martedì 22 dicembre 2015


BUON NATALE e BUONA LETTURA


ALBERTO DI GIROLAMO

PRIMO AMORE
capitoli 7 e 8

Caèitolo 7
Per Chiara e Nando la mattina inizia a mezzogiorno. Difatti, quando arrivano, mancano dieci minuti alle tredici.
Io cerco di ostentare una fredda contrarietà, ma loro non ci fanno caso.
Dopo il bacetto di prammatica mia figlia chiede: «Perciò Ninni è innamorato?» Come se parlasse di quisquilie.
«Il suo primo amore» conferma Teresa, sospirando.
«C’è una prima volta per tutti» sentenzia Nando.
Così, per spirito di contraddizione decido di fare la parte dell’indignato. Mi assegnato questo ruolo, non perché la faccenda mi scandalizza, ma perché mi sento tradito da mio nipote che ha preso una simile decisione senza dirmi nulla, senza chiedermi consiglio.
«Che motivo avevano di scappare come dei ladri?» chiedo con tono acceso.
«Adesso si usa così: prima si convive e poi si ci sposa» Considera Nando. E, tanto per farmi arrabbiare di più, aggiunge: «Le cose cambiano, caro suocero».
Mi chiama suocero e mai papà, come preferirei – dice che non lo fa apposta ma perché gli viene più spontaneo.
«Non le cose cambiano, ma il linguaggio» spiego piccato. «Una volta si chiamava fuitina e ora convivenza».
«Con la differenza, però, che la fuitina era vissuta come un dramma, mentre la moderna convivenza è accettata dalle famiglie e dalla società» ribatte mia figlia, a tono.
Mi sento in dovere di farle una lezioncina sulle motivazioni socio-economiche che stavano alla base di quell’usanza: «alla fuitina ricorrevano le coppie innamorate che volevano strappare il consenso ai genitori contrari a quell’unione. Oppure coloro che, per l’estrema povertà, non potevano affrontare le spese nuziali: il mancato festeggiamento sarebbe stato un’ammissione della loro indigenza, un’umiliazione, a meno che non ci fossero motivi d’urgenza come quelli derivati dalla fuitina, appunto. Una terza categoria d’innamorati che ricorrevano alla fuitina erano quelli incapaci di frenare la loro passione per cui sentivano l’urgenza di stare insieme nello stesso letto».
Ma, Chiara, infastidita dal mio tono professorale, mi chiede a bruciapelo: «E Franca Viola, allora?»
Quella domanda mi fulmina: il caso Viola non rientrava in nessuna delle tre categorie di fuitina da me esposte. Questa ragazza di Alcamo era stata rapita e violentata dal suo ex fidanzato affinché fosse costretta, secondo la morale dell’epoca, al matrimonio riparatore che avrebbe salvato l’onore della donna ed estinto il reato perpetrato a suo danno. Ma, il violentatore si era fatto male i conti, perché la ragazza, rompendo una consuetudine, si rifiutò di sposare il rapitore che fu condannato.
Non sapendo cosa ribattere me ne sto zitto e lei ne approfitta per incalzarmi. «La verità è che dimentichiamo presto quello che abbiamo provato al momento del primo amore, e non abbiamo considerazione per gli altri».
Io no, penso a quelle parole, io non ho mai dimenticato. Ma non dico nulla per non aprire una discussione che non avrebbe avuto fine.

