Alberto Di Girolamo
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO
GIUDAICO-CRISTIANO
PRIMA EDIZIONE
CAPITOLO SECONDO
IL CONTENUTO DELL’ANTICO TESTAMENTO
COSA RACCONTA IL VECCHIO TESTAMENTO?
Secondo il racconto biblico, Dio, essere eterno e non-creato,
intorno al 3761 a. C., (1) creò tutto ciò che esiste con la forza della sua
parola; egli creò dal nulla e non da se stesso o da una materia già esistente.
La genesi del mondo e di tutti gli esseri, invisibili e visibili, richiese sei
giorni; l’ultima creatura a essere creata fu Adamo, il primo uomo, a cui Dio
poi pensò di dare una compagna, Eva, traendola dal suo fianco, per rendergli
più piacevole la vita nel paradiso terrestre. Nel porre l’uomo nell’Eden, Dio
gli aveva dato queste disposizioni:
“Tu puoi mangiare
liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene
e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai” (Gn 2,
16 – 17).
Ma
il demonio spinse le due ingenue creature a violare la proibizione divina
facendo credere loro che, mangiando di quel frutto, avrebbero acquisito la
conoscenza del bene e del male, come la possedeva lo stesso Jahweh. Per la loro
disubbidienza Dio li cacciò dal paradiso terrestre, li rese mortali e li
condannò a vivere nella sofferenza; ma nel castigarli volle attenuare la loro
disperazione, accennando alla possibilità di un futuro riscatto.
Purtroppo i
discendenti di Adamo non fornirono migliore prova, a cominciare da Caino che
uccise per invidia il proprio fratello Abele, tanto che Iddio, di fronte a
questa continua perversione, “si pentì” di aver fatto l’uomo e lo avrebbe
volentieri cancellato dalla faccia della terra se Noè non avesse “trovato
grazia” ai suoi occhi. Per premiare quell’uomo giusto, il Signore lo salvò dal
diluvio universale facendogli costruire un’arca nella quale si poté rifugiare
insieme ai suoi familiari e a una coppia di ogni specie di animali. Quando il
diluvio ebbe termine Noè ringraziò Iddio per averlo risparmiato con un
sacrificio di animali puri, e il Signore, raggiunto da quell’odore soave,
promise a lui e ai suoi figli che non avrebbe mai più sterminato gli esseri
viventi; il patto fu suggellato dall’apparizione dell’arcobaleno. I discendenti
di Noè, quando divennero numerosi, incominciarono a costruire una città con
un’alta torre (la torre di Babele) che fosse segno della loro unione. Ma la
cosa non piacque al Signore perché quella costruzione li poteva rendere troppo
orgogliosi, così decise di confondere “il loro linguaggio” in modo che, non
comprendendosi più tra loro, si disperdessero su tutta la faccia della terra.
Quando la discendenza
di Sem, Cam e Iafet, figli di Noè, incominciò a tralignare, Dio scelse
un uomo giusto, Abramo della progenie di Sem, e gli promise che, se lui e i
suoi posteri fossero stati fedeli, li avrebbe moltiplicati “come la polvere
della terra” e resi padroni del territorio di Canaan. Il segno di questo patto
sarebbe stato la circoncisione di tutti i maschi della progenie del patriarca:
“Voi
circonciderete la carne del vostro prepuzio, e questo sarà il segno del patto
fra me e voi”. (Genesi 17, 11)
La medesima
promessa, poi, Iddio rinnovò a Isacco, figlio di Abramo, e a Giacobbe - detto
Israele per aver lottato con un angelo (cfr.Gn 32) - secondogenito di Isacco.
Giacobbe dalle due mogli e da due serve ebbe complessivamente dodici figli dai
quali discesero le dodici tribù d’Israele. Fra tutti i figli, Giacobbe ebbe una
particolare predilezione per Giuseppe che aveva avuto dall’amata moglie
Rachele, ciò determinò una forte invidia negli altri che decisero di liberarsi
del fratello, vendendolo come schiavo. Portato in Egitto, Giuseppe fu comprato
da un certo Putifar, ufficiale del Faraone. Giuseppe per la sua onestà e per la
sua intelligenza si guadagnò ben presto la fiducia del suo padrone che finì con
l’affidargli tutto quello che aveva. Ma la moglie di Putifar s’invaghì di
Giuseppe e siccome non fu corrisposta dal giovane e avvenente schiavo, lo
accusò presso il marito di aver tentato di sedurla. Per questa ingiusta
calunnia Giuseppe fu messo in prigione, dove ebbe come compagni di cella il
coppiere e il panettiere del Faraone. Durante la prigionia, i due dipendenti
del Faraone fecero dei sogni strani di cui non riuscivano a capire il
significato, ma Giuseppe riuscì ad interpretarli, erano dei sogni premonitori
secondo i quali il coppiere sarebbe stato reinserito al servizio del faraone,
mentre il panettiere sarebbe stato decapitato. Dopo poco tempo accadde tutto
ciò che il giovane ebreo aveva presentito. Ritornato a fianco del Faraone, il
coppiere si ricordò di Giuseppe e della sua capacità di interpretare i sogni,
quando gli indovini di corte si trovarono in difficoltà a spiegare dei sogni
che il sovrano aveva fatto, ne parlò al Faraone che acconsentì a ricevere il
prigioniero. Giuseppe dopo aver ascoltato il sogno fatto dal re profetizzò che
per il futuro ci sarebbero stati sette anni di abbondanza e poi sette anni di
carestia. Il Faraone, convinto che l’interpretazione data da Giuseppe fosse
quella esatta, volle servirsi di quell’uomo eccezionale e gli affidò il compito
di accumulare derrate alimentari negli anni dell’abbondanza per poi utilizzarli
negli anni di carestia. Grazie all’oculato lavoro svolto da Giuseppe, gli
Egiziani non risentirono della carenza di cibo, mentre tutti gli altri popoli
della regione soffrivano la fame. Un giorno Giuseppe si vide comparire davanti
quei fratelli che lo avevano venduto come schiavo, essi erano venuti in Egitto
ad acquistare vettovaglie per la numerosa famiglia che, in Palestina, viveva
nella penuria. Giuseppe accolse senza rancore i familiari, li fece venire tutti
in Egitto e, col permesso del Faraone, li fece stabilire nella regione di
Gessen alla destra del Nilo.
