presunto autore, senza però riuscire a produrre una prova convincente a sostegno del loro sospetto. La cosa riuscì al medico francese Jean Astruc, appassionato lettore della Bibbia; egli nel 1753 pubblicò, a sue spese, un’opera (Conjectures sur les mèmoires originaux dont il paroit que Moyse s’est servi pour composer le livre de la Genèse) nella quale rilevò che in molti passi del primo libro del Pentateuco Dio è chiamato Elohim e in altri Jhwh. Ciò era la prova, per l’esegeta francese, che nel Genesi confluivano due fonti diverse che trattavano lo stesso argomento.
Successivamente gli studiosi continuarono l’analisi critica testuale, iniziata dall’Astruc, pervenendo a delle conclusioni che si possono così sintetizzare: 1) le differenze di stile e di sintassi, riscontrabili nelle varie pagine, stanno ad indicare che l’estensore di quei libri non poté essere stata una sola persona; 2) le contraddizioni e le numerose ripetizioni (non sempre opportune per una narrazione ordinata) degli stessi fatti e l’utilizzo di nomi diversi per indicare Dio (Jahweh, Elohim) e il monte sacro (Horebb, Sinai) si possono spiegare in modo ragionevole solo con l’ipotesi che la redazione in nostro possesso sia la risultanza di una sovrapposizione, spesso mal riuscita, di diverse versioni degli stessi avvenimenti. Oggi in modo unanime gli studiosi ammettono l’esistenza di quattro fonti o strati originari che differiscono per data e luogo di composizione e che sono indicati con le lettere I. E. P. D. (= codice Iahvista, codice Elogista, Priestercodex o codice sacerdotale, codice Deuteronomista); 3) Il Pentateuco - ma il discorso vale per tutta la Bibbia - fu compilato in un lungo arco di tempo da diversi agiografi che si sono succeduti nella compilazione con l’intento di rendere duraturo il ricordo, trasmesso oralmente, delle vicissitudini del popolo eletto.
La tesi documentarista, che si venne così dispiegando, agitò perfino le quiete acque dell’uniforme mondo cattolico tanto che la Pontificia Commissione Biblica all’inizio del ‘900 volle salvare la tradizione senza negare le recenti conclusioni esegetiche, affermando che i libri erano stati scritti sostanzialmente da Mosè anche se si doveva ammettere una tradizione orale e dei documenti anteriori a Mosè, come pure modifiche e aggiunte posteriori. La stessa Commissione stimolava i cattolici ad approfondire le ricerche: “Invitiamo perciò gli scienziati cattolici a studiare, senza preconcetti, tali problemi alla luce di una sana critica e dei risultati delle altre scienze connesse con quelle materie; tale studio stabilirà senza dubbio la grande parte e la profonda influenza di Mosè come autore e come legislatore” (1).

L’INVITO È STATO SEGUITO?
Da allora l’editoria cattolica ha prodotto moltissime opere di esegesi biblica di pregevole valore, dove non viene più nascosta che la compilazione dei testi sacri è avvenuta in un lungo arco di tempo, coinvolgendo numerosi autori.  Molti studiosi-ecclesiastici per spiegare la stratificazione dei testi sacri ricorrono all’esempio del tell archeologico, “cioè ad una di quelle colline costituite artificialmente dagli strati dei vari stanziamenti umani: una città costruiva sopra la precedente la sua storia, e l’archeologo, tagliando la successione degli strati, riesce a leggere nella terra e nei reperti la mirabile o tragica avventura d’una porzione della storia umana. Il Pentateuco si presenta appunto come un tell dagli strati molteplici[…]”(2). Tuttavia agli uomini di fede il “quando” e il “chi” relativi alla redazione materiale del testo sacro interessa solo marginalmente, perché per loro, in ultima istanza, la Bibbia ha avuto un solo autore, Dio, che ha ispirato i vari agiografi, come viene specificato nelle delibere del concilio Vaticano II “Dio scelse e si servì di uomini in possesso delle loro facoltà e capacità affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte quelle e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte” (3).

GLI AGIOGRAFI AGIRONO DUNQUE COME AUTOMI?
Nella delibera del concilio sopra riportata ci sono due concetti che un logico non esiterebbe a definire contraddittori: da una parte si afferma che Dio fa scrivere ciò che Lui vuole agli autori umani, e dall’altra si definiscono costoro “veri autori”, escludendo così che siano stati degli scrivani che hanno operato sotto dettatura. Ma la fede opera al di là dei fatti e della ragione per cui non ha l’obbligo di sottostare alle regole aristoteliche quando enuncia le sue verità. Ciò si può capire meglio attraverso il seguente immaginoso dialogo.

NEOFITA – Qual è stata la funzione degli autori umani dei Libri Sacri? 
CATTOLICO – Essi si sono limitati ad asserire ciò che Dio ha asserito, per cui, in ultima istanza, Dio è il vero autore della Sacra Scrittura. E siccome Dio non può sbagliare, e neanche vuole ingannare, ne consegue che tutto ciò che è contenuto nei testi rivelati è vero.                                                                                                                                                       
NEOFITA – Perciò gli agiografi sono degli strumenti passivi della parola divina.
CATTOLICO – Non si deve essere così precipitosi nelle conclusioni. L’agiografo non è passivo, infatti è perfettamente consapevole di ciò che scrive, mentre scrive. Solo che lui non inventa nulla, ma espone la verità rivelatagli da Dio.
NEOFITA – Vediamo. Se dico “L’agiografo è uno strumento di cui si serve Dio” non sbaglio.
CATTOLICO – No.
NEOFITA – Ma non uno strumento passivo, bensì libero e intelligente.
CATTOLICO – Giusto. Liberamente comprende e liberamente scrive ciò che Dio gli rivela.
NEOFITA – In forza di questa autonomia - teoricamente - è possibile un margine di errore da parte dell’agiografo.
CATTOLICO – No. Non è possibile, perché Dio illumina la sua mente in modo che lo scrittore sacro “si faccia un giusto concetto” (4), il che vuol dire che comprende il vero senza errore.
NEOFITA – Capisco che nel contenuto, provenendo da Dio, non possono esserci errori, ma il genere letterario, lo stile, la lingua sono decisi dall’uomo…
CATTOLICO – Sì e no.
NEOFITA – Sì e no?
CATTOLICO – L’agiografo non può non scrivere che nelle forme e nella lingua di quel momento storico nel quale vive, ma Dio che lo assiste mentre scrive gli suggerisce le espressioni più appropriate.
NEOFITA – Ma così siamo tornati al punto di partenza: l’agiografo non mette nulla di suo; egli è un vero e proprio strumento della volontà divina.
CATTOLICO – Non siamo esattamente al punto di partenza, perché, questa volta, non lo hai definito strumento passivo. Egli è, sì, uno strumento, ma uno strumento che accetta liberamente di essere tale.
NEOFITA – D’accordo. Ma, proprio per questa libertà io pensavo che ogni eventuale errore fosse attribuibile all’agiografo.
CATTOLICO – Non può sbagliare perché egli è illuminato e guidato da Dio.
NEOFITA – Se escludiamo l’agiografo, dovremo imputare un eventuale errore a Dio stesso?
CATTOLICO – Impossibile! Dio non può sbagliare.
NEOFITA – E allora, a chi va addossato un eventuale errore?
CATTOLICO – La risposta è semplice: o non comprendiamo noi lettori o ha sbagliato qualche copista. Dio e l’agiografo sono esenti dall’errore.
NEOFITA – Allora tutto ciò che non è coerente con la critica esegetica e con la scienza non può essere attribuito alla penna dell’agiografo e tanto meno a Dio.
CATTOLICO – Su questo bisognerebbe discutere caso per caso, anche perché bisogna vedere se occorre un’interpretazione allegorica per cogliere la verità trasmessa da Dio.
NEOFITA – Sarebbe interessante esaminare tutte queste allegorie.
CATTOLICO – Però senza contraddire la Chiesa, per evitare la scomunica.

