domenica 27 dicembre 2015



PRIMO AMORE
capitoli 9,10 e 11




Capitolo 9
Sono puntualissimi. Alle undici meno un minuto la grossa suv si ferma davanti casa. Nando rimane in auto col motore acceso e Chiara viene a chiamarci, ma noi siamo già pronti dietro l’uscio, per cui usciamo prima che lei suoni il campanello. L’auto è spaziosa, odora di resina – mi piace tutto di questa macchina, ma a loro non l’ho mai detto, anzi li rimprovero di gettare troppi soldi in mezzo alla strada – e scivola nel traffico, isolandoci da ogni rumore.
Nando prende la Circonvallazione e poi gira a sinistra verso Trapani. Man mano che usciamo dalla città, i moderni condomini si fanno più rari e prevalgono le vecchie umili casette a piano terra di una volta.
Conosco bene quella strada per averla percorsa infinite volte a piedi o in bicicletta per andare a scuola.
Chiesi: «Ma dove andiamo?»
«Ad Amavenera, nella tua contrada» mi risponde Nando.
«È lì che abita la famiglia della ragazza?»
«Vicino alla chiesa» specifica Chiara.
«Come fa di cognome?» chiedo per capire chi fossero quei probabili futuri parenti.
«Azzolin» risponde mia figlia.
«Mai esistito questo cognome ad Amavenera» faccio io.
«Per forza», dice il genero, «proviene dal Veneto».
Non aggiungo più una parola, inteso come sono a scrutare e a riconoscere i luoghi familiari.
La contrada mi dà l’impressione di una triste decadenza: tutti gli edifici sembrano avere bisogno di un immediato ripristino e soprattutto di un restauro nei colori, perché sono sbiaditi e screpolati nell’intonaco.
Se mi avessero dato un pugno nello stomaco, avrei sentito meno male, quando l’auto all’incrocio, dopo aver girato per la salita che porta all’altopiano delle sciare, si inoltra in un vicolo cieco, in fondo al quale abitava una volta Floriana.
Devo essere diventato pallido perché mia sorella mi chiesd: «Ti senti male?»
«No, no», rispondo precipitosamente, «ma questi luoghi mi fanno venire nostalgia. E a te?»
«Per niente. Il passato è passato, e non esiste più» dichiara lei.
Fa la dura Teresa ma le sue narici si aprono a dismisura come in un respiro affannoso e ciò mi fa capire che pure lei è presa dalla nostalgia. Sicuramente pensa a Piero, suo marito, che una malattia aveva portato via dopo quasi vent’anni di matrimonio.
Mio cognato era stato un uomo molto intelligente e sensibile ai problemi del prossimo e quando c’era di aiutare un povero cristo s’impegnava fino allo spasimo. Io, personalmente gli devo molto: il lavoro e soprattutto il sostegno morale quando le cose non andavano come avrei desiderato.
Fu lui a salvarmi dall’infantile abulia nella quale ero sprofondato per la prima delusione d’amore. Al suo intervento propiziativo ho dedicato tutto un capitolo nel romanzo.