Dopo alcuni
secoli gli Ebrei crebbero di numero e prosperarono molto, tanto che il Faraone
dell’epoca, considerando pericolosa la loro potenza, decise di ridurli in
schiavitù e comandò di gettare i loro nati maschi nelle acque del Nilo. Ma
Iddio volle che un neonato di nome Mosè scampasse a quell’infanticidio e fosse
allevato a corte dalla figlia dello stesso Faraone. Divenuto adulto, Mosè, un
giorno, uccise un egiziano che angariava uno schiavo giudeo, poi, per evitare
di essere condannato per l’omicidio commesso, fuggì nella regione del Sinai,
dove sposò Sefora, figlia di un sacerdote, dalla quale ebbe un figlio che
chiamò Ghersom “perché” disse “abito in terra straniera”. Per tutto il tempo
che stette a Median, Mosè visse pascolando le pecore del suocero. Un giorno
essendosi spinto con il gregge sul monte Oreb, al di là del deserto, egli vide
un pruno che ardeva senza consumarsi, quando, incuriosito, gli si avvicinò, Dio
gli parlò di mezzo al roveto e gli diede l’ordine di ritornare in Egitto per
liberare dalla schiavitù il popolo eletto e guidarlo alla terra promessa.
Quando Mosè tornò in Egitto, trovò sul trono un nuovo Faraone, un uomo molto
superbo il quale non solo si oppose alla richiesta di ridare la libertà al
popolo ebreo, ma ne aggravò la misera condizione, imponendo una maggiore mole
di lavoro. Allora Iddio per piegare l’ostinazione del re d’Egitto colpì quel
paese con dieci piaghe, l’ultima delle quali causò la morte di tutti i
primogeniti egiziani:
A mezzanotte, il Signore
colpì tutti i primogeniti nel paese d'Egitto, dal primogenito del faraone che
sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti
i primogeniti del bestiame (Esodo 12:29).
Avuto, in
seguito a questo terribile prodigio divino, il permesso di partire, il popolo
ebreo attraversò il mar Rosso le cui acque si divisero miracolosamente per
lasciarlo passare, mentre i soldati egiziani, che l’inseguivano per farlo
tornare indietro, rimasero sommersi nel riflusso delle acque. Per ricordare la
miracolosa liberazione fu istituita da Dio la Pasqua.
Quando i
fuggitivi giunsero ai piedi del monte Sinai, Mosè salì, da solo, sul monte e,
tra lampi e tuoni, ricevette le tavole con i dieci comandamenti scritte
direttamente dal dito di Dio. Dopo quaranta giorni, Mosè tornò dal suo popolo e
lo trovò che adorava un vitello d’oro; allora si accese d’ira, infranse le
tavole dei comandamenti divini e punì con la morte coloro che non furono pronti
al pentimento. Dopo aver chiesto, in nome del suo popolo, perdono all’Altissimo
Signore, Mosè ritornò sul Sinai, dove Dio riscrisse le due tavole. Pur avendo
accolto la preghiera di Mosè, Dio decise che la generazione che si era
macchiata del peccato d’idolatria non sarebbe entrata nella terra “in cui
scorre latte e miele”; solo Mosè, dall’alto di un monte ebbe il privilegio di
poter ammirare la futura patria dei figli d’Israele. Mosè morì all’età di 120
anni e fu seppellito da Dio stesso in modo che “nessuno fino al presente ha mai
saputo dove sia la sua tomba” (Dt 34: 6).
Dopo
quarant’anni di peregrinazione nel deserto, Giosuè, scelto da Dio come
successore di Mosè, oltrepassò prodigiosamente il Giordano e iniziò la
conquista della Palestina. I popoli che abitavano la regione furono eliminati
senza pietà, per esplicito ordine divino:
E votarono allo sterminio
tutto ciò che era nella città [Gerico], passando a fil di spada uomini, donne,
bambini, vecchi, buoi, pecore e asini. (Giosuè 6:21)
Poi il Signore disse a
Giosuè: «Non temere, e non ti sgomentare! Prendi con te tutta la gente di
guerra, àlzati e sali contro Ai. Guarda, io do in tua mano il re di Ai, il suo
popolo, la sua città e il suo paese.