La scintilla che incendiò il mio cuore era scoppiata l’anno precedente. Era il mese di dicembre e le maestre avevano deciso di farci drammatizzare la natività del bambinello Gesù.
Per realizzare questa recita ogni giorno, fin dal primo dicembre, maschi e femmine ci ritrovavamo assieme nell’ampio corridoio.
Su alcune pedane, accostate alla parete, era stata preparata una scenografia stilizzata: due frasche di cipresso significavano la grotta, ma si capiva soprattutto da un catino di zinco riempito di paglia messo a terra a simboleggiare la mangiatoia. Intorno alla grotta, poche canne, legate tra loro, tracciavano le umili casette di Bethleem.
I personaggi, che dovevano riempire quella lontana contrada così rappresentata, avrebbero dovuto essere pochi, visto gli spazi ristretti. Per questo motivo le maestre cominciarono a litigare tra loro, volendo, ciascuna, che i propri alunni primeggiassero nei numeri e nel ruolo. Anche le mamme, appena seppero del presepe vivente, cominciarono a fare caciara affinché il proprio figlio fosse scelto come attore. Finì che la maggior parte degli alunni fu sistemata sul palco, in un sovraffollamento impensabile nella Betleem di duemila anni prima.
Ma, le discussioni non finirono qui, perché ci fu la guerra per chi doveva stare nelle prime file e chi dietro. Da quello che ricordo io, si perse più tempo nelle discussioni che a provare le parti.
Ricordo pure che feci rapidamente carriera perché cominciai col rappresentare un umile pastore e dopo tre giorni, in seguito a una litigata della mia maestra con una sua collega, divenni San Giuseppe. Secondo me non diventai Gesù bambino perché era scontato che quella parte toccasse a un bambino di prima classe.
La sovraeccitazione che regnava nella scuola si era estesa anche all’interno delle famiglie degli alunni, perché le mamme, incaricate dalle maestre di preparare i costumi per i propri figlioli, non esitarono, per fare bella figura, ad attingere alla magra riserva monetaria della propria casa, suscitando la reazione contrariata dei rispettivi mariti.
Mia madre per cucirmi il costume s’ispirò a una stampa della Sacra Famiglia che faceva da capezzale al suo letto matrimoniale. In questa stampa San Giuseppe era dietro il banco da falegname intento a piallare una tavola; Gesù era stato collocato in primo piano, seduto per terra, mentre giocava con dei trucioli; Maria stava all’angolo destro del riquadro ed era stata colta in una pausa del lavoro di filatura a contemplare amorevolmente il suo bambino.
Il fatto che San Giuseppe si trovasse dietro il banco, e anche dietro la pialla e quindi dietro l’asse che stava acconciando costituì una difficoltà per mia madre, perché del vestito del Santo si vedevano solo il colletto e parte delle maniche. Ma, mia madre aveva un carattere di ferro e non c’era ostacolo che la potesse fermare; così tagliò, imbastì, e cucì come meglio le piacque. Ne venne fuori una specie di saio francescano di una misura più grande e lunga del dovuto.
Quando la prima volta mi recai a scuola con quella tonaca, camminavo portandola con orgoglio; tanta era la fiducia nella maestria di mia madre che non mi sembrò bizzarro il fatto che dovessi tenere sollevata la sottana per non farla strofinare a terra o il fatto che le maniche mi nascondessero le mani creando l’orribile effetto di chi ne è monco.
Strada facendo qualche persona sorrise nel vedermi e qualche altra sgranò gli occhi, ma io che pensavo in positivo li interpretai come segni di compiacimento.
Ci pensarono alcuni compagni ad aprirmi gli occhi su una seconda possibile versione dei fatti, incominciando a sghignazzare non appena mi videro, perché, a loro dire, sembravo una femminuccia con quella specie di sottana. Invece loro erano acconciati da veri pastori con dei virili gambali di pelle di coniglio.
Per smorzare quelle canzonature me ne salii sul palco e andai a inginocchiarmi a un lato della mangiatoia, pensando che in quell’ambiente artefatto il mio vestiario sarebbe apparso più consono.
Anche se tenevo gli occhi bassi, come il mio ruolo richiedeva, notai di sottecchi che il Bambinello non era ancora sulla paglia; allora allargai il mio orizzonte visivo e costatai che sul palcoscenico non c’era nessun altro. Mi vidi inginocchiato, da solo, davanti a un catino pieno di paglia e mi sentii ridicolo. Con un brivido lungo la schiena pensai che, appena qualche compagno avesse rilevato ciò, si sarebbe scatenato un inferno di risate.
Ma mentre tentavo di sprofondare sotto terra, qualcuno salì sul palco e venne a inginocchiarsi di fronte a me nell’altro lato della mangiatoia. Era la Madonna ovvero Floriana che la impersonava con il capo velato da un lungo scialle di mussola che, complice  un raggio di sole  peregrino, le creava attorno un alone iridescente.