Vivevo nell’inerzia: la mattina mi allontanavo da casa con i libri sottobraccio, ma, invece di recarmi a scuola – ormai frequentavo l’avviamento -  mi andavo a rifugiare in una spiaggia deserta. Se il tempo invernale non lo permetteva mi rintanavo in una sala-biliardo piena di sfaccendati, e ne uscivo rispettando l’orario scolastico. Quando tornavo a casa, mangiavo un boccone e mi chiudevo in camera mia, dove, per non essere disturbato, facevo finta di studiare, tenendo un libro aperto davanti a me.
Dopo parecchi mesi di questa vita, mio cognato Piero bussò alla parete del bozzolo che mi isolava.
«Sono di passaggio e perciò vado subito al dunque»  esordì.
Egli era sempre di fretta perché, quando non lavorava, aveva sempre da fare qualcosa per il partito di cui era segretario nella sezione di Amavenera.
«Domani mattina  c’è una riunione dei capi lega di tutte le contrade, e avrei bisogno di qualcuno che aiutasse i Trema-trema a sistemare la sezione. Io non posso farlo perché devo andare alla stazione a prendere l’onorevole Fernandez che viene da Palermo per parlare all’assemblea».
Nel mentre che mi parlava mi scrutava con i suoi occhi vispi e sinceri che si spostavano continuamente da un punto all’altro dei vetri degli occhiali.
«Ti sarei grato se lo facessi tu» concluse.
Gli feci segno di si, e lui si congedò abbracciandomi e baciandomi sulle guance. Un gesto d’affetto che mi scosse nel profondo.
La riunione dei capi lega dei contadini era prevista per le dieci, ma io già alle otto mi trovai sulla soglia del rustico magazzino che ospitava la sezione di Amavenera del Partito Comunista.
I Trema-trema che dormivano in una stanzetta sul retro avevano già aperto il portone e tentavano di fissare, con delle puntine da disegno, un drappo rosso, con falce e martello, dietro il tavolo dei dirigenti, ma non riuscivano a venirne a capo perché Pino non riusciva a tener fermo il vessillo e a Vito sfuggivano continuamente le puntine da disegno, spargendole pericolosamente per terra. La frustrazione dell’insuccesso aveva aggiunto al solito tremolio del loro corpo dei movimenti scomposti delle braccia e del capo.
Mi precipitai in loro soccorso incurante dei chiodini dalla testa larga che penetravano nelle suole delle mie scarpe e tolsi dalle loro mani il drappo e la scatoletta con le puntine metalliche.
 «Lo faccio io» li tranquillizzai. «Rilassatevi!»
Li costrinsi a sedersi e poi sistemai il simbolo del partito nel punto della parete da loro indicatomi.
I due fratelli, chiamati Trema-trema per una malattia che faceva tremolare continuamente i loro corpi, cominciarono a ringraziarmi come se fossi stato inviato in loro soccorso da un santo del paradiso. Per cui quando spiegai loro che ero stato mandato da Piero per dare una mano rimasero delusi.
Però approfittarono della mia disponibilità.
«Ci vorrebbe una spazzata…le sedie che sono nel ripostiglio vanno messe in fila davanti al tavolo…dietro le sedie poi troverai alcune bandiere che vanno piantate fuori ai lati della porta… »
Eseguii tutti i loro ordini senza lamentarmi e alla fine mi sedetti anch’io, aspettando che i compagni della Federterra arrivassero.
«Ah, come mi piacerebbe avere la tua età!» sospirò Pino.
«Tutti vogliamo essere sempre più giovani» considerai io saggiamente.
«Non rimpiango tanto la gioventù quanto la salute. Alla tua età ero sano come un pesce».
«Tutta colpa del bombardamento» intervenne Vito.
«Ci è caduto un palo di legno  sul collo e tutti i nostri nervi si sono allentati» spiegò Pino.
Parlavano così i fratelli Trema-trema, passandosi continuamente la parola come per avere, a turno, una pausa di riposo.
«Ma chi ve lo ha detto che tremate per questo motivo e non per un virus?» chiesi io poco convinto.
«Lo diciamo noi…»  affermò Vito.
«…perché abbiamo cominciato a tremare dopo che ci cadde la casa addosso» precisò Pino.
«Però, restare a casa mentre è in corso un bombardamento aereo-navale è stata una strafottenza» li rimproverai. «Ve la siete proprio cercata!»
«Nostro padre era convinto che in campagna si fosse al sicuro» spiegò Pino.
«E invece è mancato poco che ci colpissero in pieno» aggiunse Vito.
«In un colpo solo abbiamo perso tutto…» considerò Pino.
«…genitori, salute e casa» specificò Vito
«Si può essere più sfortunati di così?»
Non ebbi bisogno di rispondere all’amara domanda di Pino perché cominciarono ad arrivare le delegazioni dei contadini delle varie contrade per partecipare all’assemblea. Ma una considerazione tra di me la feci: le mie pene d’amore erano bazzecole rispetto alle loro vicissitudini.

