mercoledì 30 dicembre 2015

PRIMO AMORE

Ultimo capitolo


Capitolo 12
Durante il viaggio di ritorno Chiara e suo marito cinguettano come due fringuelli, facendo l’elogio sperticato delle due donne appena conosciute; Teresa, più prudente, si limita ad accodarsi con qualche nota, io, invece, sto muto e, quasi per dissociarmi fisicamente da loro, mi rannicchio il più possibile, cupo nell’animo e nel viso, in un angolo del sedile posteriore.
Dentro di me pesto e ripesto il mio malumore nei confronti di Floriana che non ricorda un’acca del nostro infantile innamoramento, mentre io, in tutti questi anni l’ho rivissuto di continuo, molto più frequentemente dei vecchi film replicati in TV.
Il senso di colpa, derivante dall’aver soffocato una storia d’amore prima che nascesse, mi ha spinto a idealizzare quella ragazzina, e, se fossi stato un poeta come Dante, ne avrei fatto la mia musa ispiratrice, pur non avendo avuto alcun rapporto con lei… o forse proprio per questo.
Quando fantasticavo di lei, non osavo guardare negli occhi mia moglie, temendo di svelare i pensieri traditori nei quali ero perso… E cosa scopro Adesso? Di me, nella sua memoria, non è rimasta neanche una labile traccia.
Preso da questo arrovellamento, arrivati a casa, scendo dall’auto, mantenendo un assoluto silenzio, e mi rifugio in camera mia.
Mai ho trascorso una notte così travagliata come quella che è appena passata. Sono state ore interminabili, durante le quali la mia autostima andò sempre più afflosciandosi.
 A un certo punto mi sono sentito dissociato in me stesso, come attore che recita più parti nello stesso film: ero l’offeso risentito, il pensatore ragionatore e il pentito rimpiangente l’amore della moglie Elisa, non goduto appieno.
L’offeso risentito ripeteva sempre la stessa solfa: «Come ha potuto cancellarmi dalla sua mente in modo così totale?»
Il pensatore ragionatore, dall’alto della sua fredda logica, se la rideva di quest’assurdo piagnisteo: «Come puoi pretendere che una donna adulta rimanga devota a un’ infatuazione infantile?»
Al che, l’offeso, incapace di cogliere l’ironia dell’altro, ribatteva serioso: «Io però l’ho fatto».
«Non al cento per cento» si intromise il terzo me, il rimpiangente pentito, che era assai timido e, quando parlava, neanche veniva preso in considerazione dagli altri due. Il suo dire fu così sommesso da sembrare un ronzare, a confronto del quale, quello di  un moscone sarebbe stato un aereo a reazione.
Lo stesso concetto fu espresso dal pensatore obiettivo: «Tanto devoto non sei stato, visto che ti sei sposato». E lo fece con tono così autoritario che l’offeso sentì il bisogno di giustificarsi.
«Lei era partita, e avvertivo la necessità di una compagna».
E il pensatore: «Questo vale anche per lei».
Allora l’offeso ritornava al punto di partenza: «Neanche il più pallido ricordo ha conservato di quell’amore, bello e sfortunato».
E siccome il discorso non progrediva come logica comanda, il pensatore obiettivo si stufò di perdere il suo tempo e si richiuse nel silenzio dell’incompreso.
Di questa tregua approfittò il rimpiangente per esporre la sua versione dei fatti: «Quello per Floriana fu il primo amore, ma, non per questo, più acceso di quello provato per Elisa. Quando l’abbiamo conosciuta, ciascuno di noi si sentì avvampare per un motivo o per l’altro: ricordo che tu, ragionatore, rimanesti incantato della sua arguzia, e tu che fai l’offeso sbavavi per la sua bellezza…».
Man mano che parlava il timido rimpiangente acquistava sicurezza e la sua voce aumentava di volume, ma purtroppo si era ormai nel cuore della notte e, a causa della giornata faticosa ed emozionante, caddi nel sonno come un fico maturo cade per terra, di botto, senza preavviso.
Non per questo il pentito rimpiangente, che ormai aveva messo la quinta, fermò il suo eloquio, che avvertivo come sottofondo del mio assopimento, anche se non capivo.
Mi svegliai nella tarda mattinata con delle parole che mi turbinavano nella mente, come foglie secche frullate dallo scirocco.
Ero come chi ha in testa un motivetto ma non ne sa rendere conto
Dovetti faticare molto per tirare fuori da quel mulinello un paio di parole e comporle in una frase di senso compiuto, questa: “D’altro si nutre il vero amore”.