Tu tratterai Ai e il suo re
come hai trattato Gerico e il suo re; ne prenderete per voi soltanto il bottino
e il bestiame. Tendi un'imboscata dietro la città». (Giosuè 8:1-2)
Alla presa
di Gerico è legato un episodio di autodafè. Prima dell’attacco, Giosuè aveva
ordinato che “tutto l’argento, l’oro, i vasi di rame e di ferro” che c’erano
nella città dovevano andare ad arricchire il tesoro del Signore. Ma Acar, un
membro della tribù di Giuda, aveva preso per sé un manto, 200 sicli d’argento e
un lingotto d’oro, determinando l’ira di Dio contro i figli d’Israele tanto che
il corso della guerra si mise male per loro. Giosuè, disperato si rivolse a Dio
che gli spiegò il motivo della sua ira e gli suggerì il modo per rimuovere
l’anatema. Dare alle fiamme il colpevole. In breve tempo, con l’aiuto del signore,
Acar fu smascherato e punito, insieme a tutto ciò che gli apparteneva, come Dio
aveva ordinato:
Poi Giosuè e tutto Israele con lui presero Acar con
l’argento, il manto, il lingotto d’oro, insieme con i suoi figli e le sue
figlie, e li condussero con i buoi, gli asini, le pecore, la tenda, e tutto ciò
che gli apparteneva, nella valle di Acor. E Giosuè gli disse. “perché tu hai
fatto del male a noi, il Signore fa del male a te in questo giorno”. E tutto
Israele lapidò lui e tutti i suoi, poi li dettero alle fiamme, quindi ammassò
sopra di lui un grande mucchio di pietre che esiste ancor oggi. Così si placò
lo sdegno del Signore. Per tale motivo quel luogo fu chiamato Valle di Acor,
fino al presente (Genesi 7: 24-26).
Alla morte di Giosuè le dodici tribù d’Israele si erano ormai
stanziati in Palestina, ma, malgrado la guerra fosse stata particolarmente
spietata, non erano riusciti a sopprimere totalmente i loro nemici, per cui
alla fine, stanchi della guerra, fu
giocoforza vivere a fianco dei Cananei e
degli altri popoli che abitavano quei luoghi. Secondo Giudici 2, 20-21,
Jahweh avrebbe deciso di lasciare i Cananei in Palestina per punire Israele reo
di avere adorato gli idoli dei popoli circostanti:
“Poiché questa
gente ha violato il patto da me stabilito coi loro padri, e non ha obbedito
alla mia voce, d’ora in poi Io non distruggerò più dinanzi a loro nessuno di
quei popoli che Giosuè ha lasciato alla sua morte.”
I rapporti di vicinato furono molto difficili e spesso
degenerarono in conflitti armati più o meno ampi, anche perché così voleva Dio
che era contrario ad una pacifica convivenza del popolo eletto con gente che
serviva altre divinità. Quando scoppiava una di queste guerre, se le cose si
mettevano male per gli Ebrei, il Signore suscitava tra il suo popolo un Giudice
che veniva insignito temporaneamente di autorità militare e civile; questi
condottieri carismatici riuscirono con le loro imprese a consolidare, poco per
volta, la conquista del territorio. In quei tempi ciascuna delle dodici tribù
era indipendente dal punto di vista politico-militare ma disponibile, in caso
di guerra, a collaborare temporaneamente con le altre agli ordini del Giudice
designato dal dio comune. Il pericolo più grave gli Ebrei lo corsero nel 1120
a. C. quando il paese fu invaso dai Filistei, proveniente dall’Asia minore
attraverso l’isola di Creta. In occasione di questo grave pericolo il popolo
d’Israele sentì la necessità di unire tutte le tribù sotto un solo capo, un re.
Il
primo re fu Saul (l’invocato), egli fu unto e consacrato capo d’Israele dal
veggente Samuele su ordine di Dio. La monarchia così istaurata fu teocratica, perché
il re era tenuto a eseguire la volontà di Dio che lo aveva scelto, volontà che
veniva comunicata dai sacerdoti e/o profeti. Uniti sotto il comando di Saul,
gli Ebrei, fiduciosi dell’appoggio divino, affrontarono i Filistei e li
sconfissero.
Alla
vigilia della battaglia contro i Filistei, Saul aveva ricevuto dal Signore,
tramite Samuele, quest’ordine:
“Non risparmiare
nulla, ma uccidi tutti: uomini e donne, fanciulli e lattanti, bovi e
pecore, cammelle e asini” (I Samuele 15, 3).
Ma il sovrano disobbedì perché risparmiò dallo sterminio il
re nemico e il bestiame migliore, e allora Samuele, l’uomo del Signore, dopo
aver fatto a pezzi il re di Amalec, dichiarò decaduto Saul e consacrò re
d’Israele Davide della tribù di Giuda. Dopo la morte di Saul, il nuovo re,
Davide, unificò sotto il suo scettro tutto il territorio d’Israele e fece di
Gerusalemme la città santa di tutta la nazione, trasportandovi l’Arca di Dio.
Prima di morire, Davide designò come suo successore Salomone, il figlio che
aveva avuto dalla bella Betsabea, moglie di Uria.