In breve tempo la sala si riempì  e molta gente rimase accalcata sulla soglia del portone. Se non si soffocava dal caldo, data la giornata estiva, era perché il tetto di tegole con i suoi spifferi assicurava una perfetta aereazione.
I lavoratori della terra accorsero così in massa per la popolarità dell’onorevole Girolamo Fernandez che doveva parlare loro, ma soprattutto perché per migliorare la loro misera esistenza erano pronti a pregare qualunque santo. Quando arrivò la Topolino con i tre segretari – zonale, comunale e regionale – e ne scese l’Onorevole, tutti quelli che erano fuori gli si accalcarono attorno per stringergli la mano e per poco non lo travolsero. Piero e il segretario comunale, Ignazio Pelli,  ebbero il loro daffare per aprirgli un varco fino al tavolo della dirigenza. 
Lo schiamazzo durò anche dopo che i tre raggiunsero la loro postazione, però adesso era di tono diverso: non più festoso e di benvenuto ma rabbioso e di protesta. Ognuno urlava i motivi del proprio scontento, insultando le istituzioni e i loro rappresentanti ad ogni livello. Era un coro di doglianze che veniva dalle viscere: spontaneo e naturale come il respirare.
I tre segretari rimasero in piedi, sperando che questo loro stato d’attesa riportasse la calma. Piero nel tentativo di sovrastare il frastuono della sala alzò tanto la voce che divenne paonazzo: le guance arrossate, i riccioli castani scomposti, il pugno destro alzato lo rendevano simile all’arcangelo Michele che brandisce la spada. Anche il segretario comunale si diede da fare per portare la calma, ma, sapendo di avere una voce bassa, piuttosto che parlare batteva i pugni sul tavolo per chiedere silenzio, aumentando di fatto il rumore assordante. L’unico a mantenere un contegno serafico fu il compagno Girolamo; egli si puntellò con le mani sul ripiano del tavolo e, mantenendo un’espressione seria e attenta come se udisse veramente le parole di ciascun vociante, li lasciò sfogare per un poco, poi si sedette come colui che avesse capito ogni cosa, estrasse una penna Bic dal taschino e si mise a scrivere qualcosa con la massima concentrazione. Per incanto tutti quelli che erano nella sala tacquero pensando che l’onorevole stesse lavorando per loro e quindi non andava disturbato. Solo quelli di fuori continuarono a vociare, ma furono zittiti da quelli che stavano sulla soglia della sezione.
Piero, che era rimasto in piedi, prese la parola per primo, presentando l’onorevole – «…che tutti voi conoscete e che è qui per dare più forza alla nostra voce di protesta… » – e descrivendo in tinte fosche le disperate condizioni di vita dei braccianti agricoli e dei piccoli proprietari.
Mentre gli applausi fioccavano si sedette e si alzò l’onorevole.
Il compagno Girolamo era un oratore esperto e prima che con la parola si espresse con una serie di gesti teatrali: si sbottonò la giacca e, come chi si accinge a una lotta, si tolse gli occhiali di tartaruga e li roteò in alto sopra la testa per poi gettarli, con gesto sdegnato, sul tavolo.
«Compagni!» chiamò, e tutti gli occhi si puntarono attenti su di lui.
«La rabbia che prima avete manifestato è la mia rabbia….[applausi contenuti]…I contadini, fondamento di tutto il sistema economico e sociale sono i peggio trattati da questo governo… [applausi e fischi]…Come si risponde alla sacrosanta richiesta di pane e lavoro?... [Drammatica sospensione accompagnata da un silenzio di tomba] con tasse, tasse e sempre tasse inique come quella sulla circolazione dei carri agricoli e sul bestiame da lavoro…[mormorio di disapprovazione] da oggi non le pagheremo più…[grida di consenso] disobbedienza civile…[applausi scroscianti]
La misura è colma…[grida di consenso] no alla disoccupazione agricola per lunghi mesi dell’anno…[coro: “Lavoro, lavoro”] no ai bassi salari…[coro: “Pane, pane”] no all’aumento dei prezzi…[fischi e urla]
Ai signori grandi proprietari intimiamo di firmare il contratto stagionale della conza primaverile, prima che l’incendio che si accende in questa assemblea non divampi…[fischi e urla] a diventare un rogo distruttore…[coro: “La terra a chi la lavora”]»
Questa volta fu più difficile riportare la calma perché gli animi erano stati sovraeccitati dalle parole dell’onorevole deputato nazionale.
Il segretario comunale dovette sbracciarsi a lungo prima di fare sentire la sua voce.
« Lo sciopero indetto per il 28 marzo è confermato. Vi riunirete nella sezione della vostra contrada e da lì muoverete con ogni mezzo – carri, biciclette, muli –  verso la città. L’appuntamento è per mezzogiorno a piazza Loggia. Partecipate numerosi, vi raccomando; mai, come in questo sciopero, il numero è sostanza».
Prima che il locale si svuotasse del tutto passò più di un’ora, perché tutti i delegati, coppola in mano,  vollero stringere la mano  all’onorevole e poi vari gruppi si attardarono in conciliaboli per commentare ciò che avevano udito e prendere accordi per la giornata dello sciopero.
Quando si trattò di riaccompagnare al treno l’onorevole, Piero volle che andassi con loro. Così mi stipai anche io nella Topolino del segretario comunale e partimmo per Marsala. Però non andammo subito alla stazione, prima ci fermammo in una trattoria vicino al porto dove si mangiava esclusivamente a base di pesce.
Ci servirono pasta con uova di ricci e cernia, delle squisitezze che mangiavo per la prima volta nella mia vita, così come per la prima volta bevvi quella bibita scura, caramellata e frizzante chiamata Coca Cola. Me la ordinò di sua iniziativa l’onorevole sentendomi dire che ero astemio.
«Non permetto il sacrilegio che si beva acqua con il pesce».
Appena la gustai mi piacque tanto che mi ripetei a mente più volte il nome ripromettendomi di richiederla in una futura occasione.
Il conto lo pagò l’onorevole; lo disse più volte, con  insistenza che avrebbe voluto offrire lui, anche se nessuno dei presenti aveva palesato la minima intenzione di volerlo fare.

