Alberto Di Girolamo
PRIMO AMORE
capitoli 4; 5; 6
Capitolo 4
Chiara è il nome della mia unica figlia. Dicono che
sia una donna molto attraente; io, da padre non so giudicare. Il suo viso
paffutello mi sembra comune, anche se animato da due fossette che, apparendo e
scomparendo in un gioco continuo, magnetizzano l’attenzione di chi le sta di
fronte. Secondo me sono gli occhi, grandi e scuri, a darle un fascino
misterioso: sembrano persi lontano, a esplorare spazi visibili soltanto a loro.
Ma io so che quest’aria sognante è ingannevole, perché Chiara è sempre vigile e
pronta a cogliere ogni sfumatura della realtà che la circonda; più volte è
riuscita a sorprendermi con puntualizzazioni inaspettate.
Peccato che sia molto testarda. Quando si mette in
testa qualcosa, è impossibile farle cambiare idea: così è stato quando si è
innamorata di Nando. Egli fa il barman e mia figlia l’ha conosciuto dietro un
bancone di un pub mentre preparava un “Negroni sbagliato”. Ella – come ebbe a
raccontarmi una volta – rimase incantata dalle movenze eleganti con le quali
agitava lo shaker. Dopo averlo osservato
per un poco, capì che non si muoveva in sintonia con la musica di sottofondo
che c’era nel locale e le venne una grande curiosità di sapere a quale ritmo
ancheggiasse. Così si avvicinò al bancone per accertarsi se il giovanotto avesse
un auricolare attraverso il quale gli arrivava qualche brano musicale.
Naturalmente non l’aveva, ma il giovane notò la ragazza che lo osservava con
tanta attenzione e sorridendo si piegò sul bancone invitandola ad avvicinare
l’orecchio allo shaker in movimento. Chiara non se lo fece ripetere due volte:
si protese in punta di piedi in modo da raggiungerlo con il capo sopra il
bancone e Nando le avvicinò il bicchiere metallico all’orecchio. Mia figlia
percepì subito il ritmo del “chacha” che da esso si sprigionava, e automaticamente
accennò a quel passo di danza mentre il giovanotto sorrideva felice per la
misteriosa intesa che si era creata tra loro. Era nato così il primo grande
amore di Chiara.
Me lo portò a casa senza preavviso, una domenica, nell’ora
di pranzo. Fino allora la mattinata era trascorsa secondo abitudini
consolidate: alle otto, io e mia sorella eravamo andati a messa, poi avevamo
fatto una passeggiata al corso, soffermandoci a chiacchierare con degli amici,
e alle dieci eravamo di ritorno carichi di giornali e di riviste che avremmo
letto durante il lungo pomeriggio. Quando eravamo usciti, Chiara dormiva ancora,
ma al ritorno, non c’era: sicuramente, come tutte le domeniche, a quell’ora si
trovava al parco a fare footing secondo quella moda che impazza negli USA e che
sta attecchendo pure da noi. Prima che Chiara fosse tornata e si fosse fatta la
doccia, Teresa avrebbe avuto tutto il tempo per preparare il risotto con gli
asparagi e le scaloppine al marsala.
Al massimo alle tredici ci saremmo ritrovati a tavola.
Ma quella domenica gli orari non furono rispettati. Teresa
continuava a mescolare il riso ormai stracotto e Chiara ancora non arrivava,
tanto che io, dopo essermi scontrato con un’irriducibile segreteria telefonica,
lanciai la proposta di metterci a tavola, senza ulteriori indugi, per non fare
andare in malora il primo piatto.
Teresa, forse perché stanca di girare la paletta di
legno nella pentola, approvò la mia proposta.
«Ma sì, pertanto a momenti arriva» disse.
Andò quasi come lei aveva previsto. Appena affondato
il cucchiaio nell’amalgama cremosa risuonarono per tutta la casa le due note
festanti del campanello posto all’ingresso.
Io e Teresa ci guardammo stupiti.
«Chi può essere?»
Nessuno dei due pensò a Chiara perché, avendo la
chiave, non aveva bisogno di suonare per entrare.
