sabato 12 dicembre 2015

ALBERTO DI GIROLAMO

PRIMO AMORE



Capitolo 3
Anche questa sera la pasta le è venuta croccante senza essere rinsecchita. Neanche i pizzaioli di professione riescono ad ottenere un simile risultato. Quanto al condimento, la salsa è sempre fresca, di giornata, e la mozzarella di qualità. Basterebbero solo questi due ingredienti per condire la pizza ma Teresa ci aggiunge qualche pezzettino di acciuga e ortaggi di stagione come zucchine e melenzane. Al massimo ci mette pure i funghi, ma rifiuta categoricamente di allontanarsi dalla tradizione, mettendoci sopra, come va di moda, gamberi, salmone, salame piccante, salsiccia e altre stranezze.
Io e Ninni, quando è la serata della pizza, ingaggiamo, per gioco, una competizione a chi ne mangia di più, mentre Teresa sorride beata per la festa che facciamo alla sua arte culinaria.
Le pizzette sono ottime, ma la cena va avanti in un malinconico silenzio per l’assenza di Ninni.
«Questa non me la doveva fare: partire così, all’improvviso, senza neanche salutare» dico io, masticando svogliatamente.
«Ti telefona appena arrivano.»
«Non gli pago l’affitto per portarvi le ragazze».
«L’amore fa perdere la testa» sospira mia sorella.
«Esattamente, che ti ha detto?» chiedo con la bocca piena.
«Mi ha detto che erano in viaggio per Palermo e che gli dispiaceva di non poter gustare le mie pizze».
«Insomma una fuitina in piena regola» affermo con disappunto.
«Usi parole d’altri tempi» mi contraddice Teresa.
«In che altro modo potrei definire il loro comportamento?» chiedo piccato.
«Fuga romantica», propone lei, «oppure convivenza».
«Prima di sposarsi», disapprovo, «non è una bella cosa».
«Non so se è una bella cosa ma oggi la maggior parte dei giovani fanno così: prima convivono e poi si sposano, se stanno bene insieme».
Continuo a deplorare: «Mi lamento di lei, della ragazza. Non è serio andare subito a letto col proprio boy-friend».
La mia foga moralizzatrice fa inviperire Teresa.
«Ecco finalmente l’hai detto: la colpa è sempre delle femmine».
«Non ho detto questo», ribatto, ma, nel caso specifico, do a lei la colpa. Tutta questa fretta di mettersi assieme non è giustificata».
«Intanto si conoscono e si frequentano da quasi un anno».
«E tu come lo sai?» chiedo stupito.
«Lo so».
«Sempre saputo?» indago.
«Sì!»
La rivelazione mi fa ammutolire; Non riesco a proferire parola come se avessi la lingua secca. La gelosia mi consuma: alla zia sì e al nonno no! Non avrei mai immaginato che mio nipote mi nascondesse qualcosa. Ho sempre creduto di avere un rapporto speciale con il ragazzo, più intimo di quello che ha col suo stesso padre, per questo mi sento tradito e di conseguenza arrabbiato. Mi sono sempre considerato il suo confidente preferito, e scoprire, adesso, che mi ha taciuto di questa ragazza mi fa proprio male, tanto che mi passa l’appetito. Dapprima continuo a mangiare per forza d’inerzia, masticando e rimasticando ogni boccone come fosse chewingum, e poi allontano da me il piatto con ancora mezza pizza.
«Che fai non mangi più?» mi chiede Teresa con la fronte corrucciata.
«Sono sazio» le rispondo brusco e mi alzo da tavola.
«Ce l’hai con me?»
Faccio il sostenuto: «Anche, perché sapevi e non mi hai detto nulla».
«Non ho dato importanza alla cosa…»
Non la faccio finire: mi allontano in gran fretta e mi chiudo nel mio studiolo, sbattendo la porta. M’impongo di concentrarmi sul passato e di mettere tra parentesi il presente.
  