QUANTI SONO I SENSI DELLA SACRA SCRITTURA?
Origene (185 – 255) nel trattato De principiis sostiene che le Scritture rivelate vanno lette cogliendovi semplicemente il significato letterale e storico, ma, se si è lettori attenti, si possono anche scoprire significati morali e allegorie di verità spirituali. L’interpretazione allegorica tentata da Origene ha lo scopo di correggere gli antropomorfismi del Vecchio Testamento e di raggiungere un concetto puramente spirituale e trascendente di Dio fino a identificarlo con il Bene platonico.
Il discorso sui diversi significati del testo sacro venne ripreso da Agostino (354 – 430) che in La Genesi alla lettera rileva come le parole della Scrittura si possono intendere in senso storico-letterale o in senso figurato, e che solo ricercandone il senso figurato si potesse dare una spiegazione a certe verità bibliche. Egli era troppo intelligente per accettare alla lettera i miti cosmologici contenuti nel Genesi e negli altri libri rivelati, ma la Chiesa non lo seguì su questa strada e così l’interpretazione storico-letterale prevarrà per il lungo periodo medioevale.
Prigioniera del fondamentalismo da essa stessa creato, la Chiesa assumerà un atteggiamento di chiusura nei confronti di ogni scoperta non in linea con i testi dottrinari, scontrandosi inevitabilmente con il progredire della ricerca scientifica. L’episodio del Galilei, costretto all’abiura (5), è noto a tutti, anche perché il papa Giovanni Paolo II ha pubblicamente riconosciuto l’errore allora commesso. L’errore fu dovuto all’interpretazione letterale di Gs 10, 12 – 13:
Fu allora che Giosuè si rivolse al Signore, in quel giorno in cui Dio diede l’Amorreo in potere d’Israele, e gridò al cospetto di tutto il popolo:
“O sole, fermati su Gabaon, e tu, o luna, sulla valle di Aialon!”.
E il sole si fermò e la luna ristette, fino a che il popolo si fu vendicato dei suoi nemici.

Basandosi sui versetti appena citati i dotti della Chiesa avevano elaborato il seguente sillogismo: Poiché la Bibbia parla di un sole che si muove, e poiché la Bibbia non può sbagliare, ne consegue che la teoria eliocentrica - con il sole immoto - è sbagliata ed eretica.    
Oggi è impossibile trovare un cattolico disposto a sostenere la teoria cosmologica della Chiesa seicentesca, perché tutti sanno che bisogna interpretare il canto di Giosuè non come un testo di astronomia, ma come uno scritto epico che celebra l’aiuto dato da Dio al suo popolo contro i nemici.
La Chiesa moderna, scottata dagli errori commessi in passato a causa dell’interpretazione letterale dei testi sacri, si è attestata sul versante opposto, prediligendo l’interpretazione allegorica dell’A.T. “Qualcuno rimpiange queste letture <medioevali>. Io, francamente, no. Era un modo d’intendere Dio troppo secondo la nostra misura, prendendo alla lettera anche ciò che non solo è chiaramente detto in senso simbolico, ma ciò che proprio così acquista tutta la sua enorme grandezza e suscita una risposta religiosa più profonda e definitiva. Varie volte i Padri della Chiesa, ad esempio quel genio di sant’Agostino, avevano anticipato questo tipo di lettura. Ma è solo emergendo dalla tempesta critica che per oltre due secoli ha sottoposto le Scritture al più micidiale dei bombardamenti che, confortati dalla stessa Chiesa, possiamo leggere i sacri testi con occhi di uomini moderni, scaltriti dalla comparazione con altre civiltà della Mezzaluna fertile, abituati a sceverare in uno scritto il lavoro di due o più mani, di due o più tendenze spirituali parallele o intersecate, aperti alla comprensione del vero significato di un’enunciazione attraverso la più sicura conoscenza dei vari generi letterari e dei loro diversi modi di <porgere> una stessa notizia. È grazie a questo santo (sottolineo l’aggettivo) accrescimento di nozioni e di intendimenti che oggi la lettura della Bibbia si rivela un nutrimento ricchissimo, quasi sovrabbondante, per la nostra cultura laica (anche se non, mi permetto di sperare, laicista) e una luce corroborante per la nostra fede”(6).
Confortati dalla lunga citazione di questo studioso cattolico, possiamo dire che:
-la tradizione giudaico-cristiana ha sbagliato attribuendo precisi autori ai libri che compongono il Pentateuco;
-la tradizione giudaico-cristiana ha sbagliato a non rigettare le crudeltà gratuite di cui è pieno l’A.T.;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica ad affermare che i testi sacri sono rimasti integri;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica impuntandosi sull’interpretazione letterale dei testi biblici;
-ha sbagliato la Chiesa Cattolica a opporre le sue credenze alle scoperte della scienza.

IN PASSATO SI SONO COMMESSI TANTI ERRORI. PERCHÉ SCANDALIZZARSI TANTO PER QUELLI COMMESSI DALLA CHIESA? 
La Chiesa non è un soggetto qualunque. Per sua stessa ammissione essa è illuminata dalla presenza costante nel suo seno dello Spirito Santo che ha ricevuto dal Cristo. La Chiesa per sua stessa definizione non può errare, perché, se sbagliasse, sarebbe come se sbagliasse lo Spirito Santo, il che è impossibile.
I Vescovi sono i successori degli apostoli, ed è per questo che “Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la Parola di Cristo” (7).
La convinzione di essere sostenuta dallo Spirito Santo ha spinto la Chiesa ad auto proclamarsi unica interprete autorizzata e verace dei testi sacri:
L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo”, [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 10] cioè ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma (Catechismo, par. 85).

Questo “Magistero però non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 10] (Catechismo, par. 86).

Per questa pretesa infallibilità interpretativa la Chiesa di oggi si trova impantanata in un vicolo cieco. Da una parte non può rinunciare al principio dell’infallibilità perché ciò significherebbe rinnegare la sua storia e il suo essere istituzione divina; dall’altra parte, l’asserita infallibilità la mette in difficoltà, quando è costretta, dall’evidenza della ricerca critica, a riconoscere eventuali errori interpretativi, perché ne va di mezzo la sua credibilità e la sua potestà nel cuore dei fedeli:
I fedeli, memori della Parola di Cristo ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 20] accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori (Catechismo, par. 87).

Gli errori della Chiesa hanno, oltre un valore storico, un valore dottrinale ancora attuale. Ciò spiega la dura e rigida posizione della Chiesa quando le si rivolgono delle contestazioni, e spiega pure  perché ogniqualvolta non abbia potuto fare a meno di rivedere certe errate convinzioni lo abbia fatto utilizzando un fuoco di sbarramento fatto di “se” e di “ma”, che sminuisse la portata teologica dello sbaglio. Per evitare queste imbarazzanti situazioni la Chiesa – come abbiamo detto prima – ha capito di dovere rinunciare il più possibile alla lettura letterale e affidarsi a quella “spirituale” che è meno contestabile. Infatti con l’interpretazione allegorica si rimane comunque sul piano soggettivo delle congetture: si può non essere d’accordo, ma non è dato dimostrare il contrario.

IL FONDAMENTALISMO È SCOMPARSO?
I Testimoni di Geova continuano imperterriti a interpretare alla lettera i testi sacri. Oltre a loro, quanti altri credenti, per ignoranza o per fanatismo, continuano a farlo, non lo sappiamo. Sicuramente sono tanti.