«Vado io» dissi innervosito da tutte quelle
contrarietà che stavano mandando all’aria il mio pranzo. Forse perché mi vide
agitato, Teresa decise di seguirmi.
Appena aprii la porta, mi trovai davanti Chiara. Non
era in tuta e tanto meno sudata come chi torna da una lunga corsa, ma era
fresca come una rosa rivestita di rugiada setosa.
Calamitato dal suo sorriso radioso, neanche notai la
persona che le stava dietro, per cui ebbi un soprassalto quando lei fece un
passo laterale per presentarmelo.
«Questo è Nando» disse. E il giovanotto mi tese la
mano, ma io non mi mossi e lo guardai incupito.
A salvare l’imbarazzante situazione provvide Teresa,
che fece un passo avanti e afferrò la mano pelosa dell’intruso. E, per
compensare la mia scortese freddezza, volle esagerare nei convenevoli: «Siamo
lieti di conoscerla. S’accomodi, prego».
«Non vorrei disturbare».
«Ma quando mai».
«L’ho invitato a pranzo» precisò Chiara.
Questa volta Teresa accusò il colpo: «Se l’avessi
saputo prima, avrei apparecchiato in sala da pranzo».
«Non ci formalizziamo» fece mia figlia.
«E il risotto non sarebbe diventato colla» m’intromisi
acido.
«Forse è meglio rimandare…» borbottò il giovane.
Ma quell’accenno di discrezione fu cancellato da
Chiara: «Non se ne parla nemmeno. Va bene quello che c’è. L’importante è stare
insieme».
Naturalmente il riso andò a finire nella pattumiera e
le scaloppine al marsala furono consumate in un’atmosfera surreale di ostilità.
Almeno questo fu il sentimento con il quale io rimasi a tavola. Volevo fare
pesare all’ospite tutta la mia contrarietà, ma, siccome sono di cuore tenero,
alla fine del pranzo, quando fummo alla torta, cominciai ad avere dei rimorsi
per la mia manifesta inospitalità e accennai a qualche sorrisino, e pure feci
sentire la mia voce complimentandomi con Teresa per la squisitezza del dolce. Quando
invitai il playboy a seguirmi in salotto, per bere un ammazzacaffè, ero sciolto
come una palla di neve al sole.
Appena aprii il mobile-bar dove tenevo liquori di ogni
tipo, il giovanotto divenne baldanzoso, tanto che con tono militare m’intimò: «Adesso
si sieda e lasci fare a me. Questo è il mio campo».
Mentre trafficava con le bottiglie, gli venne uno
scilinguagnolo irrefrenabile e non si tacque finché non mi ebbe raccontato tutta
la sua vita, dai primi vagiti al momento presente. Così seppi che faceva il
barman in un pub del quale era socio e che la sua massima aspirazione era di
acquisire tutte le quote in modo da divenire l’unico proprietario.
Lui parlava ed io facevo sangue marcio, perché,
modestamente, mia figlia poteva aspirare a un marito che stesse più in alto
nella scala sociale. Del suo progetto di vita non mi piaceva proprio nulla,
invece mi deliziò il drink che mi aveva preparato: Martini Rosso, Bitter
Campari, Soda Water e una scorza di limone come decorazione.
«È buono?» mi chiese emozionato.
«Ottimo!» feci io che non ho mai saputo mentire.
«Si chiama “Americano”» mi spiegò lui.
Guardavo il giovanotto che mi sorrideva accattivante,
sorseggiavo il beveraggio e pensavo che sarebbe stata una dura battaglia
cercare di convincere mia figlia a trovarsi un altro compagno, anzi sarebbe
stata una battaglia persa in partenza, perché, quando s’innamora, una donna ci
mette l’anima, ed è pronta a tutte le sfide e a ogni sacrificio pur di vivere quel
sentimento nella sua pienezza.
E difatti a nulla valsero le mie prediche quotidiane,
le mie arrabbiature, le minacce, le promesse… un anno dopo quel pranzo
rabberciato accompagnai mia figlia
all’altare.