La coda del treno, che si portava via l’illustre compagno, non era ancora sparita in lontananza, quando il segretario comunale cominciò ad andare avanti e indietro sul marciapiede, pizzicandosi nervosamente i baffi o tirando fuori la cipolla che teneva nel taschino per osservare con preoccupazione il movimento delle lancette.
«Ohè Pino» fece mio cognato, vedendolo così preoccupato, «che ti succede?»
Dal sospiro di sollievo che fece, si capì che aspettava questa domanda per tirare fuori il rospo.
«Non sapevo come dirvelo…ma non vi posso accompagnare ad Amavenera…mi sono improvvisamente ricordato di un impegno e sono già in ritardo».
«Hai il coraggio di farcene tornare a piedi?» lo sfidò mio cognato.
«Se non ve la sentite, mi aspettate qua e quando mi libero vi accompagno »  propose il segretario comunale cercando di fare trasparire dalla voce tutto il suo dispiacere.
«Ma va là!» lo liquidò mio cognato, e prendendomi a braccetto ci allontanammo senza neanche salutarlo.

Noi di Amavenera, quando dovevamo ricoprire a piedi la distanza con la città, prendevamo sempre attraverso le sciare per accorciare la strada, tanto che negli anni avevamo inciso nelle rocce un viottolo che tutti chiamavamo l’accurzata. «Mi feci l’accurzata» dicevano gli amavenerini per dire che erano andati o tornati dalla città a piedi
«Mi dispiace farti fare questa scarpinata»  si scusò Piero.
«Non importa» lo rassicurai. «È stata una bella giornata, piena e interessante».
« Ti nomino  responsabile del settore giovanile» mi comunicò all’improvviso.
«Come? Così? Su due piedi?»
« È deciso e confermato».
Quando mio cognato diceva così significava che si era incornato e nessuno glielo poteva levare dalla testa. Tuttavia tentai ancora una debole protesta.
«Ma non so cosa fare».
«Chiedi ai Trema-trema».
«Ai Trema trema?! »
«Ricordati che loro ci dormono da anni in sezione. Sanno assolutamente tutto».
Non trovai altri motivi per negarmi, anche perché in fondo alla caverna della mia coscienza l’amor proprio si beava della fiducia che veniva riposta in me.
«Cerca di starmi vicino in questo periodo »  aggiunse Piero dopo un lungo silenzio che servì a suggellare quanto stabilito prima, « perché quando andrò in viaggio di nozze ti toccherà sostituirmi».
«Questo proprio non è possibile» mi schermii io.
«E perché?»
«Troppo difficile per me».
«Chiedi ai…»
«…Trema-trema» conclusi io, togliendogli le parole dalla bocca.
«Deciso e…»
«…confermato».
Le nostre risate scalfirono appena il silenzio dello spazio aperto e desolato che stavamo attraversando.