Uomo saggio e amante della pace, Salomone consolidò il
prestigio politico del suo stato instaurando relazioni diplomatiche con l’Egitto,
Tiro e Saba; poi utilizzò l’immensa ricchezza accumulata con il commercio per
costruire in Gerusalemme un magnifico tempio (il cosiddetto Primo Tempio) a
Jahweh, dio d’Israele. Ma non impedì che
nel suo regno si adorassero altre divinità, anzi, egli stesso fece erigere
luoghi di culto per gli dei delle sue mogli pagane (2). Dio, allora, sdegnato contro
Salomone decise di dividere in due il regno d’Israele, ma per fare questo
aspettò che il re fosse morto:
“Tuttavia
non compirò questo durante la tua vita, per amore di Davide, tuo padre: lo
strapperò [il regno] dalle mani di tuo figlio.” (I Re 11, 12)
Il regno si
divise, nel 930 a. C., in quello di Giuda, comprendente le due tribù di Giuda e
di Beniamino, con capitale Gerusalemme, e in quello d’Israele, comprendente le
altre dieci tribù, con capitale Samaria. La storia di questi due Stati si
concluderà con la loro distruzione.
Lo Stato d’Israele sarà conquistato nel 722 a. C. dagli
Assiri perché i suoi abitanti si erano macchiati del solito peccato d’idolatria;
le dieci tribù saranno deportate nell’estremo nord della Mesopotamia e, a
questo punto, di loro si perderanno le tracce.
Il regno di Giuda continuerà ad esistere fino al 587 a. C.
quando Gerusalemme sarà occupata dal re Nabucodonosor che farà distruggere il
Tempio e trascinerà il popolo giudeo prigioniero in Babilonia. Tutto ciò
accadrà perché gli ultimi re di Giuda avevano fatto ciò che è male agli occhi
del Signore.
In questo triste periodo di crisi morale oltre che politica,
la fede nel Dio dei padri fu tenuta viva dai profeti, uomini santi che, sulla
base delle loro visioni, consolidarono e precisarono il monoteismo ebraico,
dichiarando Jahweh unico vero dio, infinitamente giusto e buono, il quale non
guarda più al comportamento collettivo di Israele, ma alla virtù di ogni
singolo individuo.
Già Isaia (vissuto nell’VIII sec. a. C.) negò che il sacrificio
di animali nel Tempio potesse riscattare i peccati ed esaltò il valore di un
cuore pentito agli occhi di Dio. Ma il vero salto di qualità si ebbe nel
periodo della schiavitù, quando gli Ebrei maturarono la convinzione che Jahweh
non fosse solo dio di un popolo e di un luogo, ma di tutta l’umanità e di tutta
la natura.
Un altro grande merito dei profeti fu di aver infuso, nella
disgrazia, la speranza di tempi migliori, annunciando la venuta del Messia (Mashiach
= unto), un re salvatore che avrebbe fatto cessare tutte le sofferenze e
ripristinata l’antica potenza israelita:
Io
stavo contemplando nelle visioni notturne:
or, ecco venire
sulle nubi del cielo,
uno
come un figlio d’Uomo,
il
quale s’avanzò fino all’Antico di giorni e fu condotto davanti a lui,
che
gli conferì potere, maestà e regno, sì che tutti i popoli, le nazioni
e le genti di ogni lingua lo servivano. Il suo potere è un potere eterno, che non passerà,
e il suo regno non sarà mai distrutto (Daniele 7, 13 - 14).
Il Messia
sarebbe nato a Betleem:
E
tu, Betleem-Efrata,
tu sei piccola
fra le migliaia di Giuda; ma da te mi uscirà Colui, che deve regnare in Israele:
la sua
origine risale ai tempi antichi, ai giorni lontani (Michea 5, 1).
L’attesa
messianica era proclamata sulla base delle promesse che Dio aveva fatto in
passato:
Non
sarà tolto lo scettro da Giuda
né il bastone
del comando dai suoi discendenti, finchè venga colui, al quale appartiene e
a cui i popoli dovranno obbedire (Genesi 49, 10).
“La tua casa e il tuo regno sussisteranno per
sempre davanti a me, il tuo trono durerà in eterno”. Natan comunicò a Davide
tutte queste parole [di Dio] e l’intera rivelazione (II Samuele 7, 16-17)
Il Messia
non è inteso (a differenza dei Cristiani) come un essere soprannaturale, ma
come un uomo, un uomo scelto dal Signore:
Lo Spirito del Signore riposerà su di lui:
Spirito di saggezza e d'intelligenza,
Spirito di consiglio e di forza,
Spirito di conoscenza e di timore del Signore. (Isaia 11, 2)
Egli,
ispirato dal Signore, convertirà tutti i popoli e riuscirà a realizzare sulla
terra il “Regno di Dio” e allora:
Il lupo abiterà con l'agnello,
e il leopardo si sdraierà
accanto al capretto;
il vitello, il leoncello e
il bestiame ingrassato staranno assieme,
e un bambino li condurrà.
La mucca pascolerà con l'orsa,
i loro piccoli si sdraieranno assieme,
e il leone mangerà il foraggio come il bue.
Il lattante giocherà sul nido della vipera,
e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del
serpente.
Non si farà né male né danno
su tutto il mio monte santo,
poiché la conoscenza del SIGNORE riempirà la terra,
come le acque coprono il fondo del mare. (Isaia 11,
6 – 9)
La venuta del Messia e l’avvento del regno
di Dio sarebbero coincisi con la fine del mondo e il giudizio universale o
giorno del Signore:
Ah, quel giorno! È
vicino quel giorno del Signore, esso viene come una distruzione dell’Onnipotente! (Gioele 1, 15).