Oltre a sobbarcarmi le spese dello sposalizio, prestai
(a fondo perduto) la somma di denaro necessaria a prelevare l’intera proprietà
del pub – un genero barman unico proprietario è più apprezzabile socialmente di
un genero barman in società – e, siccome mia figlia era già incinta, li ospitai
pure sotto il mio tetto. Dovevano restare fino al parto e andò a finire che vi
stettero cinque anni.
Così Ninni, oltre a nascere a casa mia, vi crebbe. E
vi si trovò così bene che vi rimase, anche dopo che i suoi genitori si
comprarono un appartamento a fianco del locale che gestivano. Di questa sua
decisione fummo tutti felici: io e Teresa perché eravamo molto affezionati al
bambino; Chiara e Nando perché potevano, sapendo che il loro figliolo era in
buona compagnia, svolgere il loro mestiere con più tranquillità.
Capitolo 5
Dopo tutti questi anni, devo riconoscere che Nando è
un grande lavoratore, sempre dietro a quel bancone a shakerare di continuo, col
sorriso sulle labbra e una parola
complimentosa per tutti i clienti. Da questo punto di vista anche Chiara mi ha
sorpreso positivamente: di solito sta alla cassa, ma non disdegna di servire ai
tavoli, quando c’è ressa. Questo fatto fa imbestialire Teresa. «Laurea persa»
dice. «Tanti sacrifici per niente».
Da parte mia continuo a non capacitarmi di come quest’amore
di Chiara sia approdato al matrimonio: di solito il primo amore, anche se non
si scorda mai, non arriva ai confetti.
Naturalmente ci sono le eccezioni, come l’amore tra
mia sorella e l’occhialuto giovanotto che, ogni domenica, alla fine della messa
si faceva trovare a cavalcioni del muretto che separava la piazzuola dal
fossato fiancheggiante la chiesa.
Teresa non lo sa, ma la sua storia d’amore l’ho fatta
entrare nel romanzo che so scrivendo.
Quando Floriana e le sue sorelle scomparivano dalla mia vista, cominciai a
smaniare per tornare a casa, senza alcuna comprensione verso mia sorella che
avrebbe messo radici in quella piazza.
«È da un’ora che vi guardate. Non sei stanca? È meglio che ce ne andiamo» le
dissi per l’ennesima volta, tirandola per la mano.
Lei mi scosse nervosamente il braccio per la contrarietà, ma si arrese e
cominciò a indietreggiare senza perdere di vista il suo innamorato.
«Tu sei picciriddu e queste cose non le capisci» commentò.
Parlava così per farsi una ragione di quel distacco e perché ignorava che anch’io
mi struggevo segretamente d’amore.
Facemmo la strada di casa, io e mia sorella, in assoluto silenzio, assorti
entrambi nella propria storia d’amore. Solo che io ero in una situazione priva
di speranze, avendo determinato la rottura della relazione prima che fosse
cominciata, mentre lei era corrisposta e non aveva necessità di tenere nascosto
il suo sentimento a causa dell’età.
Veramente un problemino l’aveva pure lei: mentre mia madre le aveva dato
il suo consenso, stimando l’innamorato ragazzo serio e lavoratore, mio padre si
opponeva a quel fidanzamento, perché il giovanotto era dichiaratamente
comunista.
Per questa divergenza di giudizio tra marito e moglie, a casa mia c’erano
continue discussioni.
«Con tanti scecchi che ci sono alla fiera», ripeteva mio padre come un
mantra, «proprio un comunista si deve pigliare?»
Al che, mia madre, ogni volta, e cioè mille volte al giorno, ribatteva,
facendo una elencazione: «Ha il terzo avviamento, ha il posto, è di buona
famiglia, porta terreno…» e concludeva: «Meglio di così si muore!»
Mio padre era un tipo sanguigno e subito s’inalberava.
«Quando parli così mi fai venire i nervi» cominciava.
Siccome lo diceva sempre, ogni volta che si arrabbiava, io, alla prima avvisaglia,
mi mettevo all’erta per vedere da dove diavolo venissero questi nervi, ma mai
una volta li vidi arrivare.
Comunque, l’evento dei nervi non preoccupava per niente mia madre che non
si peritava di mettere altra legna nella discussione che stava per divampare.