IN CHE MODO LE TRE GRANDI RELIGIONI MONOTEISTE SI RAPPORTANO CON I LIBRI DELL’A.T.?
Tre religioni fanno riferimento all’A.T. – Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo – e tutte e tre si pongono, oggi, in una posizione di superamento dell’A.T. anche se continuano a proclamarne la sacralità. Nelle loro dottrine il testo arcaico dell’ebraismo ha un carattere di provvisorietà superato da nuove posizioni che costituiscono il coronamento, il punto di arrivo di quanto era stato rivelato dagli antichi profeti.
ISLAMISMO. Secondo l’insegnamento di Maometto i libri biblici costituiscono una parziale rivelazione divina superata e completata dal Corano (lettura), che contiene le rivelazioni ricevute dal Profeta grazie all’intermediazione dell’angelo Gabriele (non è chiaro se Allah si sia rivelato anche direttamente). Siccome la parola di Allah è eterna e siccome il Corano è la forma visibile della parola di Dio, i musulmani concludono che una copia originale, un prototipo del Corano sia sempre esistito in cielo. Questo prototipo celeste, chiamato madre del libro (Umm al – kitab), a un certo punto della storia, in una notte santa del mese di Ramadan, fu trasferito dal cielo superiore al cielo inferiore affinché l’angelo Gabriele potesse rivelarlo al Profeta. Alcuni esegeti ritengono che anche il libro che i fedeli leggono quotidianamente è eterno e increato, perché “Ciò che si trova tra le due copertine è la Parola di Dio”.
Per gli storici i 114 capitoli (surah) che lo compongono sono stati scritti in tempi diversi e dopo la morte di Maometto. Le prime trascrizioni furono volute da ‘Omar, verso il 633, per evitare che la memoria dei discorsi del Profeta andasse dispersa, ma la redazione definitiva fu compiuta sotto il califfo ‘Utman (644 – 655 d.C.). Durante il suo califfato un’apposita commissione redasse l’edizione canonica del Corano, bloccando così la circolazione di raccolte incontrollate dei discorsi del Profeta. “Ora la recensione utmanita, che aveva posto termine alle controversie fra le comunità, non risolse tutti i problemi e principalmente non apparve soddisfacente per l’uso liturgico. Apparvero, poi, varianti che riguardano la lettura a motivo della carenza dei copisti addetti alla trascrizione, alla persistenza di differenti tradizioni orali, alla peculiarità dell’arabo scritto che, mancando di vocali e di segni diacritici, consentiva notevolissime varianti nella lettura, con conseguenze in alcuni casi importanti per la interpretazione del testo”(8).
Dal punto di vista esegetico appare evidente la influenza ebraico-cristiana nell’impianto teologico ed escatologico presente nel Corano: personaggi biblici come Mosè, Abramo e Gesù sono esplicitamente citati come precursori e uomini santi; e poi c’è l’aspettativa della fine del mondo e del giudizio universale; è di chiara derivazione giudaica anche il concetto base di un dio personale che, pur trascendendolo, domina il mondo in modo completo, e il fedele non può fare altro nella vita che abbandonarsi alla sua volontà. Anche la maggior parte delle leggende coraniche sono rielaborazioni di narrazioni riportate dalla Torah o di racconti ebraici popolari, come il mito della creazione, la disubbidienza dell’angelo Iblis, il peccato di Adamo ed Eva.
Va precisato che gli Islamici riconoscono come testi rivelati, precedenti la predicazione del Profeta, la Torah, i Salmi e l’Evangelo, forse perché erano i soli testi conosciuti da Maometto.
GIUDAISMO. Il Concilio ebraico di Iamnia, tenutosi nel 90 d. C., ha stabilito che bisognava considerare come rivelati i libri della Torà (cinque), quelli dei Profeti (otto) e gli Agiografi (undici). Con questa delibera il Concilio fece propria la tradizione degli Ebrei di Palestina risalente ai tempi di Esdra (V sec. a. C.) e rigettò la tradizione degli Ebrei di Alessandria, formatasi qualche secolo dopo, che considerava ispirati da Dio vari altri libri (9). Gli scritti inseriti nel canone ufficiale e considerati ispirati furono chiamati “protocanonici”, mentre quelli esclusi dal catalogo furono detti “deuterocanonici”. Questa distinzione si fece secondo Giuseppe Flavio utilizzando il criterio dell’immutabilità nel tempo: “La venerazione di cui noi circondiamo questi libri [protocanonici] è dimostrata dal fatto che da tanti secoli nessuno ha mai osato aggiungervi niente, togliervi niente, alterare niente. S’inculca a tutti i Giudei, fin dalla nascita, che bisogna credere che essi contengono gli ordini di Dio, che bisogna custodirli, e, se necessario, dare anche la vita per essi” (10).
I primi sacerdoti della storia ebraica furono Aronne e suo figlio della tribù di Levi. I loro discendenti formarono una classe a parte sotto la guida dei sommi sacerdoti, massime autorità religiose e in certi momenti anche capi politici. Ma l’ufficio decadde con la distruzione del tempio. Dopo la diaspora, la guida delle singole comunità passò nelle mani del rabbino (rabbi = mio signore) che pur esercitando mansioni religiose non è considerato un sacerdote, ma piuttosto un maestro religioso.
La dispersione della popolazione fece nascere nei rabbini la preoccupazione che l’interpretazione della Bibbia, elaborata nei secoli e trasmessa oralmente di generazione in generazione, andasse dimenticata; per evitare questo si provvide a metterla per iscritto. Nel III sec. Rabbì Jehudà Ha-Nassì compilò la prima raccolta (arricchita poi da altri maestri prestigiosi) degli insegnamenti orali, chiamata Mishnah (ripetizione della legge), in essa vennero descritti gli usi e i costumi che, ispirandosi alla Torah, si erano consolidate nel tempo, diventando le norme religiosi, civili e penali che avevano regolato la vita della nazione israelita fino alla diaspora. Tra la Torah e la Mishnah, c’è lo stesso rapporto che c’è tra la lingua latina e la lingua italiana, nel senso che questa, pur derivando da quella, ne ha preso il posto nella vita pratica. Per gli ebrei la Bibbia contiene in modo esaustivo tutti i precetti possibili che servono all’uomo, pertanto basta lo studio del testo sacro e una sua retta interpretazione per trovare la giusta risposta a ogni problema collettivo o individuale, religioso o profano, spirituale o materiale. Ma questa risposta non sempre è esplicita, e quindi bisogna travalicare la lettura letterale per scoprire il significato nascosto della Bibbia, ciò è possibile solo a chi si accosta alle sacre parole con la giusta predisposizione:
«Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo difficile per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: "Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?". Non è di là dal mare, perché tu dica: "Chi passerà per noi di là dal mare e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?".
Invece, questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica. (Deuteronomio 30, 11 – 14)

L’Insegnamento del passo appena riportato è abbastanza chiaro: è necessario e doveroso studiare la Torah per capirla nei minimi particolari e per metterla in pratica. Questo studio, fin dal VI sec., innescò un dibattito interpretativo che si mantenne sempre acceso nei secoli, per cui quando si prospettò la necessità di mettere per iscritto la Legge orale, molti Maestri espressero il dubbio che la passione e la vivacità culturale che aveva fino allora accompagnato la lettura della Torah potesse, per così dire, sclerotizzarsi, ingessarsi in formule fissate per sempre. Ma, come abbiamo visto, alla fine la preoccupazione che il frutto di quegli studi secolari andasse perduto fu più forte e nacque la Mishnah. A sua volta la Mishnah stimolò i rabbini di Gerusalemme e quelli di Babilonia a studiare questo testo e a esprimersi sulle leggi in esso contenute; la Mishnah e l’insieme di questi commenti (Gemara) costituisce il Talmud (studio) (11). Teoricamente la discussione non è conclusa e il Talmud è un libro aperto a ogni futuro contributo. Il Talmud è un’opera enciclopedica dove si parla, oltre che di teologia, di disparati argomenti scientifici, storici, letterari. Il Talmud è diventato un libro fondamentale nella formazione spirituale e culturale degli Ebrei, tanto che esso è posto allo stesso livello della Bibbia. L’ebraismo oggi esistente, pur avendo le sue radici nella Torah, è molto diverso dalla religione praticata dai patriarchi. Alcuni teologi, per armonizzare il vecchio e il nuovo, hanno definito l’ebraismo attuale come la religione della doppia Legge, appunto la Torah e il Talmud. Nel loro rapportarsi con la Legge dei Loro padri, gli Ebrei moderni si sono scissi in due confessioni: i Riformisti e Gli Ortodossi. L’ebraismo riformista ebbe inizio in Europa durante l’Illuminismo, ma si diffuse nel corso dell’Ottocento mettendo in discussione l’autorità del Talmud e dell’interpretazione rabbinica in nome del metodo della critica storica che essi stavano adottando nella lettura della Bibbia ebraica. Ai Riformisti si deve il concetto teologico di Rivelazione progressiva “Forse, come aveva argomentato Spinoza, le vecchie leggi bibliche (per non parlare di quelle rabbiniche) erano le leggi dell’antico governo ebraico, non più applicabili in cui venivano < rivelati > nuovi valori etici, morali e spirituali.” (12). Il manifesto dell’ebraismo riformato fu stilato in un’apposita conferenza tenutasi a Filadelfia:
Conferenza di Filadelfia, 3-6 novembre 1869.
Dichiarazione dei principi.
I. Lo scopo messianico di Israele non è la restaurazione del vecchio Stato ebraico sotto un discendente di Davide, che implicherebbe una seconda separazione dalle nazioni della terra, ma l'unione di tutti i figli di Dio nel riconoscimento dell'unità di Dio al fine di realizzare 1'unità di tutte le creature razionali e la loro chiamata alla santificazione morale.
2. Consideriamo la distruzione della seconda comunità ebraica non una punizione per la cattiveria di Israele, ma il risultato del proposito divino rivelato ad Abramo, che, com'è diventato ancora più evidente nel corso della storia del mondo, consiste nella dispersione degli ebrei in tutte le parti della terra per la realizzazione della loro somma missione sacerdotale, ovvero condurre le nazioni alla vera conoscenza e adorazione di Dio.
3. Il sacerdozio di Aron e il culto sacrificale di Mosè furono passi preparatori al vero sacerdozio dell'intero popolo, che cominciò con la dispersione degli ebrei, e ai sacrifici di devozione sincera e santificazione morale, gli unici apprezzati e accettabili per il Santissimo. Queste istituzioni, preparatorie per una religiosità più elevata, furono consegnate al passato una volta per tutte con la distruzione del Secondo Tempio, e soltanto in questo senso -come influenze educative del passato - devono essere menzionate nelle nostre preghiere.
4. Per quanto riguarda i riti e i doveri religiosi, ogni distinzione tra aaronidi e non-aaronidi è di conseguenza inammissibile sia nel culto religioso sia nella vita sociale.
5. La scelta di Israele come popolo della religione, portatore dell'idea più elevata di umanità, deve essere ancora, come sempre, fortemente sottolineata, e proprio per questa ragione, ogniqualvolta sarà menzionata, ciò avverrà mettendo nel massimo risalto la missione mondiale di Israele e l'amore di Dio per tutti i Suoi figli.
6. La fede nella resurrezione del corpo non ha fondamento religioso, e la dottrina dell'immortalità si riferisce unicamente alla sopravvivenza dell' anima.
7. Sebbene il mantenimento della lingua ebraica, in cui vennero riposti i tesori della rivelazione divina e in cui sono conservati i resti immortali di una letteratura che influenza tutte le nazioni civilizzate, debba sempre essere una nostra priorità assoluta in quanto realizzazione di un dovere sacro, bisogna prendere atto che questa è diventata inintelligibile alla grande maggioranza dei nostri correligionari. Pertanto, le attuali circostanze consigliano di cedere nella preghiera a una lingua intelligibile, giacché la preghiera, se non è compresa, è una forma senz’anima (13).