 Anche perché volevo fare bella figura mi impegnai molto nello svolgere il compito politico che mi era stato assegnato da Piero. Cenavo anzitempo e andavo al partito per restarci fino a sera tardi, soprattutto il martedì, quando si riuniva il Direttivo. Composto da persone anziane che avevano tempo da perdere non si finiva più di organizzare ipotetiche marce di protesta – «I giovani disoccupati dovrebbero marciare su Roma...» –  e rivoluzioni – «…la terra a chi la lavora… il potere agli operai…».
La serata più impegnativa era quella del sabato, perché, essendo l’indomani giornata di riposo, erano più numerosi i compagni che venivano alla sede del partito. Molti di loro chiedevano a me, che ero istruito, di controllare il conteggio, fatto dal padrone, della paga settimanale. Ma soprattutto si raccontavano vicendevolmente le angherie ricevute dal datore di lavoro nel corso della settimana
«Stiamo facendo la conza nella vigna del Commendatore. Incominciamo a zappare che c’è ancora buio e col buio della sera dobbiamo finire. Però ancora non ce ne possiamo andare a casa, perché lui, il Commendatore, prima deve controllare il lavoro fatto, filare per filare, alla luce di una lanterna… accussì ci ritiriamo che è mezzanotte».
 «Pure il notaio Pizzutello aveva questo vizio: quando i braccianti dovevano tornare a casa si presentava per il controllo. Lo sapete come si levò quest’abitudine? Una volta uno, approfittando del buio, gli tirò una pietra sulle grasse natiche mentre era a culo a ponte per controllare uno zucco. Lui si incazzò molto e non potendo individuare il colpevole licenziò tutta la squadra di braccianti. Ma l’indomani sera con la nuova squadra accadde lo stesso… e così si dovette rassegnare a non fare più questi controlli notturni».
«Chistu niente è» interveniva un altro e raccontava che il cavaliere Amodeo mentre loro lavoravano li controllava stando a cavallo e se uno di loro si fermava per bere o accendersi la sigaretta ne prendeva nota e poi al momento della paga toglieva mezza lira per ogni minuto perso.
Fu il contatto con questa gente misera, sofferente e fragile che generò in me una profonda metamorfosi: l’eros che prima era rivolto esclusivamente ad una sola persona si spinse ad abbracciare tutti gli umili del mondo.
Tutto preso da questi impegni non ebbi tempo di piangermi addosso per il mio amore infelice. Smisi di sognare ad occhi aperti e ritornai a vivere la realtà, persino ripresi gli studi che avevo tanto trascurato.
Ogni tanto la malinconia dell’amore perduto si faceva sentire ma restava sempre una musica di sottofondo che non riusciva a prendere campo nel mio spirito, se non nei momenti di solitudine e di sconforto.
Ero un adolescente e come tale avrei voluto rivoltare il mondo come un calzino: una rivoluzione globale in nome della giustizia e dell’equità.
Continuamente mi chiedevo cosa potessi fare personalmente e come risposta mi vedevo capopopolo, francescano, giudice fustigatore dei malvagi… Alla fine scelsi di  lavorare nel sindacato (la CGIL, naturalmente): cominciai come impiegato e andai in pensione come segretario provinciale (avevo preso il posto di Piero in seguito al suo decesso).





Capitolo 10
Quando è palese che siamo diretti alla casa che fu dei Coppola, all’idea di doverla vedere invasa da estranei mi prende come un attacco di panico e  comincio a cercare la leva di apertura della portiera con l’intenzione di tornare indietro.
Appena sfioro la maniglia, Nando allarmato mi dice,: «Che fai suocero?»
Mi sento colto in flagrante, come in un tentativo di evasione.
«Volevo abbassare il finestrino» mi giustifico.
«Quella leva apre la portiera; il finestrino è elettrico» mi spiega. «Ma ormai siamo arrivati».
Il suv si ferma e una giovane donna si materializza sul porticato di casa. «Attenzione a dove mettete i piedi» ci dice, sorridendo.
Lo spiazzo antistante all’abitazione è occupato da mucchi di vario materiale –  calcinacci, pietrisco, sabbia – segno evidente che si stanno eseguendo dei lavori, anche se non si vede, in quel momento, alcun operaio.
La vista di quella donna sconosciuta in quella casa non mi fa alcun effetto e la cosa mi tranquillizza. Penso senza alcun patema che Mario e sua moglie siano morti e che le figlie l’abbiano venduta per comprarsi un tetto tra le brume della pianura padana.
Entriamo in fila indiana passando davanti alla padrona di casa che ci saluta con una stretta  di mano mentre ripete: «Benvenuti, sono Grazia, la mamma di Barbara».
Se non fosse che noi entriamo invece di uscire, mi verrebbe di pensare a Polifemo che controlla le sue pecore per non fare scappare gli itacesi.
Dentro c’è un intenso odore di calce: i pavimenti sono stati riammattonati e le pareti imbiancate. Nella stanza, dove ci fa entrare, ci sono un tavolo e alcune sedie attorno ad esso e nient’altro. «Siamo come accampati» si giustifica di quello squallore l’ospite. «I mobili devono arrivare». Poi aggiunge «Dentro i lavori sono terminati. Dobbiamo ancora fare il prospetto».
Non capisco bene quello che dice, perché la stanza semivuota rimbomba. L’importante, per me, è che non si vede nessun altro in giro, ormai mi sento a mio agio e mi torna persino la spiritosaggine.
«Si potessero rinnovare le persone come si fa con le case!» dico sospirando.
«Si arriverà anche a questo» afferma la donna.
E Nando aggiunge: «Già si fa per tante cose: denti, reni, seni, labbra… e persino il cuore».
Intanto ci siamo seduti tutti quanti intorno al tavolo come se dovessimo pranzare, e mia figlia apre subito l’argomento per il quale siamo venuti. «Come facciamo con questi ragazzi?» chiede, utilizzando un interrogativo retorico.
«Mia figlia, Barbara, è più posata di quanto lascia supporre la sua età» le risponde la padrona di casa. «Perciò se ha preso questa decisione, l’ha fatto con consapevolezza».
«Però non bastano due cuori e una capanna» interviene Nando, e mi sorprende, perché quando si trattò di lui erano bastevoli.
«Io sono pronta a fare la mia parte…» comincia col dire Grazia, ma si interrompe perché qualcuno sta armeggiando con la maniglia della porta interna.
«È mia madre con il caffè» poi spiega.