«I tuoi nervi non fanno scantare nessuno».
«Stavolta non ti faccio comandare» sibilava mio padre, soffiando aria dal
naso come un toro infuriato. «La mia dignità di fascista non la svendo».
«Ma che fascista e fascista…» lo canzonava mia madre, riprendendo a
svolgere qualche lavoro domestico, per fargli vedere che non gli dava
importanza.
«Sono stato un fascista della prima ora, e ho ricoperto pure l’importante carica
di fiduciario del fascio» le urlava dietro, a muso duro, mio padre.
Poi si rivolgeva verso di me, per rendermi depositario di questa grande
verità: «Ad Amavenera comandavo io. Chi voleva lavorare nei campi doveva venire
da me. Ero io ad assegnare i braccianti ai proprietari che ne avevano fatto
richiesta».
Gli dovevo apparire alquanto imbambolato perché ogni tanto s’interrompeva
per chiedermi se avessi capito e, al mio cenno affermativo, riprendeva la
tiritera.
«La domenica aprivo l’ufficio che era dove oggi c’è la cameretta di Teresa,
mi sedevo dietro un grande tavolo nero, dono del partito, e ricevevo
proprietari e braccianti. Gli uni mi dicevano “mi occorrono due potatori per la
vigna che possiedo alla Biddusa.” Oppure “Devo fare la conza nella proprietà di
Mamuna.” Gli altri mi dicevano “Sono senza lavoro. Solo Vossia mi può aiutare.”
Allora io, in base chi era, lo assegnavo alla Biddusa o ai Mamuna o in un altro
posto dove c’era bisogno di braccia. Chiedimi cosa ci ricavavo».
«Eh?»
«Scimunito, chiedimi cosa ci guadagnavo».
«Cosa ci guadagnavi?»
«Era un incarico onorifico. Lo facevo perché ero fascista. Però nessuno si
presentava a mani vuote. Attenzione, niente soldi – anche perché non ne aveva
nessuno – ma prodotti della terra, quelli sì. Chi non aveva nulla da regalarmi,
si presentava minimo con un fascio d’erba per la capretta. Allora avevamo la
capretta! Qualcuno più volenteroso mi faceva qualche giornata gratis al podere».
«Vi andava bene» commentavo io, contento di essere apprezzato da tutte
queste confidenze da parte di un adulto.
«Tua madre scialava!» confermava lui dandosi importanza. «Le feci fari per
vent’anni la grande signora. Mi è grata per tutto ciò? No! E per giunta vorrebbe
fare entrare in questa casa i comunisti che sono l’opposto dei fascisti».
«Mi vuoi fare parlare per forza?» chiedeva minacciosamente mia madre,
tentando di interrompere quel monologo, ma mio padre non se ne dava per inteso
e solo dopo che aveva finito il suo discorso la degnava di una risposta.
«Parla, parla» la sfidava.
«Poi che fai? Ti arrabbi più assai?»
«Non mi arrabbio» prometteva lui. «Sentiamo cosa hai da dire».
«Parola?» chiedeva ancora mia madre che non si fidava.
«Parola».
«Parola di fascista?» insisteva perché lo conosceva bene.
«Parola di fascista».
Dopo essersi cautelata in questo modo, mia madre raccontava che all’arrivo
degli Americani ad Amavenera, nel luglio del ’43, mio padre, temendo che lo
venissero ad arrestare, fece sparire ogni traccia del suo trascorso politico,
bruciando i mobili neri dell’ufficio e tutte le carte del suo operato.
«Che c’entra questo col nostro discorso?» chiedeva con insistenza mio padre,
cercando di interrompere quel racconto nel quale non ci faceva proprio una
bella figura. Era arrabbiatissimo ma non gridava, perché aveva dato la sua
parola.
Mia madre, ricambiando il suo modo di fare, perfidamente continuava il suo discorso
e solo alla fine gli rispondeva.
«C’entra, c’entra, perché significa che il fascismo non era in fondo tanto
importante per te».