Per
quel giorno vengono preannunziati segni prodigiosi in cielo e sulla terra:
“sangue, fuoco e colonne di fumo”. Poi i popoli, usciti dalle tombe, si
raduneranno nella valle di Giosofat:
Si muovano e salgano le nazioni
alla valle di Giosafat! Là
m’assiderò per giudicare
tutti i popoli
confinanti.
Date mano alla falce,
perché la messe è matura!
Venite,
premete, perché il torchio è pieno,
traboccano i tini,
tanto è grande la loro malizia! (Gioele 4, 12 – 13).
[Nel giorno del
Signore] “saranno salvi, fra il tuo popolo, tutti coloro che si troveranno
iscritti nel libro. E un gran numero di quelli che dormono nella polvere della
terra, si desteranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per il ludibrio e
per l’infamia perpetua” (Daniele 12, 2)
La credenza in una resurrezione della carne alla fine del
mondo e in un giudizio universale erano poco sviluppate prima della cattività
babilonese, com’è dimostrato dal fatto che nella Torah non si parla di
una retribuzione nell’aldilà, ma di una ricaduta su tutto il popolo e/o sui
discendenti delle conseguenze delle azioni buone o cattive. In vista del
Giudizio universale, che si ritenne sempre più immediato, si fece pressante l’invito
al pentimento:
“or dunque” invita
il Signore “tornate a me con tutto il vostro cuore, con digiuni, con pianti e
lamenti; lacerati i vostri cuori, non i vostri vestiti, ritornate al Signore,
Dio vostro, perché egli è misericordioso e compassionevole, lento all’ira, ma
ricco di bontà e gli dispiace colpir con castighi (Gioele 2, 12 – 13).
La
cattività babilonese dei Giudei durò circa cinquant’anni, fino a quando nel 538
a. C. l’impero babilonese fu conquistato dai Persiani, guidati dal re Ciro.
Costui, spinto da Dio, emanò un editto con il quale permise ai Giudei di
ritornare in Palestina, affinché costruissero a Gerusalemme un tempio al
Signore, a tale scopo il re persiano restituì “gli utensili del tempio che
Nabucodonosor aveva portato via da Gerusalemme”.
Zorobabel,
principe di Giuda, guidò il ritorno della maggior parte del popolo eletto nella
sua terra (ma molti ebrei rimasero volontariamente a Babilonia, dove avevano
avviato fruttuose attività, formando una notevole colonia che continuò a sussistere
nel tempo) e fece costruire a Gerusalemme il cosiddetto secondo Tempio. I
rimpatriati furono consapevoli di costituire “il resto” delle gloriose dodici
tribù, e, guidati da Esdra e Neemia, s’impegnarono a riconsacrarsi al Signore,
a essergli fedeli e a osservare la sua Legge. La fanatica osservanza della
Legge portò a degli eccessi come il ripudio delle mogli straniere e dei figli
nati da loro, e a chiudere, all’inizio del sabato, le porte di Gerusalemme per
impedire ogni tipo di attività. Per attuare questa restaurazione religiosa, furono
istituite le sinagoghe, dove veniva letta e commentata la Legge; nacque pure la
categoria degli scribi, dedita allo studio e alla interpretazione della Legge,
e il Consiglio del Sinedrio che fu l’autorità spirituale e giuridica del paese,
anche sotto le successive dominazioni straniere, a partire da quella macedone.
Nel 323 a.C.,
alla morte di Alessandro Magno, il vasto impero da lui conquistato venne diviso
tra i suoi generali: la Siria con capitale Antiochia toccò alla dinastia dei
Seleucidi,(3) mentre I Tolomei ebbero l’Egitto con capitale
Alessandria. La Palestina appartenne all’Egitto fino al 198 a. C. quando fu
conquistata da Antioco III (223 – 187) di Siria. Lui e il suo successore, il
figlio Seleuco IV (187 – 175), condussero verso gli Ebrei una politica
improntata alla tolleranza religiosa, invece il successore Antioco IV Epifanie
(175 – 163) cercò di imporre la religione ellenistica in tutte le parti del suo
impero allo scopo di cementare attorno a una religione comune le diverse etnie
che costituivano i suoi sudditi. Per attuare questo suo progetto dichiarò fuori
legge la religione giudaica proibendone le pratiche e le cerimonie, depose e
poi uccise il sommo sacerdote Onia III, elevò al pontificato uomini di sua
fiducia (4), e, infine, nel 167 inviò un esercito comandato da un
certo Apollonio che saccheggiò e occupò Gerusalemme: “l’abominio della
desolazione” culminò con i Giudei più
bellicosi uccisi o venduti come schiavi e con il Tempio profanato e adibito al
culto di Giove Olimpico.