In seguito la piattaforma, soprattutto nel XX sec., è stata adeguata ai nuovi tempi con delle deliberazioni che hanno cambiato la legge tradizionale ebraica: così alla donna è stata data l’opportunità di diventare rabbino, al figlio di una coppia mista di essere considerato ebreo in ogni caso, e non soltanto quando lo fosse la madre, all’omosessuale di vivere con dignità la sua “diversità”; negli ultimi tempi, poi, c’è stato un recupero della lingua ebraica, segno di un accresciuto orgoglio nazionale, dopo l’olocausto e la formazione dello Stato d’Israele, e si è accentuata la dimensione etica e spirituale dell’Ebraismo, rinunciando ai sogni di gloria e di potenza legati all’aspettativa di un Messia esclusivo.
Furono gli stessi riformisti a coniare il termine “ortodosso” per indicare i propri oppositori troppo legati, secondo loro, all’Ebraismo tradizionale. Gli ortodossi naturalmente rigettano le novità suggerite dai riformisti, per ribadire una assoluta fedeltà alla Torah le cui norme, essendo di origine divina, non possono essere sottoposti ad alcun cambiamento. Detto questo, non è più possibile fare un discorso unitario sull’Ebraismo ortodosso perché esso forma un mondo molto variegato dove i punti di divisione prevalgono su quelli che uniscono.
Questa tendenza a dividersi sull’interpretazione delle leggi della loro religione è sempre esistita nel popolo ebraico. Così, ad esempio, ai tempi di Gesù, c’erano le seguenti correnti o sette che caratterizzavano la spiritualità ebraica: 1) i Sadducei (“figli di Sadoq”, gran sacerdote contemporaneo di Salomone), i quali ritenevano vincolanti solo le dottrine della Torah e di conseguenza non credevano nella sopravvivenza dopo la morte e nella resurrezione dei corpi, inoltre, avevano un atteggiamento tollerante e permissivo nei confronti degli obblighi religiosi; politicamente essi ritenevano inevitabile collaborare con i Romani per averne in cambio pace sociale e libertà religiosa; 2) i Farisei (separati) che si contrapponevano ai Sadducei, perché consideravano rivelati anche gli scritti successivi alla Torah, perché credevano nella sopravvivenza e nella resurrezione e perché rigettavano ogni “lassismo” nell’adempimento dei precetti religiosi, anzi sostenevano che solo un minuzioso rispetto della tradizione poteva garantire la sopravvivenza della religione dei padri. Nei Vangeli Gesù si scaglia appunto contro il loro formalismo in nome di una fede più spontanea, interiore e concretamente realizzata. In politica i Farisei erano meno disponibili dei Sadducei a collaborare con i Romani e ad accettare l’influenza culturale del mondo ellenico. Una sottocorrente farisaica fu quella degli zeloti che si distinguevano per il loro odio contro i romani contro i quali non esitavano a usare la violenza; 3) i Samaritani, stanziati nella regione omonima, discendevano da quegli ebrei che, avendo evitato la deportazione in Assiria, si erano fusi con altri popoli della regione. I Giudei, fin dai tempi di Esdra ebbero nei loro confronti un atteggiamento di disprezzo sia perché non si erano mantenuti etnicamente puri sia perché praticavano una religione eterodossa in quanto limitavano la rivelazione ai soli cinque libri di Mosè, e per i loro culti non facevano capo al Tempio di Gerusalemme ma a un santuario situato sul monte Garizim; 4) gli Esseni (uomini pii e santi), che abbiamo imparato a conoscere dopo la scoperta dei rotoli del Mar Morto (1947, nei pressi della località di Qumran), avevano costituito un ordine monastico in una località desertica (il deserto, fin dai tempi di Mosè, era considerato luogo privilegiato per incontrare Dio) dove praticavano una santa vita comunitaria, aspettando l’avvento imminente del regno di Dio. Essi avevano un’alta opinione di se stessi, tanto che si consideravano come “il resto o residuo eletto d’Israele” e che pertanto il Patto o Alleanza di cui parla la Bibbia si riferiva solo a loro e non più a tutti gli ebrei, perché la classe sacerdotale, divenuta strumento del male, aveva trascinato il popolo nel peccato. Alcuni studiosi, alla luce degli antichi manoscritti di Qumran, ritengono che tra i fedeli di questa setta ci fossero stati anche Giovanni il battezzatore e Gesù, i quali a un certo punto avrebbero lasciato il loro eremo nel deserto, dissociandosi dagli altri seguaci, per spingere il maggior numero possibile di connazionali a prepararsi all’imminente giudizio di Dio.
CRISTIANESIMO. I Cristiani vantano un numero maggiore di testi sacri, in quanto, oltre ai testi “protocanonici” (riconosciuti da cattolici e protestanti) e a quelli “deuterocanonici” (riconosciuti solo dai cattolici), (14) hanno i loro scritti specifici che costituiscono il cosiddetto nuovo testamento, e precisamente:
-i quattro Vangeli che contengono la nuova Legge;
-gli Atti degli Apostoli che narrano della chiesa nascente e della sua diffusione;
-le quattordici lettere di San Paolo e le sette lettere cattoliche – chiamate così perché non indirizzate ad una Chiesa in particolare, ma alle Chiese in generale – che hanno un valore didattico;
-l’Apocalisse di San Giovanni Apostolo.

Per i cristiani Il N.T. è l’ultima rivelazione di Dio, quella definitiva che non annulla le precedenti, ma le modifica fornendo una nuova chiave di lettura che è il vero modo di intendere il contenuto veterotestamentario.
Secondo la nuova chiave di lettura, L’A.T. acquista il suo autentico significato se riferito allegoricamente a Cristo; ecco alcuni esempi:

-il versetto 15 del Genesi è chiamato “protovangelo”, perché in esso Dio preannunzia la futura redenzione:
Io porrò inimicizia fra te e la Donna, fra il seme tuo e il Seme di lei; Egli ti schiaccerà il capo e tu lo insidierai al calcagno.
Per i Cristiani queste parole sono una profezia riguardante Maria e Gesù, che riapriranno quel paradiso che Eva e Adamo avevano fatto chiudere;
-Isacco raffigura Cristo: Isacco è il figlio più amato di Abramo, come Gesù è il figlio prediletto del Padre, Isacco è condotto a versare il suo sangue su un monte e lo stesso accadrà a Gesù, Isacco trasporta la legna che servirà al suo sacrificio e Gesù trasporterà la croce, Isacco si lascia legare senza resistenza offrendo la gola al coltello e Gesù si lascia stendere sulla croce e inchiodare;
-il roveto ardente di Es 3, 2 è simbolo della verginità di Maria. Come il roveto arde senza bruciare, così Maria generò senza corrompersi (San Gregorio – Cf in  La Sacra Bibbia nota 2 di pag. 71);
-la traversata del mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo e del Battesimo che ci salva dal peccato come la traversata salvò gli Ebrei dalla schiavitù (Cf 1Cor 10, 2);
-la manna è simbolo dell’Eucarestia.

Concludendo, le scritture giudaiche rappresentano per il Cristianesimo il passato – tanto che vengono chiamate Vecchio Testamento – e il loro valore consiste soprattutto nel fatto che in essi è possibile individuare i segni profetici, e quindi la legittimazione, di quella nuova “economia” che trova la sua piena espressione nei libri del nuovo testamento ove il Dio d’Israele si rivela a tutta l’umanità.

SI DEVE CONCLUDERE CHE SULL’A.T. SIA CALATO IL SIPARIO DELLA STORIA?
Il testo è sempre vivo e attuale perché continua ad alimentare la fede di milioni e milioni di persone; perché è un libro esistenziale con il quale bisognerebbe che tutti facessimo, prima o poi, i conti; perché è un libro storico con il quale si è avviato un percorso di cultura e di civiltà che ancora non si è esaurito; perché “vuole essere” un libro di storia che narra le vicissitudini di un popolo.