Questa reazione degli accompagnatori lusingò la ragazzina perché di solito l’attenzione dei maschi era rivolta verso le sorelle con le quali dal basso dei suoi undici anni, non poteva competere: esse avevano seni prosperosi mentre i suoi erano dei grossi bottoni non abbastanza visibili  sotto la camiciola.
Quella mattina però si era sistemata sotto la canottiera due fazzolettini appallottolati, e così anche lei faceva la sua bella figura con quelle due sporgenze. Anzi ora che appariva più grande, la bellezza luminosa del suo viso oscurava quella delle sorelle che erano prosperose, ma non avevano la sua carnagione liscia e rosata né lunghi e ondulati capelli biondi, come si addice a chi ha occhi azzurri come il mare.
Anche se a casa sua non si parlava altro che di maschi e dei loro istrionismi per un bacio o per infilare le mani sotto il corpetto – cose alle quali le sue sorelle si sottraevano raramente, perché tutte queste buffonate le divertivano un sacco – lei aveva sempre coltivato il sogno di un amore romantico con un uomo ideale, bello, generoso e rispettoso delle sue virtù.
Quando pensava ai maschi, mai le veniva in mente di avvinghiarsi a loro come facevano le sue sorelle, ma s’immaginava di passeggiare con il suo fidanzato, mano nella mano, mentre lui le bisbigliava misteriose parole che la tenevano allegra. In nome di queste simili fantasie lei aveva già scartato i ragazzi più grandi perché, ogniqualvolta si era accompagnata a loro, non pensavano altro che a toccarla continuamente e a farle proposte di sesso.
Con i suoi coetanei si sentiva più sicura perché il sentimentalismo proprio di quell’età li limitava a farle gli occhi dolci e a colmarla di attenzioni. A lei piaceva particolarmente un compagnetto di scuola, che, ogni volta che la vedeva, arrossiva e rimaneva imbambolato a guardarla.
I suoi sorrisi, che gli illuminavano il viso paffutello e gli occhi verdi cangianti, le dicevano che gli piaceva e perciò aspettava trepidante che le chiedesse di fidanzarsi. Ma l’anno scolastico si avviava al suo epilogo e la desiderata richiesta non veniva, allora era stata lei a prendere l’iniziativa. Proprio qualche settimana prima aveva approfittato del fatto che se ne stava solo soletto nella sua aula per avvicinarlo e chiedergli se la volesse come fidanzata. Lui più imbambolato del solito non le aveva risposto e l’aveva guardata allontanarsi senza dire una parola.
Si sentì molto infelice e pianse a lungo nelle notti seguenti, mordendo il cuscino per non fare sentire i singhiozzi alle sorelle. Infine l’amarezza del diniego la spinse a lasciarsi andare alla compagnia maschile che gravitava attorno alle sorelle più grandi.