Capitolo 11
Se non fosse per quel sorriso, che la illumina, non l’avrei riconosciuta sia perché, com’è nelle cose, è molto cambiata, sia perché, in fondo, quello è il solo ricordo chiaro che conservavo di lei bambina.  Era, quello di Floriana, un sorriso aperto, gioioso, accogliente: specchio del suo animo.
Sicuramente fu esso a farmi innamorare più di cinquant’anni fa. Adesso, però, riesco a tenere sotto controllo le mie emozioni: niente ronzio nelle orecchie, niente lingua impastata… solo un aumento del ritmo cardiaco.
Per poggiare il vassoio con il servizio da caffè si mette alla mia destra, dove c’è un po’ di spazio, tra le sedie. Emana un gradevole odore di lavanda che inspiro con voluttà mentre la osservo: il castano dei capelli tende al grigio e due ventagli di rughe compaiono agli angoli degli occhi, però la fronte spaziosa è liscia e anche le gote e il collo. Ne traggo la conclusione che si è mantenuta più giovane di me.
 Mentre serve il caffè noto che i suoi movimenti sono agili e sicuri e quando, poi, va a sedersi costato che non cammina trascinando i piedi come faccio io.
Mia figlia e Grazia, la mamma di Barbara, riprendono il discorso interrotto sui due ragazzi, ma io non sto attento, tutto preso a capire me stesso di fronte a colei che fu il mio primo amore.
A parlare sono solo le due mamme che, perfettamente in sintonia, stabiliscono, in quattro e quattr’otto, ogni cosa: le due famiglie passeranno un sussidio ai giovani amanti, mentre io continuerò a pagare l’affitto, e tutto questo finché non si saranno laureati e avranno un lavoro.
Al momento del commiato, quando siamo tutti in piedi, Grazia dice alla madre: «Il signor Saverio Palazzolo è originario di Amavenera».
Lei mi guarda, mi scruta, ma a quanto pare non le dico nulla, perché fa: «Ah, sì?»
Incredulo e un po’ arrabbiato che il mio nome e il mio viso non le dicano nulla, aggiungo: «E frequentavo la tua stessa scuola».
«Davvero!?»
«Certo».
«Siamo stati compagni?» mi chiede.
«D’Istituto» specifico.
«Non ricordo» afferma, dispiaciuta.
«È possibile?» insisto con poco tatto.
Lei, per cortesia, torna a scrutarmi.
«No, mi dispiace».
«Abbiamo pure recitato insieme la natività» dico io, sperando che questo particolare possa risvegliare la sua memoria.
«Non ricordo» conferma, dopo aver riflettuto un poco.
Avrei continuato a importunarla per quel vuoto di memoria, ma vengo, opportunamente, bloccato dall’intervento di Teresa.
«È passato tanto tempo!» esclama mia sorella. « Adesso andiamo che si è fatto tardi».


Nessun commento:

Posta un commento