IL PUNTO SUL PRIMO CAPITOLO


Il pio cattolico che ci ha seguito fin qui si sarà chiesto se il Nuovo Testamento, a differenza del Vecchio, sia esente da problemi filologici-letterari. Per rispondere a questa domanda consideriamo solo i Vangeli che sicuramente costituiscono le fondamenta di tutta l’“economia” cristiana, perché riassumono ciò che Gesù ha fatto e ha detto negli ultimi anni della sua vita. Ogni buon cristiano li ha sempre letti, pensando che si trattassero di testi semplici, lineari e soprattutto veritieri, visto che gli autori presunti furono compagni di Gesù (Matteo e Giovanni) o vissero a ridosso di quegli anni (Marco e Luca), ma chi volesse curiosare tra i numerosissimi libri di critica, anche quelli di matrice cattolica, scoprirebbe un tale groviglio di problemi sui tempi di composizione, sugli autori, sul contenuto e sull’integrità dei testi che lo lascerebbe quanto meno perplesso sull’origine rivelata a cui è abituato a credere.
SUI TEMPI: Subito dopo la morte di Gesù si diffuse una vasta tradizione orale che cominciò a essere messa per iscritta non prima degli anni cinquanta; inizialmente dovettero essere (usiamo il condizionale perché non esistono più) degli appunti o comunque brevi scritti che riportavano singoli episodi della vita del Messia o i suoi detti (loghia). Tutti gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che gli evangelisti abbiano attinto a questo materiale primitivo, scegliendo ciascuno ciò che maggiormente si adattava al tema e all’obiettivo che si era proposto. Oltre a sfruttare tutti quanti la stessa fonte, ogni evangelista (eccetto, naturalmente, il primo) ha utilizzato quello che avevano scritto gli altri in precedenza, ciò vale soprattutto per i sinottici.
Sulla primogenitura dei vangeli sinottici ci sono due ipotesi: 1) Il Vangelo di Marco è il più antico; a esso hanno attinto Matteo e Luca aggiungendovi notizie prese da altre fonti; infatti in Matteo e Luca troviamo materiale preso da Marco mentre in Marco non c’è materiale preso dagli altri due sinottici. 2) Matteo fu il primo a scrivere il Vangelo; lo dice Origene (III sec.) in un passo riportato da Eusebio (Hist. Eccl., VI):
Come ho appreso dalla tradizione riguardo ai quattro vangeli, che soli sono ammessi senza controversia nella Chiesa di Dio che è sotto il cielo: per primo fu scritto secondo Matteo, che era stato pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo, pubblicato per i credenti provenienti dal giudaismo, composto in lingua ebraica.

Ma se dobbiamo tenere conto della testimonianza più antica del vescovo Papia (metà del sec. II), non è appropriato parlare di un Vangelo di Matteo in lingua ebraica, perchè si trattò solo di una raccolta di detti, infatti Papia dice:
Quanto a Matteo, egli riunì in lingua ebraica le sentenze e ciascuno le tradusse come potè.  (La frase è riportata da Eusebio Hist. Eccl., III).

Ovviamente (altrimenti il problema non sussisterebbe) questo scritto di Matteo in aramaico (la lingua parlata in Palestina ai tempi di Gesù) è andato perduto, per cui noi possediamo solo una traduzione in greco; il traduttore nel suo lavoro ha tenuto conto del Vangelo di Marco, a tal punto che W. G. Kummel vede in Matteo la stessa struttura di Marco arricchita da altro materiale (15). Questo basta per farci concludere che tra i vangeli a nostra disposizione la priorità  cronologica spetta a Marco. Oggi, anche in campo cattolico, dove Matteo è stato sempre posto al primo posto, si dà la precedenza a Marco (pur con qualche distinguo per non smentire del tutto la posizione passata): “Si potrebbe iniziare la trattazione dei vangeli sinottici da quello di san Marco, che sembra tra i tre il più arcaico quanto alla composizione. Tuttavia se si guarda all’utilizzazione della Chiesa antica, il vangelo di san Matteo è il primo tra i vangeli che appare usato negli scritti cristiani fin dal I secolo, e quello a cui si ricorre con maggiore frequenza” (16). E ancora lo stesso autore, dopo aver attribuito a Matteo “almeno” i “detti”, aggiunge: “Ciò che si deve ritenere è che il Matteo greco, se non è stato composto direttamente in greco, è almeno stato profondamente rielaborato in occasione della traduzione sulla base di Marco” ( 17).
Se sulla priorità di Marco quasi tutti gli studiosi sono d’accordo, lo stesso vasto consenso non si ritrova invece sulla data di composizione del primo Vangelo. Gli studiosi su questo punto si dividono in due gruppi: quelli che suggeriscono come data possibile i primi anni settanta e quelli (soprattutto cattolici) che indicano gli anni cinquanta o addirittura gli anni quaranta. I primi sostengono che il vangelo sia stato scritto dopo il 70 perché in esso – come negli altri sinottici - viene riferito, sotto forma di predizione, un grave evento accaduto in quell’anno: la distruzione di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito (vedi capitolo secondo). Di fronte a questa “prova” i cattolici ribadiscono che non è assolutamente chiaro che i versetti evangelici si riferiscano all’avvenimento del 70, può essere benissimo che la descrizione di quella sciagura sia effettivamente una previsione, un presagio nato dal timore che il grande fermento nazionalistico che serpeggiava in quegli anni in Palestina potesse suscitare una feroce reazione dei romani i quali non avrebbero esitato a commettere l’abominio che era già avvenuto nel 176 a. C. e raccontato nel Vecchio Testamento (2 Mac 6. Dn 9). Scartata, con questo ragionamento, la collocazione dopo il 70, alcuni studiosi si sono spinti a indicare il periodo della redazione di Marco tra il 42 e il 50, ipotizzando che l’evangelista sia stato indotto a scrivere la “piccola apocalisse” dai tumulti scoppiati a Gerusalemme in seguito alla notizia che l’imperatore Caligola (37 – 41) volesse porre le sue statue nel tempio della città santa. Di questo episodio avvenuto nel 40-41 abbiamo, oltre alla testimonianza di Tacito, quella di Giuseppe Flavio :
 [Caligola]inviò Petronio con un esercito a Gerusalemme per collocarvi le sue statue nel tempio, dandogli ordine, se i giudei non le avessero volute introdurre, di uccidere chi avesse voluto opporre resistenza (la  Guerra Giudaica II,10 – Mondadori, Milano 1982).

Inoltre - argomentano i sostenitori della stesura del Vangelo di Marco prima del 70 - ammesso e non concesso che la descrizione in questione si riferisca alla impresa di Tito, nulla toglie che sia stata un’aggiunta fatta a un testo già fissato prima della fatidica rivolta.
SUGLI AUTORI: La Chiesa ha sostenuto fin dal II secolo che gli autori dei quattro vangeli siano stati rispettivamente Marco, Matteo, Luca e Giovanni; questa vecchia tradizione è la miglior prova sulla paternità dei vangeli. La prima testimonianza è di Papia che si rifà a quanto gli ha riferito un presbitero di nome Giovanni. La testimonianza di Papia ci è stata conservata da Eusebio di Cesarea:
E il Presbitero diceva questo: Marco, interprete di Pietro, scrisse con fedeltà,ma senza ordine,(18) quel che si ricordava degli atti e detti del Signore, giacchè egli non udì né accompagnò il Signore, ma, più tardi, come ho detto, Pietro. […] Quanto a Matteo, egli riunì in lingua ebraica le sentenze e ciascuno le tradusse come potè. (Hist. Eccl., III)

Segue cronologicamente la testimonianza di Ireneo, padre della Chiesa, che verso la fine del II sec. scrisse  Adversus Haereses  che conosciamo indirettamente (soprattutto grazie al solito Eusebio):
Matteo poi tra gli Ebrei nella loro lingua pubblicò un vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano in Roma e fondavano la Chiesa. Dopo la dipartita di costoro, Marco discepolo e interprete di Pietro, anch’egli ci trasmise per scritto le cose predicate da Pietro. Anche Luca, seguace di Paolo, pose in un libro il vangelo da lui predicato. Poi Giovanni, discepolo del Signore, colui che aveva riposato sul seno di lui, anch’egli pubblicò un vangelo durante la sua residenza ad Efeso in Asia. (Adversus Haereses, III)