Dall’alto del poggio ove era costruita la chiesa vedevo tutto quello che accadeva nella sottostante strada, da dove non potevo sentire le parole, ma le intuivo.
Rita continuò a camminare in testa al gruppo con passo sostenuto, incurante di ciò che accadeva dietro di lei. Aveva fretta di arrivare a casa dove sapeva che la stava aspettando Romeo, l’uomo per il quale il suo cuore palpitava come mai con nessun altro.
Era già lì, in effetti, appoggiato alla parete della modesta abitazione, vicino all’uscio. Il lungo collo, che sosteneva la faccia moresca animata da due occhietti spiritati e in continuo movimento, rendeva slanciato il corpo robusto e asciutto.
Quando lo scorse da lontano, Rita si staccò dal gruppo dei corteggiatori e di corsa lo raggiunse. Abbracciandolo si fece piccola addosso a lui. Egli, con aria di sufficienza, estrasse i pollici che teneva infilati nella cintura e le circondò le spalle con un braccio, da padrone. Con la mano libera bussò alla porta che si aprì subito e, sempre tenendo la ragazza appiccicata a sé, entrò in casa.
Solo dopo che la porta si rinchiuse alle spalle degli amanti, i giovani della compagnia si riscossero dal sortilegio di quella scena che li aveva allocchiti e ammutoliti. 
«Non mi ha mai abbracciato così» farfugliò Giacomino, notevolmente demoralizzato.
«Dove andò a trovarlo a questo stronzo?» chiese il Russo, finalmente solidale con il suo rivale.
«Manco della nostra contrada è » affermò sconcertato l’attore Valentino.
«Però è beddu. Lo dovete ammettere!» esclamò la più piccola delle sorelle, con occhi sognanti.
«Per me ha una faccia d’ogni giorno» giudicò Pietro Mammalucco.
«Tu zittiti, scarparo perso» lo aggredì Caterina.
«Tutti parlano ed io non posso parlare?» Protestò il calzolaio.
«Tu no! Perché sei mammalucco, e non capisci nulla»  affermò ancora più perentoriamente la ragazza.
Intanto l’attore Valentino, ignorando quel battibecco, informava gli altri che l’intruso era originario della Porticella, che forse si chiamava Romeo, e che era ingiuriato lu pazzu.
«È vero pazzo?» chiese Giacomino, sempre più cupo.
«Pazzo da catena! A darti una coltellata non ci sta niente»  rispose il presunto sosia dell’attore cinematografico. «Mi pare che sia stato pure in galera».
L’ultima precisazione inquietò molto i ragazzi che cominciarono a commiserare le due sorelle Ciappeddaru rimaste con loro.
«Che razza di cognato avete.»
«Vi potete rallegrare.»
«A che serve la bellezza se poi è delinquente?»
Tutto questo discredito gettato sul cognato fece imbestialire le due sorelle che reagirono con veemenza.
«Siete menzogneri» strillò Pia.
«E cacasotto» aggiunse Caterina. «Andate a dirgliele in faccia queste cose» li sfidò.  «Ah, non avete il coraggio!»
«E allora gliele riferiamo noi» minacciò Pia con decisione.
«Hai ragione. Andiamo» l’appoggiò subito la sorella.
E assunto un portamento impettito, proprio di chi è offeso, si allontanarono con passo sostenuto. Secondo loro la minaccia di riferire tutto a Romeo avrebbe dovuto spaventare i ragazzi per cui si stupirono nel sentire sghignazzare dietro di loro. Pia non seppe resistere e si voltò indietro: ci restò male nel vedere il Mammalucco che ancheggiava imitando la loro camminata.
Ma la loro sfrontatezza durò poco, perché non appena le due sorelle entrarono a casa, i giovanotti si sparpagliarono in un fuggi fuggi generale.

Rileggo le pagine appena scritte (tante in poco tempo) ma non sono soddisfatto. Colpa del nervosismo che non mi fa concentrare abbastanza. Tutto congiura contro la mia vena di scrittore, mi viene da pensare, e la realizzazione di questo progetto letterario che non è di oggi, ma risale a cinquant’anni fa. Ho sempre desiderato raccontare del mio primo innamoramento, per me fatto eccezionale a causa dell’età in cui era avvenuto e dell’epilogo triste che l’ha caratterizzato, ma non mi è stato mai possibile farlo ovvero ho sempre rimandato: quand’era in vita mia moglie perché mi sembrava come una forma di tradimento andare a rivangare i sentimenti provati per un’altra, e, dopo la sua prematura scomparsa, per gli impegni derivanti dalla crescita e educazione della figliola.
Già, mia figlia, mi dico, dandomi una manata sulla fronte, bisogna avvertirla di quello che ha combinato Ninni!
Torno a uscire dallo sgabuzzino-pensatoio e, come un invasato, mi precipito in cucina.
Trovo mia sorella con un triangolo di pizza che le esce dalla bocca come la lingua di una vipera.
«Che fai, mangi?» le chiedo stupito.
«Mi fa pena buttarla» mi dice con la bocca piena. Adesso mi sembra una mucca che rumina.
«Bisogna avvertire i genitori» biascico e mi avvio verso il telefono fisso, ma mia sorella mi frena.
«Sanno già tutto».
«Chi glielo ha detto?»
«Ninni».
A tutti l’ha detto quel traditore, eccetto me.
«E loro che dicono?»
«Niente. Che devono dire?»
«Ora ci parlo io».
«Prima mangia un altro pezzo di pizza» più che un invito è una preghiera. «Aiutami a finirla».
«Non ho più fame» taglio corto e vado a telefonare.
Appena mia figlia risponde, le parlo in modo concitato: «Ninni se n’è fuito con una sconosciuta… se l’è portata a Palermo… venite dobbiamo parlare… decidere il da farsi…».  
«Ora dobbiamo andare ad aprire il locale» mi dice, appena glielo permetto, senza scomporsi. «Verremo domani mattina».
Anche se il tu-tu-tu del telefono mi significa che ha chiuso, continuo a invocare il suo nome: «Chiara, Chiara…»

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