BUON NATALE e BUONA LETTURA
ALBERTO DI GIROLAMO
PRIMO AMORE
capitoli 7 e 8
Caèitolo 7
Per Chiara e Nando la mattina inizia a mezzogiorno.
Difatti, quando arrivano, mancano dieci minuti alle tredici.
Io cerco di ostentare una fredda contrarietà, ma loro
non ci fanno caso.
Dopo il bacetto di prammatica mia figlia chiede: «Perciò
Ninni è innamorato?» Come se parlasse di quisquilie.
«Il suo primo amore» conferma Teresa, sospirando.
«C’è una prima volta per tutti» sentenzia Nando.
Così, per spirito di contraddizione decido di fare la
parte dell’indignato. Mi assegnato questo ruolo, non perché la faccenda mi
scandalizza, ma perché mi sento tradito da mio nipote che ha preso una simile
decisione senza dirmi nulla, senza chiedermi consiglio.
«Che motivo avevano di scappare come dei ladri?» chiedo
con tono acceso.
«Adesso si usa così: prima si convive e poi si ci
sposa» Considera Nando. E, tanto per farmi arrabbiare di più, aggiunge: «Le
cose cambiano, caro suocero».
Mi chiama suocero e mai papà, come preferirei – dice
che non lo fa apposta ma perché gli viene più spontaneo.
«Non le cose cambiano, ma il linguaggio» spiego
piccato. «Una volta si chiamava fuitina e ora convivenza».
«Con la differenza, però, che la fuitina era vissuta
come un dramma, mentre la moderna convivenza è accettata dalle famiglie e dalla
società» ribatte mia figlia, a tono.
Mi sento in dovere di farle una lezioncina sulle
motivazioni socio-economiche che stavano alla base di quell’usanza: «alla fuitina ricorrevano le coppie innamorate
che volevano strappare il consenso ai genitori contrari a quell’unione. Oppure
coloro che, per l’estrema povertà, non potevano affrontare le spese nuziali: il
mancato festeggiamento sarebbe stato un’ammissione della loro indigenza,
un’umiliazione, a meno che non ci fossero motivi d’urgenza come quelli derivati
dalla fuitina, appunto. Una terza
categoria d’innamorati che ricorrevano alla fuitina
erano quelli incapaci di frenare la loro passione per cui sentivano l’urgenza
di stare insieme nello stesso letto».
Ma, Chiara, infastidita dal mio tono professorale, mi
chiede a bruciapelo: «E Franca Viola, allora?»
Quella domanda mi fulmina: il caso Viola non rientrava
in nessuna delle tre categorie di fuitina da me esposte. Questa ragazza di
Alcamo era stata rapita e violentata dal suo ex fidanzato affinché fosse
costretta, secondo la morale dell’epoca, al matrimonio riparatore che avrebbe
salvato l’onore della donna ed estinto il reato perpetrato a suo danno. Ma, il
violentatore si era fatto male i conti, perché la ragazza, rompendo una
consuetudine, si rifiutò di sposare il rapitore che fu condannato.
Non sapendo cosa ribattere me ne sto zitto e lei ne
approfitta per incalzarmi. «La verità è che dimentichiamo presto quello che
abbiamo provato al momento del primo amore, e non abbiamo considerazione per
gli altri».
Io no, penso a quelle parole, io non ho mai dimenticato.
Ma non dico nulla per non aprire una discussione che non avrebbe avuto fine.
La scintilla che incendiò il mio cuore era scoppiata l’anno precedente. Era
il mese di dicembre e le maestre avevano deciso di farci drammatizzare la
natività del bambinello Gesù.
Per realizzare questa recita ogni giorno, fin dal primo dicembre, maschi e
femmine ci ritrovavamo assieme nell’ampio corridoio.
Su alcune pedane, accostate alla parete, era stata preparata una
scenografia stilizzata: due frasche di cipresso significavano la grotta, ma si
capiva soprattutto da un catino di zinco riempito di paglia messo a terra a
simboleggiare la mangiatoia. Intorno alla grotta, poche canne, legate tra loro,
tracciavano le umili casette di Bethleem.
I personaggi, che dovevano riempire quella lontana contrada così
rappresentata, avrebbero dovuto essere pochi, visto gli spazi ristretti. Per
questo motivo le maestre cominciarono a litigare tra loro, volendo, ciascuna, che
i propri alunni primeggiassero nei numeri e nel ruolo. Anche le mamme, appena
seppero del presepe vivente, cominciarono a fare caciara affinché il proprio
figlio fosse scelto come attore. Finì che la maggior parte degli alunni fu
sistemata sul palco, in un sovraffollamento impensabile nella Betleem di
duemila anni prima.