Che i vangeli canonici siano stati scritti dai quattro autori tradizionali, apostoli o discepoli di apostoli, è pure confermato negli scritti di Tertulliano (155 – 222 circa), Clemente Alessandrino (150 – 215 circa), Origene (185 - 254) e dal Canone Muratoriano. Quest’ultimo è un documento mutilo, trovato dal sacerdote e storico Ludovico Muratori (1672 – 1750) nella biblioteca Ambrosiana, che riporta l’elenco dei libri riconosciuti e utilizzati dalla Chiesa romana alla fine del II secolo, tra cui i vangeli con i loro autori.
    Malgrado queste autorevoli affermazioni, parecchi critici continuano ad esternare dubbi sulla paternità dei Vangeli. Ad esempio, a molti studiosi sembra eccessivo il sentimento antisemitico di cui è pervaso il Vangelo di Matteo; sentimento che lo porta, lui ebreo, ad accusare i connazionali di deicidio con il chiaro intento di scagionare il procuratore romano dalla colpa di aver condannato a morte Gesù:
Ora, i pontefici e gli anziani persuasero le folle a chiedere Barabba e a perdere Gesù. Riprendendo la parola, il governatore disse loro: “Quale dei due volete che io vi liberi?”. Allora essi dissero: “Barabba”. Dice loro Pilato: Cosa dunque farò di Gesù detto il Cristo?”. Rispondono tutti: “Sia crocifisso”. Ma egli replicò: “Che male dunque ha fatto?”. Essi intanto gridavano più forte dicendo: “Sia crocifisso”. Allora Pilato, visto che non approdava a nulla ma,anzi, che ne nasceva un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti al popolo, dicendo: “Io sono innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi”. E tutto il popolo rispose: “Il sangue suo ricada su noi e sui nostri figli”.
Allora, egli lasciò loro libero Barabba e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. (Matteo 27, 20 – 26)

Inoltre un ebreo non avrebbe commesso l’errore di collocare un branco di maiali in Palestina (dove non erano allevati perché considerati animali impuri) e non sarebbe incorso in una serie di anomalie nel raccontare il processo di Gesù: il sinedrio si riunisce di notte e non di giorno, presso la casa del sacerdote Caifa e non nel luogo deputato per questo, la condanna è pronunciata immediatamente senza ascoltare tutte le testimonianze.
Anche su Giovanni quale autore del quarto Vangelo sono avanzate diverse perplessità. In primo luogo l’età: quando lo compose all’inizio del II secolo, egli avrebbe dovuto avere circa 90 anni, il che smentirebbe Gesù che gli aveva predetto una morte da martire (MARCO 10, 35 – 40). In secondo luogo l’istruzione: se dobbiamo credere a Matteo (4, 21) e a Marco (1, 19), Giovanni era un pescatore privo d’istruzione e quindi non poteva scrivere in greco e tanto meno esordire parlando del logos, concetto sviluppato dalla filosofia greca per indicare il principio metafisico del cosmo. In terzo luogo le amicizie altolocate: l’autore raccontando dell’arresto di Gesù dice di se stesso che ebbe la possibilità di entrare nella casa del gran sacerdote, mentre Pietro era stato bloccato davanti al portone (Giovanni 18, 15 – 18); orbene, gli studiosi non riescono a spiegarsi come facesse Giovanni, provinciale poco più che adolescente, ad avere amicizie così altolocate come il pontefice Anna.
SUL CONTENUTO. La conclusione unanime degli studiosi è che ciascun evangelista ha sfruttato solo una parte del materiale preesistente e l’ha scelto in base allo scopo che si prefiggeva e in base alle persone cui era diretto il suo scritto, così: Marco è presentato dalla tradizione come un ebreo palestinese che conobbe bene Pietro tanto che Giustino definisce il suo Vangelo “le memorie di Pietro”, si tramanda pure che il suo scritto, in lingua greca, si rivolgesse alle comunità cristiane convertitosi dal paganesimo e, per mostrare a esse la divinità di Gesù, indugia sui fatti miracolosi; l’apostolo Matteo scrive il suo Vangelo per dimostrare ai suoi connazionali giudei che Gesù è il figlio di Davide, il Messia promesso, e per fare questo collega le profezie messianiche dell’Antico Testamento agli eventi della vita di Gesù e alle parole da lui dette o forse sarebbe meglio dire che adatta la figura di Gesù alle profezie messianiche in modo da dimostrare che esse si sono realizzate con lui; Luca, un medico di Antiochia, fu compagno di Paolo e conformemente al suo insegnamento presenta insistentemente Gesù come il salvatore di tutta l’umanità e non solo dei Giudei; l’apostolo Giovanni, infine, scrisse il suo Vangelo quando la comunità cristiana era in piena espansione e quindi si rendeva necessario (e possibile) un approfondimento teologico della figura e dell’insegnamento di Gesù.
Pur ammettendo che ciascun evangelista abbia attinto quello che gli interessava dalla copiosa tradizione primitiva dei detti e dei fatti che riguardavano Gesù, si rimane lo stesso sconcertati per le divergenze che esistono tra i quattro Vangeli e soprattutto tra i sinottici e il quarto vangelo; e si badi bene che non sempre si tratta di minuzie, ma spesso le divergenze riguardano eventi e messaggi fondamentali nella dottrina di Gesù Cristo, per i quali si ci aspetterebbe una perfetta corrispondenza in tutti e quattro i vangeli. Facciamo alcuni esempi:
-I sinottici citano dodici apostoli mentre Giovanni ce ne segnala solo otto dei quali uno, Natanaele, non c’è nei sinottici;
-nel quarto Vangelo non si parla dell’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena, invece occupa un posto di rilievo la lavanda dei piedi, assente nei sinottici;
-secondo i sinottici l’ultima cena avvenne, come voleva la tradizione ebraica, il giorno di Pasqua (14 Nisan). Ma, per Giovanni, Gesù nel giorno di Pasqua era già nelle mani di Pilato, e quindi la cena è avvenuta prima (Giovanni 18, 39);
-le sfasature cronologiche tra i quattro vangeli non riguardano solo l’ultima cena e la crocifissione. Anche sulla data di nascita di Gesù le indicazioni degli evangelisti sono discordanti: Matteo (II, 1) sostiene che Gesù è nato al tempo del re Erode, sicuramente si tratta di Erode il grande, e questo significa almeno quattro anni prima della nostra era, perché è certo che Erode morì nell’anno 750 di Roma. Luca indica come momento della nascita il censimento ai tempi di Quirino, governatore della Siria:
Ora, in quei giorni uscì un editto di Cesare Augusto che ordinava il censimento di tutta la terra abitata. Questo censimento fu il  primo che ebbe luogo quando Quirino era governatore dellaSira. E tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Pertanto, anche Giuseppe salì dalla Galilea, dalla città di Nazaret in Giudea, alla città di Davide, per farsi iscrivere con Maria sua promessa sposa che era incinta.
Or avvenne che, mentre essi erano là, si compirono i giorni in cui essa doveva partorire, e partorì il suo figlio primogenito, lo avvolse in pannolini e lo depose in una mangiatoia, perché non vi era posto per loro nell’albergo. ( Luca II, 1 – 7)

Ora, grazie a Tacito (Annali 3, 48), e a Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XVII, 13; XVII, 1,1 e 2,1)  sappiamo che il senatore Sulpicio Quirino (morto il 21 d. C.) fu legato della Siria fra il 6 e il 12 e che nell’anno 6/7 attuò un censimento, perché, avendo Augusto deposto Archelao ( figlio e successore di Erode) la Giudea era diventata una provincia imperiale e come tale doveva pagare i tributi a Roma; il censimento costituiva il primo passo per l’imposizione fiscale. Come si vede tenendo presente l’indicazione di Luca la data di nascita si sposta di circa dieci anni.
Marco non ci dà alcuna indicazione sulla data e sul luogo di nascita di Gesù; mentre Giovanni nel capitolo VIII (54-59) riporta un dialogo di Gesù con i Giudei che rimette in discussione la cronologia degli altri evangelisti:
Rispose Gesù: “Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla. C’è il padre mio che mi glorifica, che voi dite: è il nostro Dio, ma non l’avete conosciuto; io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei mentitore come voi. Ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo il padre vostro, esultò al pensiero di vedere il mio giorno, lo vide e ne godè”. Gli dissero dunque i Giudei: “Tu non hai ancora cinquant’anni e hai veduto Abramo?”. Disse loro Gesù: “In verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono”. Presero dunque dei sassi per gettarli su di lui, ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.