«Tutti si erano arresi. Dovevo combattere solo io?», si giustificava lui, «Dovevo
farmi ammazzare come il colonnello che comandava il fortino di via Salemi che,
lui solo, continuò a sparare contro le colonne americane che venivano da
Palermo e quelli lo bombardarono fino a ridurre in polvere il bunker? Che concluse,
oltre a farsi ammazzare insieme ai suoi uomini?
E poi, alla famiglia non ci dovevo pensare?»
Sicuramente mia madre, in cuor suo, condivideva quelle giustificazioni e
perciò addolciva il tono della voce.
«Volevo solo farti capire che per te il fascismo è stato solo un’opportunità,
e perciò non è il caso di fare il difficile perché tuo genero è comunista».
Ma mio padre non accettava la tregua e continuava a duellare.
«Non è mio genero».
«Ti puoi mettere il cuore in pace: lo diventerà!»
«Mai!»
«Lo diventerà!»
«Mai!»
«Lo diventerà!»
«Mai!»
Alla fine lo diventò. Passata l’estate del 1953, mia sorella scappò da casa
con l’uomo che amava.
Quella mattina io ero andato in città, per sostenere l’esame di riparazione
di francese che mi avrebbe consentito di essere ammesso alla scuola Media, quando
tornai a casa, mia sorella non c’era. L’uscio di casa era socchiuso, ciò mi
fece pensare che si fosse allontanata per andare da qualche vicina di casa.
Siccome avevo fame, dopo lo sforzo mentale della traduzione in lingua
d’oltralpe e dopo la lunga pedalata per tornare dalla città, mi misi a
chiamarla a squarcia gola.
«Teresaaa, sono tornato!»
Ma non mi rispose per cui aprii la porta ed entrai a casa. I miei genitori
non c’erano perché, essendo tempo di vendemmia, erano andati a lavorare in un
piccolo podere che avevamo all’Affaragio.
Questo stato di assoluta libertà mi piacque un sacco. Presi dallo stipo la
pagnotta di pane e tagliai due fette ciclopiche, su entrambe strofinai uno dei
pomidori raccolti, a tempo opportuno, con tutta la pianta e appesi a una trave
del soffitto della cucina, vi versai olio in abbondanza, li spruzzai con un po’
di sale (mancava il basilico, ma non era più stagione) e infine le feci
combaciare perfettamente l’una su l’altra, pressandole con forza. Prendendo a
morsi il pane così condito, uscii da casa, accostai l’uscio com’era prima,
inforcai la bicicletta mezza scassata e andai a giocare da Giovannino.
Egli era stato mio compagno di scuola elementare, ma, pur essendo bravo e
intelligente, i genitori, non avendo la possibilità di mantenerlo agli studi
superiori, lo avevano allocato in una barberia per imparare il mestiere. Ma
quel giorno era lunedì e i barbieri non lavoravano, e siccome ci era sempre
piaciuto giocare insieme, lo andai a trovare.
Vicino a casa sua c’era un palazzo in costruzione i cui lavori erano stati
sospesi da tempo immemorabile e noi, ragazzini della zona, ne avevamo fatto
luogo d’incontro e di gioco: era il palazzo diroccato.
Giocammo in vario modo. Man mano che variava il numero degli amici lì
convenuti, cambiava il gioco: fui bandito e anche sceriffo; portiere e
attaccante; crociato e saraceno; moschettiere e…
In questo modo il pomeriggio mi passò senza che me ne accorgessi. Il buio
mi colse mentre ci bersagliavamo con pezzi di pale di fichi d’india, ma vedendo
che, per ciascuno di noi, il bersaglio diventava sempre più invisibile
decidemmo di tornare ognuno nella propria casa.
Quando arrivai in vista della mia abitazione e vidi la luce del lume a
petrolio trapelare dalla finestra della cucina mi resi conto che avevo fatto
veramente tardi e che sicuramente sarei stato punito in qualche modo.
Fortunatamente la porta era appena accostata e così potei entrare senza che
nessuno venisse ad aprirmi. Spinsi il battente con cautela per evitare di fare
rumore e lo aprii tanto quanto bastò per infilarmi dentro. Mi stupii alquanto,
e un poco quasi mi dispiacque, che nessuno avesse notato il mio rientro in
casa.