Molti israeliani cedettero alla violenza
e abiurarono la loro fede, ma vi fu chi preferì la morte e chi si rifugiò nel
deserto per organizzare la resistenza armata. A guidare la lotta fu l’illustre
famiglia degli Asmonei (5), nella quale primeggia la figura di Giuda
Maccabeo. Quest’ultimo con le sue vittoriose battaglie costrinse i Siriani a
rinunciare al loro progetto politico-religioso e nel 164 a. C. stipulò un
accordo grazie al quale poté insediarsi a Gerusalemme e restituire il Tempio al
culto ebraico. I rappresentanti del partito filo-ellenico, fuggiti da
Gerusalemme all’arrivo dei ribelli, tentarono di ritornare al potere con la
forza delle armi siriane, dando vita a una lotta lunga e incerta, ma Giuda Maccabeo e, dopo la sua morte
in battaglia nel 160 a. C., i suoi fratelli Gionatan e Simone riuscirono
sostanzialmente a resistere. Quando nel 134 a. C. muore Simone, la famiglia
degli Asmonei era riuscita a concentrare nelle sue mani il potere religioso e
civile; i suoi successori si poterono così dedicare all’estensione del regno
della Giudea, conquistando la Samaria e parte della Transgiordania.
LA STORIA VETEROTESTAMENTARIA SI FERMA A QUESTO PUNTO. MA COSA
SUCCESSE DOPO?
La dinastia asmonea entrò in crisi quando nella regione
arrivarono i romani. Pompeo conquistò Gerusalemme nel 63 a. C., dopo tre mesi
di assedio i suoi soldati irruppero nella città profanarono il Tempio e fecero
strage di uomini. Della nuova situazione politica ne seppe approfittare
Antipatro, di origine idumea (6), che si schierò dalla parte dei romani e ottenne così
da Cesare la nomina di procuratore della Giudea, poi, approfittando del suo
posto di comando, riuscì a fare in modo che alla sua morte (avvenuta per
avvelenamento nel 43 a. C.) il figlio Erode prendesse il suo posto. Erode
continuò la politica filo romana del padre, e soprattutto ebbe l’abilità di
stare sempre dalla parte del vincitore nelle lotte politiche che si
susseguivano a Roma per il potere, così nel 40 a. C. riuscì ad ottenere da Antonio e Ottaviano il titolo
di re della Giudea.
Da allora ci furono nella Palestina dei sovrani locali
nominalmente indipendenti, ma, di fatto, i romani continuarono a esercitare un
dominio assoluto e incontrastato. Erode fu un buon amministratore del denaro
pubblico e, sotto il suo governo, la Giudea godette un periodo di benessere:
egli avviò una serie di opere pubbliche che stimolarono l’economia della zona e
ridussero la disoccupazione; fra l’altro fece ricostruire il Tempio e, accanto
ad esso, innalzò la fortezza “Antonia”. Ma quest’aspetto positivo del suo
governare fu offuscato dagli eccessi di violenza sanguinosa che lo
portarono - soprattutto nella vecchiaia quando, preda della pazzia, si vedeva
circondato da traditori - a fare uccidere la propria moglie, tre dei suoi figli
e il Sommo Sacerdote e ad ordinare “la strage degli innocenti” di cui parlano i
vangeli (7).
Morto Erode (circa quando nacque Gesù), gli successe il
figlio Archelao. Ma subito dopo scoppiarono delle rivolte contro gli erodiani e
i loro protettori, per cui i Romani, dopo aver represso nel sangue i moti
popolari, decisero di modificare l’assetto politico della Palestina. Dal 6 a.
C. la Giudea, dove più vivi erano i sentimenti nazionalistici e più facili le
rivolte, fu governata direttamente da un procuratore romano, invece, gli altri
territori vennero affidati ai successori di Erode.
I procuratori romani, nei territori che controllavano
direttamente, avevano come referenti della popolazione giudea le autorità
religiose che garantivano l’ordine sociale in cambio della libertà religiosa. È
noto che Roma condusse una politica di grande tolleranza nei confronti dei
popoli che aveva sottomesso, ma gli ebrei non si accontentarono di avere
libertà di culto, il loro monoteismo li portava a rigettare la possibilità che
nella loro santa terra potesse venerarsi un altro dio che non fosse il loro.
Anche per quest’atteggiamento insofferente degli assoggettati, i procuratori,
inviati in quel lontano lembo dell’impero, non mancarono di compiere gesti
provocatori per ribadire la loro autorità, irridendo alla religione ebraica
(erigendo, ad esempio, statue al dio-imperatore). Dal punto di vista economico
questo periodo fu caratterizzato da una crescente povertà che acuì negli Ebrei
l’odio per gli occupanti e il desiderio di una rivalsa. Molti andarono a
ingrossare le fila degli zeloti, un movimento nazionalista fondato, all’inizio
dell’era volgare, dal patriota Giuda il Galileo, prima che fosse giustiziato
dai Romani. Gli zeloti furono molto attivi durante la sollevazione generale
avvenuta tra il 67 e il 73; in un primo momento i ribelli ottennero dei
successi, riuscendo a controllare gran parte della regione, ma in seguito
vennero sconfitti dalle legioni romane guidate prima da Vespasiano e poi da Tito. Gerusalemme fu presa nel 70 dopo una
disperata resistenza da parte dei suoi abitanti che videro il loro Tempio
profanato da Tito, saccheggiato e infine dato alle fiamme. Nel 73 con la
conquista della fortezza di Masnada, i Romani stroncarono l’ultima resistenza,
ma la rivolta si riaccese nel 132, quando Simeone bar Kosiba convinse gli ebrei
che Jahweh avrebbe combattuto al loro fianco; l’insurrezione finì con un
completo disastro per la nazione giudea, perché l’imperatore Adriano, che
comandava le legioni, disperse gli ebrei ai quattro angoli della terra: aveva
inizio la diaspora.