«D’altro…» ripeto tra me, nel tentativo di capire e chiarire l’idea, ancora oscura, che sta germinando nella mia mente.
L’aggettivo altro, ragiono, si riferisce a un sentimento amoroso diverso da quello provato per Floriana e quindi a una passione concreta e libidinosa, dominata dal desiderio fisico di fondersi due in uno. Questo sentimento altro, io l’ho provato per Elisa. Quello per Floriana è stato amore platonico, del tutto astratto, ove le pulsioni carnali non sono mai entrate.
Un sentimento che si è alimentato di nulla, continuando a sussistere anche quando, nel corso degli anni, la figura di Floriana sfumava nell’evanescenza del ricordo (la descrizione che ne faccio nel libro è infatti una mia invenzione). Pensare a lei era soltanto un’abitudine, una soggettiva evasione dalla realtà, un rifugio della mente, una poesia non scritta, un pretesto per sottrarre alla rimozione un periodo della mia vita… ed ecco si accende la lampadina della verità: non Floriana, ho amato in tutti questi anni ma la mia infanzia.
Questa è solo una prima verità con la quale da questo momento devo fare i conti. La seconda segue a cascata e riguarda la definizione dell’amore: non quello platonico è l’amore vero, ma quello vissuto, condiviso, appagante, fatto di felicità e angoscia, possesso e smarrimento di sé. L’amore vero ha un oggetto concreto e reale anche se trasfigurato e idealizzato, oggetto che si impone alla coscienza dell’altro fino a farne parte. Le prime due affermazioni mi portano immediatamente a una terza verità: l’esperienza del vero amore, io l’ho avuta solo con Elisa, su questo non c’è dubbio.
La riflessione sul fenomeno misterioso dell’innamoramento, dei suoi aspetti diversi e anche contrastanti non fu così sbrigativa come la sto raccontando, ma si trascinò a lungo, tanto che Teresa non vedendomi apparire in cucina per la colazione, venne a bussare alla porta della mia camera.
«Va tutto bene?» mi chiede da dietro l’uscio.
«Tutto bene!» la rassicuro.
«Ti ho portato la colazione» mi annuncia.
«Entra pure» le dico.
Sono ancora a letto e devo avere un aspetto strano, perché lei sgrana gli occhi appena mi vede.
«Che c’è?» faccio io.
«Che c’è?» chiede lei di rimando.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma», dico io, ti manca solo che ti si drizzino i capelli in testa».
Lei sorride alla mia battuta, poggia il vassoio con latte, caffè e una tortina, fatta da lei, sul mio grembo, si siede sulla sponda del letto: «Sembri smagrito e hai le occhiaie…»
«Non ho dormito bene» le spiego paziente.
«Eppure…», continua lei, «sembri maledettamente in forma».
«Lo sono» faccio io.
«Dietro la trincea delle borse gonfie, i tuoi occhi brillano di luce».
«C’è il sole oggi» dico io, indicando la finestra.
«Non di luce esterna», specifica lei, «ma è un bagliore interiore quello che traspare nei tuoi occhi».
«Sarà!» faccio io che non ho voglia di discutere, e comincio a mangiare.
Lei capisce, non insiste e cambia argomento.
«Ha telefonato Chiara» mi comunica.
«Uh uh» faccio con la bocca piena.
E lei continua: «Per Natale, Ninni e la sua bella tornano da Palermo».
«Uh uh» la incoraggio, ho davvero una fame tremenda stamattina.
«Per l’occasione ha invitato a pranzo Grazia e Floriana» dice lei e noto un’esitazione sul nome di Floriana. Poi continua: «Vorrebbe che ci andassimo pure noi»
«Uh uh» ripeto io che non riesco a interrompere il mio pasto.
«Che significa questo “uh uh”?» chiede lei. «È un sì o un no?».
Inghiotto l’ultimo boccone di torta e chiarisco: «È un sì».
«Bene!» fa lei.
E io chiedo a mia volta: «Perché non vi dovremmo andare? Abbiamo passato il Natale sempre assieme».
«Pensavo che non lo gradissi per il fatto di Floriana» chiarisce lei.
«Quale fatto?»
«Il fatto che non ti abbia riconosciuto e che non si ricorda di te».
«Che mi sia dispiaciuto è vero» confesso io. «Ma questo non significa che non debba trascorrere il Natale con i miei».
«Puoi sempre starle lontano», mi suggerì lei, «e non parlarle».
«E perché mai?» esclamo io.
«Magari non avrete argomenti in comune» fa lei.
«Un argomento,  di cui le voglio parlare, ce l’ho» affermo con sicurezza.
«E sarebbe?»
«Elisa» dico io. «Le parlerò della donna che ho veramente amato».


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