Mio padre era seduto al solito posto del tavolo di cucina, stava con i
gomiti appoggiati sul ripiano e con entrambe le mani in testa; mia madre era
ritta dietro di lui e ogni tanto gli accarezzava la nuca, lo stesso gesto che
faceva con me quando mi voleva consolare. Di fronte a lui, all’altro
capotavola, era seduta Annita, la più
vecchia del “chianu” e forse di tutto il mondo con i suoi “quattro ventine e
due cinquine”. Nel “chianu” era considerata molto saggia e tutti la ascoltavano
con rispetto, quando interveniva su qualche questione.
«Sono cose che capitano» stava dicendo la vecchia, quando entrai. «Non c’è
nulla da vergognarsi, Pasquale».
La fioca luce giallognola del lume a petrolio che stava a centrotavola
cadeva radente sul viso della vecchia, esaltando, con un gioco di chiaroscuro,
le mille rughe che l’attraversavano in ogni direzione. Mai mi era sembrata una
mummia come in quel momento, anche perché, più che parlare, brontolava, senza
muovere le labbra, come se la voce venisse dall’oltretomba, senza utilizzare le
corde vocali.
«I ragazzi, su mio consiglio, non dormono insieme: Teresa si trova da vostra
cugina Rachele che sta a Mazara, e lui a
Campobello, da un suo parente».
«Nessuno crederà che non abbiano dormito nello stesso letto» piagnucolò mio
padre. «Sono disonorato!»
«Si può accomodare ogni cosa» insistette la mummia.
«E come?»
«A parte il fatto che ci sono i testimoni», spiegò la mummia, abbassando la
voce fino a ridurla a un impercettibile sussurro, «se fai come ti dico, nessuno
saprà di questa fuitina. Adesso prendi il tuo calesse e parti subito per
Mazara. Arriverai all’alba, ti fermi al molino e compri qualche sacco di
farina, poi vai a prendere tua figlia e te ne torni, facendoti vedere da tutti.
A chi ti chiede da dove venite, dirai che sei andato di buon’ora al molino di
Mazara e ti portasti a tua figlia per compagnia. Tutti sanno che lì la farina
costa meno».
Considerando questa prospettiva, mio padre si rianimò.
«Annita mia, sei cosa di baciarti tutta».
«I baci riservali a tua moglie» si schermì la vecchia con un sorriso tutto
gengive. «A me devi solo promettere due cose: Non farai scenate a tua figlia e
la fai fidanzare subito con il giovane che ama».
E mio padre promise, lo fece a malincuore ma promise, del resto in quella
situazione non aveva altra scelta.
Il piano della vecchia funzionò perfettamente: mio padre volle che lo
accompagnassi per fare sembrare più naturale che avesse approfittato della
compera della farina, per fare svagare i figlioli.
Inutile aggiungere che per tutto il tragitto mio padre mi fece il lavaggio
del cervello affinché dicessi a tutti che Teresa aveva viaggiato con noi.
Piero e mia sorella Teresa si sposarono qualche mese dopo, in piena estate.
Non fu un matrimonio sontuoso, ma io mi divertii un sacco perché era stato
allestito un bar dove si poteva chiedere continuamente da bere o gassosa o vino
marsala, e noi ragazzi non ci lasciammo sfuggire quell’occasione per riempirci
come otri di entrambe le bevande, col risultato che molti di noi si sentirono
male e vomitarono.
Siccome era estate, venne servito anche il gelato a fette. A casa mia si
era parlato per mesi di questa leccornia che ci avrebbe fatto ben figurare e
adesso che era arrivato l’atteso momento di assaggiare quel rinfresco, io ero
troppo sbronzo e non me la sentii di inghiottire quella roba dolciastra.
Fu una bella festa, anche perché i compagni di partito che Piero aveva
invitato si rivelarono gente allegra e di compagnia. Essi animarono il
ricevimento con brindisi, e balli spettacolari.