IL PUNTO SUL CAPITOLO SECONDO
Alla luce dei moderni criteri che guidano il lavoro dello
storico, l’Antico Testamento non si può considerare un libro di storia perché in
esso non si fa alcuna differenza tra fatti e interpretazione, tra avvenimenti
reali e miracolosi.
Qualche credente, nel tentativo di difenderne il valore
storico, ha sostenuto che l’Antico Testamento non è molto diverso dell’opera di
Erodoto (ca. 484 – 425 a.C.), giacché anche il padre della storiografia tende a
sconfinare nella leggenda e nel mito, e considera il fato come una forza
superiore che guida gli avvenimenti.
L’accostamento è sicuramente suggestivo, ma non tiene conto
di alcuni fattori che rende Erodoto più storico degli antichi scrittori
d’Israele. Anzitutto Erodoto riporta ciò che ha visto personalmente o ciò che
ha sentito con le sue orecchie raccontare da altri uomini; ci sono spesso, nel
suo raccontare, esagerazioni fantasiose e imprecisioni grosse come macigni, ma
è sempre un parlare umano, non c’è alcun Dio che si rivela e che gli suggerisca
ciò che deve scrivere. E poi Erodoto non pretende che i suoi lettori prendano
per oro colato tutte le notizie che propina e tanto meno pretende di esporre la
“verità” universale. Insomma in lui troviamo un metodo e un atteggiamento del
tutto opposti a quelli degli agiografi biblici che, si sostiene, hanno scritto su
ispirazione divina.
Gli storici indipendenti, cioè coloro che non si lasciano
influenzare nel loro lavoro da sentimenti religiosi, considerano l’Antico
Testamento un resoconto dell’epopea di alcune tribù nomadi che si fanno
nazione, conquistando una patria e maturando un comune sentire religioso. La
saga inizia in Egitto, dove un popolo di schiavi vive nella fede che il loro
Dio li libererà da quella triste condizione e donerà loro un paese ricco di
pascoli e di coltivazioni. Nel XIII si ha l’esodo dalla schiavitù d’Egitto e
nel secolo successivo inizia la conquista della terra promessa; una conquista,
quella di Canaan, lenta e sanguinosa e mai totale, tant’è che Gerusalemme sarà
strappata agli indigeni Gebusei solo con Davide due secoli dopo. A questo punto
quel sogno, che sembrava impossibile, si può considerare realizzato. Israele
non riesce a capacitarsi di aver domato popoli tanto numerosi e agguerriti; non
credendo che ciò possa essere avvenuto solo grazie alle sue forze e al suo
valore, attribuisce il successo all’aiuto di Jahweh, il suo dio degli eserciti,
che, essendo più potente delle divinità dei popoli nemici, l’ha portato alla
vittoria. Se ciò è avvenuto lentamente e con delle battute militari brucianti, la
colpa è di Israele che spesso cade nel peccato, non rispettando le Leggi
divine.
Tutte le vicende narrate nell’Antico Testamento non hanno
storicamente nulla di eccezionale; tanti altri popoli (ricordiamo, en
passant, i Franchi e i Magiari) hanno attuato un processo che li ha visti
conquistare una patria e diventare una grande nazione. Pertanto il contenuto
del Libro è sicuramente “umano, troppo umano” ed è eccessivo parlare di fatti
sovrumani. La convinzione che l’opera compiuta fosse così straordinaria da
farla discendere da Dio produsse una serie di racconti popolari, raccolti e
ordinati dagli agiografi.
Il credente riduce il contenuto dell’Antico Testamento a un
racconto del patto o alleanza tra Dio e il popolo ebreo, pertanto i fatti
storici sono inquadrati teologicamente in modo da soddisfare l’esigenza di
celebrare la presenza divina nella storia umana, tanto è vero che gran parte
del Libro è occupata dalle parole pronunciate direttamente da Dio, dalle sue
leggi, dalle sue profezie, dalle sue lodi. I fatti reali fanno solo da sfondo a
tutto questo. Se si pone Dio come sorgente di ogni esistenza e di ogni
accadimento, è logico che lo si deve porre necessariamente anche come autore
del Libro che testimonia delle sue intenzioni e del suo operare: un libro che
svela la mente di Dio non può essere una umana invenzione letteraria.
Ma
questa logica che vuole Jahweh autore del libro appare molto sospetta se si considera
che le intenzioni di Dio coincidono con l’interesse dei figli di Israele: dare
una patria ai discendenti di Abramo è, infatti, l’impegno fondamentale della
divinità; impegno che Jahweh non realizza con i suoi poteri divini, facendo, ad
esempio, sorgere dalle acque del mare una terra di nessuno, ma sceglie la
soluzione più umana: ripulire un territorio dei suoi abitanti e prendere il
loro posto. Un simile agire militaresco non si addice a quel concetto di Dio
che il Cristianesimo e la filosofia occidentale hanno posto nella nostra testa.