Questa discussione si svolge durante la vita pubblica di Gesù, collocabile nell’arco di tempo che va dal 26 al 36 della nostra era, perché questo è il periodo in cui Pilato fu procuratore della Giudea. Ebbene, se sottraiamo cinquant’anni dalla data dell’incarico di Pilato andiamo a finire a parecchi anni prima del 4 a. C. che ci veniva suggerito da Matteo.
SULL’INTEGRITÀ DEI TESTI. Tutti gli studiosi sono d’accordo nell’ammettere che i testi evangelici siano stati manipolati dai traduttori e dai copisti finché la Chiesa, a cavallo tra il II e il III secolo, per evitare controversie dottrinali e per esigenze liturgiche non ne fissò il testo definitivo. Ma ormai erano diventati dei testi stratificati e non era semplice scindere l’originale dalle aggiunte o restaurare ciò che era stato modificato. Tuttavia un duro lavoro esegetico sui testi iniziato nel ‘700 e che continua tutt’ora è riuscito ad individuare le interpolazioni, anche se rimane sempre un ragionevole dubbio. Le modifiche e le aggiunte erano state determinate da esigenze apologetiche, dalle polemiche con i giudei e i pagani, dalla necessità di adattare gli scritti alla nuova teologia che si andava elaborando soprattutto per opera di Paolo.
Sicuramente la tradizione orale primitiva ebbe come nucleo centrale le vicende umane della vita di Gesù e un insegnamento che non si discostava dall’essenza del giudaismo; e sicuramente la redazione originale dei sinottici si attenne a quest’aspetto preminente della tradizione. Le affermazioni sinottiche che si allontanano da questo paletto tradizionale possono essere sospettate di essere delle glosse successive alla redazione originale. Nella seconda metà del primo secolo la testimonianza degli apostoli, travalicando i confini della giudea, si dovette adattare, per essere credibile, alla cultura e alla mentalità ellenica, cosicché man mano che si discostò dall’alveo del giudaismo e si diffuse nel mondo greco-romano, il Cristianesimo subì un’evoluzione che, protesa a valorizzare il Cristo ovvero la divinità del figlio dell’uomo, finì col perdere di vista il Gesù storico. Viene da sé che questo sviluppo storico sia stato accompagnato da un “adattamento” degli scritti evangelici alla contingenza della polemica e della propaganda.
Secondo molti studiosi, e iniziamo così una serie di esempi, la nascita prodigiosa di Gesù da una vergine, preannunciata da un angelo, è una leggenda collocata all’inizio dei Vangeli di Matteo e di Luca, quando non bastò più affermare -come fa Marco -  che Gesù sia stato investito da Dio a compiere la sua missione messianica al momento del battesimo, perché in questo caso sarebbe restato un semplice profeta, un uomo prescelto da Dio, ma pur sempre un uomo, come sostenevano i Giudei. Con questa leggenda si vuole sostenere in modo inconfutabile che Gesù è Dio stesso fattosi uomo, e si ottengono almeno tre risultati: si rintuzzano le critiche dei Giudei; si propone il cristianesimo come religione indipendente, esibendo un principio distintivo inammissibile per la cultura religiosa ebraica; e si favorisce la conversione dei pagani che già possedevano nella loro cultura storie del genere (19).
Un altro esempio d’interpolazione è dato dalla spiegazione della parabola del seminatore in Marco (4, 10 – 20). Gesù inizia la sua spiegazione rifacendosi alle parole di Isaia (6, 9):
E quando si trovò solo, quelli che erano coi dodici intorno a lui lo interrogavano sulle parabole, ed egli diceva loro: “A voi è dato il segreto del regno di Dio, a quelli invece che sono fuori tutto si fa in parabole, affinché, guardando guardino e non vedano e ascoltando ascoltino e non sentano, perché non si convertano e non sia loro perdonato”. (Marco 4, 10 – 12)

Da queste parole sembrerebbe che Gesù usi appositamente le parabole affinché la moltitudine non capisca, non si converta e non si salvi. Ma ciò è contrario alla missione che egli si era prefissato: annunciare il prossimo avvento del regno di Dio affinché tutti si potessero preparare a quell’evento escatologico. E poi a che cosa si dovevano convertire? Egli non propone una nuova dottrina, ma esorta a pentirsi dei peccati commessi per farsi trovare puri al momento del giudizio divino. Chi aggiunse alla redazione originale i suddetti versetti (10 – 12) lo fece per spiegare, rintuzzando così un’obiezione nei confronti del Cristianesimo primitivo, il perché la massa ebraica non avesse recepito il messaggio di Gesù:   i Giudei non hanno creduto, perché il Signore vedendoli prevenuti nei suoi confronti li ha puniti negandogli quella comprensione che li avrebbe potuto salvare. In altre parole è stato Gesù che non li ha accettati e non viceversa (20). In conclusione si può considerare un’aggiunta discriminante nei confronti dei Giudei, e proprio per questo non può essere attribuita a Gesù che più volte ebbe a dire che la sua predicazione e la sua azione erano rivolte alla salvezza del popolo eletto.
Un altro episodio sul quale grava il sospetto che vi siano state delle aggiunte è quello relativo all’incontro di Gesù con il Battista, un incontro che dovette essere determinante per il giovane nazareno visto che subito dopo iniziò la sua vita pubblica. La scena è questa: Gesù, uno sconosciuto galileo pieno di fervore religioso, arriva alle rive del Giordano, dove un uomo (21) dalla forte personalità che si crede essere stato inviato da Dio annunciava la prossima venuta del regno di Dio, purificava, attraverso il battesimo, le persone dal peccato per renderle pronte al giudizio divino, sferzava con invettive i potenti della terra (farisei, sadducei e regnanti), ammaestrava amorevolmente gli uomini di buona volontà a vivere nella temperanza e a essere generosi verso i bisognosi. Tutti questi spunti li ritroveremo in bocca a Gesù, per cui è forte la tentazione di saltare alla conclusione che il Nazareno sia stato influenzato da Giovanni, e che ne continuasse la missione soprattutto dopo la sua morte; questa conclusione, però, era inaccettabile da parte dei primi cristiani che cercavano di accreditare Gesù come figlio unigenito di Dio, andando al di là del messia-unto-servo-di-Javeh aspettato dagli Ebrei. Per evitare il pericolo di un simile legame riduttivo di Gesù con Giovanni, gli agiografi cristiani, non potendo tacere sull’importante funzione del Battista, hanno voluto sottolineare la naturale superiorità del Signore con due dichiarazioni. Una dello stesso Giovanni:
Allora anche Gesù si presentò dalla Galilea a Giovanni presso il Giordano per essere da lui battezzato. Giovanni cercava di impedirlo dicendo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?”. (Matteo 3, 13 – 14).

E l’altra dello Spirito Santo che irrompe sulla scena del battesimo:
Or avvenne che, mentre tutto il popolo era battezzato, anche Gesù si fece battezzare e, mentre pregava, il cielo si aprì, lo Spirito Santo discese sopra di lui in forma corporea, come colomba, e dal cielo venne una voce: “Tu sei il mio Figlio diletto; in te mi sono compiaciuto”. (Luca 3, 21 – 22).

L’apparizione dello Spirito Santo non è una visione del solo Gesù, sicuramente è percepita dal Battista (22), ma, dalla lettura dei testi, si ha l’impressione che tutti i presenti ne siano stati testimoni. Quindi si trattò di un evento straordinario; una rivelazione che avrebbe dovuto impressionare in modo indelebile i presenti e che si sarebbe dovuta diffondere per tutto Israele, invece (e questo fa pensare a una aggiunta successiva) la visione non bastò a convincere il Battista (cosa impossibile se fosse veramente avvenuta), tanto è vero che essendo in prigione mandò alcuni suoi discepoli ad indagare su chi fosse veramente Gesù:
Ora Giovanni, avendo udito nel carcere le opere di Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: “Sei tu colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro?”. (Matteo 11, 2 – 3).

Inoltre l’episodio non ebbe ulteriore risonanza e mai più sarà evocato. Come accade spesso nei vangeli, finita la narrazione dell’episodio, si comincia a parlare d’altro come se nulla fosse avvenuto: in questo caso si riprende con la genealogia di Gesù. La struttura episodica dei sinottici, dove ogni scena è fine a se stessa, ha senz’altro favorito le interpolazioni, ma non ha potuto evitare le incongruenze anche perché traduttori e copisti non sono stati tanto spregiudicati da cancellare il testo primitivo che contraddiceva le loro aggiunte o modifiche. Questa tesi trova sostegno dall’analisi dell’episodio che vede l’adolescente Gesù tra i dottori del Tempio (Luca 2, 41 – 52). Nella pericope giganteggia la figura di questo ragazzo che stupisce i rabbini con le sue domande e con il suo intelligente argomentare. L’episodio è significativo perché prova la natura divina di Gesù, eppure è ignorato dagli altri evangelisti e lo stesso Luca lo liquida con una battuta, preferendo dilungarsi nel meno compromettente dialogo tra la madre preoccupata e il ragazzo. Ora non si capisce perché Maria fosse tanto stupita e preoccupata, conoscendo la missione divina del figliolo, missione che giustifica il rimprovero che gli rivolge Gesù.
Per tutti questi motivi molti studiosi considerano l’intero episodio come un’interpolazione prodotta dalla fantasia di agiografi, insoddisfatti del fatto che gli evangelisti avessero lasciato nel mistero l’infanzia del Signore.
        Dopo questo episodio Luca incomincia a narrare la vita pubblica di Gesù che, come tutti sanno, si concluderà a Gerusalemme. All’ultimo ingresso di Gesù nella capitale della Giudea è legata un’altra scena poco verosimile anche se presente in tutti e quattro i vangeli. Gesù si fa portare un’asina, sulla groppa della quale entra in città, così come prescriveva la profezia messianica di Zaccaria (9, 9-10). E la gente che conosce bene quella profezia si lascia coinvolgere e risponde positivamente, mostrando di credere che Gesù fosse il Cristo.
E la numerosissima folla stese i propri mantelli nella via, altri poi tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sul cammino. Intanto le folle che lo precedevano e seguivano gridavano dicendo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna negli altissimi cieli”. (Matteo 21, 8-9).