La vidi come mai l’avevo vista: una creatura di luce, brillante gli occhi, smagliante il sorriso, diafane le gote, dorate le chiome.
Col senno del poi avrei capito che era venuta a salvarmi: inginocchiandosi accanto a me aveva annullato la mia ridicola solitudine.
Ma, in quel momento, non pensai alla solidarietà che mi offriva, ero troppo incantato, abbacinato dalla sua apparizione. Stavo lì come un ebete con il cuore in tumulto, le orecchie occluse, la lingua inerte e la testa leggera come una scatola vuota. Per un attimo eterno in quel corridoio affollato ci fummo solo io e lei.
Questo stato confusionale durò finché non arrivò l’alunno della prima che doveva rappresentare Gesù. Egli per potersi adagiare comodamente nella mangiatoia, mi spinse da parte e quel tocco sgarbato mi riportò al tempo presente e a tutti i suoi problemi.
 Io ero già per natura un bambino un po’ svagato, adesso con questo innamoramento diventai del tutto rintronato.
Almeno così immaginavo di apparire agli altri.
Mio padre si lamentava continuamente del mio stato sognante, prendendomi per scimunito ogni volta che non lo capivo o che non eseguivo correttamente i suoi comandi.
Io gli avrei aperto volentieri il mio cuore, ma come facevo a confidargli che a dieci anni mi ero innamorato? Sicuramente non mi avrebbe preso sul serio e si sarebbe fatto le migliori risate.
«Manca solo che, a dieci anni, si volesse sposare» avrebbe detto in giro.
Così per il timore di essere messo in ridicolo non confidai il mio sentimento a nessuno, neanche a colei che ne era l’oggetto. Del resto non avrei potuto, perché, ogni volta che la avvicinavo, il cuore riprendeva a battere, le orecchie a ronzare, la lingua a impastarsi e il cervello si svuotava persino del più elementare vocabolario.
Non potendo vivere realmente il sentimento che mi possedeva, sognavo continuamente di lei; lo facevo quando dormivo e anche quando ero sveglio. Erano sogni innocenti, in sintonia con l’età: giocavo con lei, e soprattutto passeggiavo, mano nella mano, lungo viali alberati mai visti.
Lo stato di sventatezza nel quale giacevo costantemente non mancò di influenzare il mio rendimento scolastico, tanto che la maestra mandò a chiamare mio padre con il bidello per dirgli che non stavo attento e che non capivo nulla.
Io quel giorno tornai a casa mogio mogio e assai spaventato per quello che mi aspettava. Invece mio padre non fu particolarmente severo. Sembrava rassegnato ad avere un figlio limitato.
 «Cerca di prenderti questa licenza» mi disse «e poi andrai ad imparare un mestiere».
L’indomani la maestra mi chiese se mio padre mi avesse picchiato e alla mia risposta negativa sembrò delusa.
D’allora non chiamò più i miei genitori, ma ogni volta che mentalmente ero assente quando spiegava, cosa che accadeva di continuo, mi puniva facendomi trascorrere la ricreazione in classe da solo, mentre gli altri sciamavano nel grande corridoio.
Un giorno, mentre me ne stavo in punizione, solo e sconsolato, nella classe vuota, Floriana sgattaiolò dentro e si sedette accanto a me.
«Vuoi essere il mio ragazzo?» mi chiese.
Mi disse molte cose, ma io, a causa del cuore che batteva e delle orecchie sotto pressione e del cervello volatilizzato, non capii nulla eccetto che «gli piacevo» e che voleva sapere se lei piacesse a me. Inutile dire che non le diedi una risposta perché la lingua mi giaceva morta nel suo alveo.
Avendo interpretato il mio silenzio come una risposta negativa lei scappò via in lacrime. Mi sentii assai angosciato da questo malinteso, ma essendo paralizzato dal troppo amore rimasi imbambolato lì dov’ero, invece di correrle dietro e aprirle il cuore.
Da quel giorno, ogni volta che m’incontrava, mi voltava le spalle, visibilmente offesa, ignorando i miei larghi sorrisi con i quali credevo di comunicarle quello che non ero riuscito a dirle, e continuavo a non dire perché alla sua vista diventavo una statua di sale.
La mia condizione psicologica peggiorò terribilmente quando seppi che la famiglia di Floriana era emigrata a nord. Fui preso da una struggente malinconia che mi avvolse come un bozzolo dal quale percepivo il mondo come distante e insensato.




Capitolo 8
«Che fai vieni?»
«Come?»
«Certo che veniamo!» Teresa risponde anche per me.
«Dove?» chiedo, guardando l’una e l’altra senza capire.
«Non mi stai a sentire» si lamenta mia figlia.
«Certo che ti ascolto» protesto io, mentendo.
«Bene. Domani, che è il nostro giorno libero, andiamo a trovare i familiari di Barbara…»
La interrompo: «E chi è Barbara?»
«Come “chi è?” È la compagna di Ninni».«Ah, si chiama così?»
«Senti. Se vuoi fare polemica,  me ne vado» minaccia mia figlia.
«Tranquilla che veniamo» interviene Teresa, troncando quel battibecco che poteva degenerare.
«Bene, ci vediamo, domani alle undici».

si può leggere gratuitamente l'intero romanzo.

Nessun commento:

Posta un commento