I
libri del Vecchio Testamento sarebbero esclusivamente le fondamenta della
religione di un popolo poco numeroso, quello ebreo, se non fossero stati
rivisitati e rivitalizzati prima dal Cristianesimo che ha posto fine alla frustrante
attesa del Messia e ha acceso l’entusiasmo per un Regno di Dio prossimo
venturo, e poi dall’Islamismo con il suo teocentrismo passionale e
intransigente.
Senza questi due nuovi innesti il vecchio
tronco biblico sarebbe rimasto solo strumento della costruzione di un potere
teocratico da parte di una classe sacerdotale attenta solo ai propri privilegi
o un documento dell’antica cultura orientale.
Le
due nuove religioni non si sono limitate ad appropriarsi delle Scritture
giudaiche e a reinterpretarle, ma, ciascuno di esse ha ottenuto da Dio un nuovo
testo rivelato, il più importante perché l’ultimo, quello definitivo. Non
poteva essere diversamente, visto che ogni religione che si rispetti vanta dei
testi scritti direttamente o indirettamente da Dio, e ritiene false le
scritture altrui. Di fronte a tutti questi testi sacri che circolano nel mondo,
volendo assumere una posizione super partes, la cosa più saggia da fare sarebbe
di negare a tutti quanti la provenienza divina, a meno che non si voglia
aggiungere alle qualità dell’Assoluto anche la grafomania e a meno che non si
vogliano considerare proprie dell’essenza divina le contraddizioni che esistono
fra i presunti testi rivelati, come si è fatto per le antinomie presenti
all’interno del testo biblico.
Un
esame critico e spassionato dei libri del Vecchio testamento approda
inevitabilmente a una censura morale e letteraria di molte pagine che risultano
incomprensibili, illogiche, noiose, contraddittorie, crudeli. Ma la maggior
parte dei fedeli, suggestionati dal fatto che si tratta della “parola di Dio”,
finisce con l’accettare tutto, elogiando ciò che non esiterebbe a considerare
riprovevole se fosse stato detto o fatto da un uomo. In tal senso un grosso
contributo è stato dato da una lunga serie di filosofi-teologi (da Tertulliano
a Pavel e a Florenskij passando per kierkegaard) che per rendere accettabile le
pagine più assurde del V.T. hanno fatto di Dio il sinonimo dei paradossi e
della contraddittorietà, pietra di scandalo per la ragione.
Il
pensiero che la Bibbia sia un prodotto della mente divina, genera in noi un
sentimento di devozione che ci porta a giustificare e ad approvare tutto ciò
che c’è scritto negando voce alla critica della ragione. Noi apprezziamo questo
libro perché proviene da Dio, perché è un suo lascito; amiamo Dio e perciò
amiamo ciò che gli appartiene. Ma sarebbe meglio per tutti, per l’uomo e per
Dio (il concetto che abbiamo di Dio), se questo grande, fanatico sentimento di
amore fosse diretto a ciò che Dio ha fatto piuttosto che a ciò che
probabilmente non ha mai detto, e che dei sadducei gli hanno attribuito per
asservire la volontà di un popolo.
Se amiamo la Bibbia perché “parola di
Dio”, a maggior ragione dovremmo amare la natura e gli altri esseri viventi che
sono “opera di Dio”: l’opera vale più della parola. Se Dio c’è, è sicuro che
l’universo con i suoi esseri viventi lo abbia creato lui, mentre non è sicuro
che sia l’autore di Scritture per tanti versi criticabili. Perché non
rivolgiamo i nostri sentimenti positivi alla natura e al prossimo? Perché un
libro vale più della concordia e della vita, visto che in suo nome si fanno
guerre e si uccide?
NOTE AL CAPITOLO SECONDO
1) Il computo e attribuito al rabino Hillel II (metà del IV sec. a.C. )
il quale arrivò a quella data contando le generazioni succedutesi da Adamo in
poi.
2) Una leggenda rabinica narra che il giorno in cui egli permise
l’idolatria fu fondata Roma, destinata ad abbattere la potenza d’Israele.
3) Dinastia fondata da Seleuco I Monoftalmo, comandante della cavalleria
macedone.
4) A Gerusalemme, soprattutto in seno alla classe sacerdotale e fra i
dirigenti, ci fu un potente partito filo-ellenista che, senza toccare la fede
dei padri, voleva introdurre nel paese usi e costumi ellenici. Questo partito
ellenizzante collaborò attivamente col monarca come dimostra la nomina al
ponteficato prima di Giasone che fece costruire una palestra dove i giovani
potessero svolgere sport tipici del mondo ellenico, e poi di Menelao che
strappò il pontificato a Giasone promettendo al sovrano una grossa somma di
denaro.
5) e precisamente l’anziano sacerdote Mattatia e i suoi cinque figli
Giovanni Gaddi, Simone Tasi, Giuda Maccabeo,Eleazaro Avaran, Gionata Affus. Il
soprannome di Giuda, “Maccabeo” (da maqqabà), fu in seguito esteso a tutta la
famiglia.
6) Gli Idumei, provenienti da Edom in Transgiordania, si erano stanziati
nella Giudea Meridionale, durante la cattività babilonese degli Ebrei. In
seguito furono convertiti con la forza all’ebraismo dal re giudeo Giovanni
Ircano figlio di Simone.
7) L’episodio
non ha alcun riscontro storico, ma dimostra come il monarca, con la sua
crudeltà, abbia colpito negativamente l’immaginario collettivo.