         Ci sono almeno due motivi per cui questa narrazione si ritiene inventata: 1) perché “questo magnifico ingresso non ha alcun seguito; come se tutto l’entusiasmo si sia fermato alla porta del Tempio, […]. L’indomani, in città, sembra che nessuno si ricordi più nulla. Non mi pare che le cose sarebbero andate così, se anche una parte dei Gerosolimiti avesse creduto di accogliere il Messia”(23). 2) Lo stesso Matteo chiude la scena parlando di “profeta” e non di “messia”, quasi ad attenuare quanto detto prima:
Essendo poi entrato in Gerusalemme, tutta la città fu commossa e dicevano: “Chi è costui?”. Le folle poi dicevano: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret della Galilea”. (Matteo 21, 10).

Perché questa conclusione prudente di Matteo? Forse non ha voluto irritare i suoi lettori ebrei; oppure temeva che l’esagerazione del racconto potesse essere smentita da chi aveva ancora il ricordo di ciò che effettivamente era accaduto?Ma, dall’altra parte, il fatto che l’episodio si trovi in tutti i vangeli fa pensare che la storia circolasse nell’ambiente cristiano così com’è raccontata; questo è un punto a favore di chi sostiene l’autenticità dell’avvenimento.
Le ipotesi d’interpolazioni e le relative dimostrazioni da parte dei critici sono numerose e riguardano tutta la narrazione evangelica; ci vorrebbe un volume a parte per riportarle tutte. Noi ci siamo limitati a spigolare qua e là per dimostrare che manca la più elementare garanzia che quelle evangeliche siano effettivamente parole di Dio e che tutti i fatti siano accaduti così come sono narrati.
Ciò significa che i Cristiani siano stati degli imbroglioni che hanno alterato i fatti realmente accaduti? Quasi tutti gli storici riconoscono il beneficio della buona fede, nel senso che essi non considerarono i vangeli come un’opera storica, per cui doveva essere rispettata l’aderenza ai fatti, ma erano considerati fin dall’inizio come un’opera didattica o catechistica che aveva un compito ben preciso: fare proseliti e ravvivare la fede della comunità che si stava formando; per questo motivo sembrò legittimo a uomini pieni di spirito religioso e di fanatismo evidenziare o calcare la mano su certe credenze, supposizioni, deduzioni, fatti che potessero fare raggiungere lo scopo che si proponevano. Ma non sempre questo lavoro di filtro e/o di modifica fu fatto con malizia e con cognizioni di causa tanto che furono lasciati - la loro coscienza religiosa non permetteva di cancellare ciò che era stato tramandato dagli apostoli - affermazioni che andavano in senso contrario alle aggiunte che apportavano. Così, ad esempio, a proposito della verginità di Maria nello stesso tempo in cui la proclamavano, lasciavano sussistere delle asserzioni che, se non la negavano, la mettevano in dubbio (24) .

         Posta di fronte a questa lettura critica, disincantata e attenta ai minimi particolari, la teologia cattolica ha tentato di conciliare certe sue posizioni tradizionali con i risultati scientifici (e inconfutabili) della critica esegetica e storica. E l’ha fatto cominciando a parlare anch’essa d’interpolazioni ed errori di traduzione, pur conservando la convinzione che Dio: “dispose che quanto Egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni” (Conc, Ecum, Vat. In Catechismo, par. 74).
Per cercare di conciliare questa convinzione con le obiezioni della critica indipendente, si attribuiscono le difficoltà - come se non fossero reali - ai limiti dell’intelligenza umana che non può pienamente capire le parole di Dio o ai limiti del linguaggio umano che Dio ha dovuto utilizzare per rivelarsi all’uomo.



NOTE AL PRIMO CAPITOLO

1) cf in Introduzione de La Sacra Bibbia – Edizioni Paolini, Roma 1964. Da questa edizione sono tratti tutti i passi biblici riportati in questo libro.
2) G. Ravasi, Antico Testamento -Mondadori, Milano, ristampa 2002 - pag.52.
3) cf. in G. RAVASI, op. cit., pag. 40.
4) Enciclica Providentissimus Deus, cf in Introduzione de La Sacra Bibbia – Edizioni Paolini, 1964.
5) Riportiamo il testo dell’abiura:
            Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
6) I. A. Chiusano in G. RAVASI, op. cit., pag. 9.
7) Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7 cf. in Catechismo della Chiesa Cattolica, edito sulla rete di Internet, par. 79.
8) Alfonso M. Di Nola, L’Islam –Newton Compton editori, Roma, 2001- pag. 59.
9) La Sacra Bibbia, op. cit., pag. XV.
10) Idem, pag. XVI.
11)  Va notato che questo libro che è alla base dell’Ebraismo moderno, fu scritto dopo il vangelo che è alla base del Cristianesimo.
12) N. Solomon, Ebraismo Einaudi, Torino, 1999 – pag. 99.
13) Cfr. in Solomon, op. cit.
14) Il Concilio di Trento nel 1546 riconobbe come ispirati tanto i libri protocanonici quanto i deuterocanonici (L’ECCLESIASTICO, TOBIA, GIUDITTA, I DUE LIBRI DEI MACCABEI, IL LIBRO DELLA SAPIENZA, BARUC CON LA LETTERA DI GEREMIA E ALCUNE PARTI DI ESTER E DANIELE), senza distinzione alcuna. Ma questa decisione non pose fine alla controversia perché i protestanti si schierarono dalla parte del canone palestinese appellandosi all’autorità di San Girolamo che nel Prologus Galeatus aveva considerato apocrifi i libri non protocanonici: “ Quidquid extra hos est inter apocryphos esse ponendum”. La Chiesa Cattolica rispose a questa ennesima provocazione protestante lanciando “anatema” contro chi non condivideva la decisione dei padri conciliari. Conclusione: solo i libri protocanonici sono considerati da tutti come libri rivelati; però, Ebrei e Cristiani li leggono e li  interpretano in una prospettiva temporale così diversa che non sembrano più gli stessi testi. Per gli Ebrei quei libri contengono una promessa divina non ancora realizzata: un futuro radioso su questa terra per tutta l’umanità e soprattutto per il popolo eletto, quando arriverà il Messia. Per i Cristiani l’evento tanto atteso si è realizzato sul piano spirituale con Gesù Cristo, egli è il Messia che ha dato inizio ad una nuova era: a quella città di Dio che per ora si realizza nel cuore di ogni credente e che dopo il giudizio universale avrà la sua assoluta attuazione.
15) Cfr. AA.  VV. Il Messaggio della Salvezza, ELLE DI CI, Torino 1970, pag. 49.
16) Idem, pag.38
17) Idem , pag.46.
18) vedi C. Guignebert, Gesù, Einaudi, Torino 1950, pag. 52.
19) Anche in altre religioni troviamo personaggi nati da una vergine  prima di Gesù. Ricordiamo: Budda, Dionisio, Quirino, Krishna, Zoroastro, Mitra.
20) Cfr. in C. Guignebert, op. cit., pag.308.
21) “Non c’è da tener conto della leggenda di Luca circa la parentela di Maria e di Elisabetta, ritenuta madre del Battista (Lc., I, 26), perché è in contraddizione con tutta la restante tradizione sinottica. Per sincerarsene basta paragonare Lc.,I, 39, 45, 56, dove Maria ed Elisabetta comunicano nell’annuncio messianico, a Mc., III, 20 sgg., dove i suoi vengono per tentar di riprendersi Gesù dicendo che è <<fuor di senno>>”  (C. Guignebert, op. cit. pag. 187 – 188).
22) Giovanni, 1, 32:
E Giovanni rese la sua testimonianza, dicendo: “Ho veduto lo Spirito scendere dal cielo a guisa di colomba e posarsi su di lui”.
23) C. Guignebert, op. cit., pag.276.
24) Come Lc., 2, 6- 7, che parla di Gesù come del primogenito di Maria. E Come tutti gli altri passi che parlano di fratelli e sorelle di Gesù (Mc., 3, 31 – 32;  6, 3. Mt. 7, 46 – 47;13, 55. Gv., 2, 12; 7, 2.).