Ma, le discussioni non finirono qui, perché ci fu la guerra per chi doveva
stare nelle prime file e chi dietro. Da quello che ricordo io, si perse più
tempo nelle discussioni che a provare le parti.
Ricordo pure che feci rapidamente carriera perché cominciai col
rappresentare un umile pastore e dopo tre giorni, in seguito a una litigata
della mia maestra con una sua collega, divenni San Giuseppe. Secondo me non
diventai Gesù bambino perché era scontato che quella parte toccasse a un
bambino di prima classe.
La sovraeccitazione che regnava nella scuola si era estesa anche
all’interno delle famiglie degli alunni, perché le mamme, incaricate dalle
maestre di preparare i costumi per i propri figlioli, non esitarono, per fare
bella figura, ad attingere alla magra riserva monetaria della propria casa,
suscitando la reazione contrariata dei rispettivi mariti.
Mia madre per cucirmi il costume s’ispirò a una stampa della Sacra Famiglia
che faceva da capezzale al suo letto matrimoniale. In questa stampa San
Giuseppe era dietro il banco da falegname intento a piallare una tavola; Gesù
era stato collocato in primo piano, seduto per terra, mentre giocava con dei
trucioli; Maria stava all’angolo destro del riquadro ed era stata colta in una
pausa del lavoro di filatura a contemplare amorevolmente il suo bambino.
Il fatto che San Giuseppe si trovasse dietro il banco, e anche dietro la
pialla e quindi dietro l’asse che stava acconciando costituì una difficoltà per
mia madre, perché del vestito del Santo si vedevano solo il colletto e parte
delle maniche. Ma, mia madre aveva un carattere di ferro e non c’era ostacolo
che la potesse fermare; così tagliò, imbastì, e cucì come meglio le piacque. Ne
venne fuori una specie di saio francescano di una misura più grande e lunga del
dovuto.
Quando la prima volta mi recai a scuola con quella tonaca, camminavo
portandola con orgoglio; tanta era la fiducia nella maestria di mia madre che
non mi sembrò bizzarro il fatto che dovessi tenere sollevata la sottana per non
farla strofinare a terra o il fatto che le maniche mi nascondessero le mani
creando l’orribile effetto di chi ne è monco.
Strada facendo qualche persona sorrise nel vedermi e qualche altra sgranò
gli occhi, ma io che pensavo in positivo li interpretai come segni di
compiacimento.
Ci pensarono alcuni compagni ad aprirmi gli occhi su una seconda possibile
versione dei fatti, incominciando a sghignazzare non appena mi videro, perché,
a loro dire, sembravo una femminuccia con quella specie di sottana. Invece loro
erano acconciati da veri pastori con dei virili gambali di pelle di coniglio.
Per smorzare quelle canzonature me ne salii sul palco e andai a
inginocchiarmi a un lato della mangiatoia, pensando che in quell’ambiente
artefatto il mio vestiario sarebbe apparso più consono.
Anche se tenevo gli occhi bassi, come il mio ruolo richiedeva, notai di
sottecchi che il Bambinello non era ancora sulla paglia; allora allargai il mio
orizzonte visivo e costatai che sul palcoscenico non c’era nessun altro. Mi
vidi inginocchiato, da solo, davanti a un catino pieno di paglia e mi sentii
ridicolo. Con un brivido lungo la schiena pensai che, appena qualche compagno
avesse rilevato ciò, si sarebbe scatenato un inferno di risate.
Ma mentre tentavo di sprofondare sotto terra, qualcuno salì sul palco e
venne a inginocchiarsi di fronte a me nell’altro lato della mangiatoia. Era la
Madonna ovvero Floriana che la impersonava con il capo velato da un lungo
scialle di mussola che, complice un
raggio di sole peregrino, le creava
attorno un alone iridescente.
La vidi come mai l’avevo vista: una creatura di luce, brillante gli occhi,
smagliante il sorriso, diafane le gote, dorate le chiome.
Col senno del poi avrei capito che era venuta a salvarmi: inginocchiandosi
accanto a me aveva annullato la mia ridicola solitudine.
Ma, in quel momento, non pensai alla solidarietà che mi offriva, ero troppo
incantato, abbacinato dalla sua apparizione. Stavo lì come un ebete con il
cuore in tumulto, le orecchie occluse, la lingua inerte e la testa leggera come
una scatola vuota. Per un attimo eterno in quel corridoio affollato ci fummo
solo io e lei.
Questo stato confusionale durò finché non arrivò l’alunno della prima che
doveva rappresentare Gesù. Egli per potersi adagiare comodamente nella
mangiatoia, mi spinse da parte e quel tocco sgarbato mi riportò al tempo
presente e a tutti i suoi problemi.
Io ero già per natura un bambino un
po’ svagato, adesso con questo innamoramento diventai del tutto rintronato.
Almeno così immaginavo di apparire agli altri.
Mio padre si lamentava continuamente del mio stato sognante, prendendomi
per scimunito ogni volta che non lo capivo o che non eseguivo correttamente i
suoi comandi.
Io gli avrei aperto volentieri il mio cuore, ma come facevo a confidargli
che a dieci anni mi ero innamorato? Sicuramente non mi avrebbe preso sul serio
e si sarebbe fatto le migliori risate.
«Manca solo che, a dieci anni, si volesse sposare» avrebbe detto in giro.
Così per il timore di essere messo in ridicolo non confidai il mio
sentimento a nessuno, neanche a colei che ne era l’oggetto. Del resto non avrei
potuto, perché, ogni volta che la avvicinavo, il cuore riprendeva a battere, le
orecchie a ronzare, la lingua a impastarsi e il cervello si svuotava persino
del più elementare vocabolario.
Non potendo vivere realmente il sentimento che mi possedeva, sognavo
continuamente di lei; lo facevo quando dormivo e anche quando ero sveglio.
Erano sogni innocenti, in sintonia con l’età: giocavo con lei, e soprattutto
passeggiavo, mano nella mano, lungo viali alberati mai visti.
Lo stato di sventatezza nel quale giacevo costantemente non mancò di
influenzare il mio rendimento scolastico, tanto che la maestra mandò a chiamare
mio padre con il bidello per dirgli che non stavo attento e che non capivo
nulla.
Io quel giorno tornai a casa mogio mogio e assai spaventato per quello che
mi aspettava. Invece mio padre non fu particolarmente severo. Sembrava
rassegnato ad avere un figlio limitato.
«Cerca di prenderti questa licenza»
mi disse «e poi andrai ad imparare un mestiere».
L’indomani la maestra mi chiese se mio padre mi avesse picchiato e alla mia
risposta negativa sembrò delusa.
D’allora non chiamò più i miei genitori, ma ogni volta che mentalmente ero
assente quando spiegava, cosa che accadeva di continuo, mi puniva facendomi
trascorrere la ricreazione in classe da solo, mentre gli altri sciamavano nel
grande corridoio.
Un giorno, mentre me ne stavo in punizione, solo e sconsolato, nella classe
vuota, Floriana sgattaiolò dentro e si sedette accanto a me.
«Vuoi essere il mio ragazzo?» mi chiese.
Mi disse molte cose, ma io, a causa del cuore che batteva e delle orecchie sotto
pressione e del cervello volatilizzato, non capii nulla eccetto che «gli
piacevo» e che voleva sapere se lei piacesse a me. Inutile dire che non le
diedi una risposta perché la lingua mi giaceva morta nel suo alveo.
Avendo interpretato il mio silenzio come una risposta negativa lei scappò
via in lacrime. Mi sentii assai angosciato da questo malinteso, ma essendo
paralizzato dal troppo amore rimasi imbambolato lì dov’ero, invece di correrle
dietro e aprirle il cuore.
Da quel giorno, ogni volta che m’incontrava, mi voltava le spalle,
visibilmente offesa, ignorando i miei larghi sorrisi con i quali credevo di
comunicarle quello che non ero riuscito a dirle, e continuavo a non dire perché
alla sua vista diventavo una statua di sale.
La mia condizione psicologica peggiorò terribilmente quando seppi che la
famiglia di Floriana era emigrata a nord. Fui preso da una struggente
malinconia che mi avvolse come un bozzolo dal quale percepivo il mondo come
distante e insensato.
Capitolo 8
«Che fai vieni?»
«Come?»
«Certo che veniamo!» Teresa risponde anche per me.
«Dove?» chiedo, guardando l’una e l’altra senza
capire.
«Non mi stai a sentire» si lamenta mia figlia.
«Certo che ti ascolto» protesto io, mentendo.
«Bene. Domani, che è il nostro giorno libero, andiamo
a trovare i familiari di Barbara…»
La interrompo: «E chi è Barbara?»
«Come “chi è?” È la compagna di Ninni».«Ah, si chiama così?»
«Senti. Se vuoi fare polemica, me ne vado» minaccia mia figlia.
«Tranquilla che veniamo» interviene Teresa, troncando
quel battibecco che poteva degenerare.
«Bene, ci vediamo, domani alle undici».
si può leggere gratuitamente l'intero romanzo.
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