Mio padre ostentatamente faceva finta di ignorare quei comunisti della
malora, ma si vedeva che apprezzava il loro impegno per il successo della
festa. A un certo punto l’avvocato Pizzillo, aspirante sindaco di Marsala, si
sistemò a fianco dei suonatori e dal microfono si autonominò “bastoniere”,
carica che gli conferiva l’autorità di combinare una “contradanza”.
Detto, fatto.
In quattro e quattr’otto selezionò una decina di coppie e con voce
stentorea diede inizio alla quadriglia.
-Attenzioni, prufissuri,
maestri valenti, dami e cavaleri.
Ccu tanta aliganza ora
ci abballamu ‘na bilissima contradanza;
e la cumannu ccu tantu
amuri. . . Musica prufissuri!
Il “prufissuri” era il sarto Mimmo che sapeva strimpellare la fisarmonica,
lo accompagnava alla chitarra il ciabattino Mammalucco-padre. I due dopo
qualche falsa partenza azzeccarono la nota giusta e partirono con una scatenata
mazurca. Al che il “capodanza” ordinò la prima figura.
-i cavaleri penzìnu a la so’ dama fari ‘n inchinu
facci ccu facci ccu la
distanza abballamici ‘sta bedda contradanza
Al momento del ritmo più
veloce venne ‘chiamato’ un grande cerchio.
-l’omu e la donna manu
ccu manu. . .prestu lu cicculu
cumminamu
Tenendosi saldamente per mano i danzatori girarono come forsennati
investendo rovinosamente qualche spettatore troppo curioso. Il ciclone si calmò
quando la musica si fermò, per un attimo, di botto. Nell’improvvisa calma la
voce del bastoniere sembrò troppo alta.
-l’òmini fremmi, li
vrazza a ponti, li donni nsutta pàssunu sfronti
(Attenzioni ppi tacchi a
spillu!)
Il movimento riuscì bene e il bastoniere elogiò i ballerini.
-chi festa ‘i ballu, chi
contradanza, chi beddi coppi di grandi
‘mputtanza!
Dopo che il treno formato dalle dame ebbe completato il sottopassaggio del
ponte di braccia maschile, fu riformato il cerchio, ma per girare al contrario.
-‘sta contradanza mi
pari scinàriu, giramu tutti a lu cuntrariu.
Anche il maestro suonatore venne elogiato e non mancò l’ironico richiamo ai
giovani che si stringevano troppo alla dama
-chi sona beddu u
maestru Mimmoni. Abballamu tutti ccu
soddisfazioni
(lagghi abballàmu ca’
cauru c’è!)
La contradanza si avviò
alla conclusione mentre la musica si manteneva su ritmi elevati, costringendo i
danzatori a piroettare sulla punta dei piedi in una doppia rotazione: attorno a
se stessi e attorno alla pista. La velocità del volteggio sembrava fondere la
coppia in un unico blocco.
-c’e don Giuvanni ca
pari ‘na nuzza, lassu a Lola e mi pigghiu a Santuzza.
A questo comando per
incanto avvenne la scissione dei blocchi nei suoi elementi che, però,
continuarono a roteare ognuno per proprio conto aspettando di avviticchiarsi
col nuovo partner.
-c’abballa bedda a
signura Ciccina! Ogni cavaleri cangia
‘na
Signorina
Questa volta la sposa
non si fece trovare al rendezvous e il cavaliere, mancata la presa, uscì fuori
orbita andando a fermarsi sul muro degli spettatori. Teresa invece, veleggiando
con la bianca gonna di tulle gonfiata dal movimento centripeto, sfiorò il muro
umano finché non agguantò nostro padre che con un largo sorriso di beatitudine
si godeva lo spettacolo della danza.
Lo agguantò e,
coinvolgendolo nel suo movimento rotatorio, lo portò con sé al centro della
pista, mentre le altre coppie ritirandosi lasciavano loro tutta la scena.
-forza! Abballamu
cumpari Pasquale, ‘sta contradanza potta
l’alligria
-c’e’ u chitarrista cca
nasca additta. Giramu tutti a manu ritta.
(Beni chi balla!)
Fu un’apoteosi. Nostro
padre, dopo un paio di giravolte impacciate,
cominciò ad avvitarsi con la leggerezza di un ballerino della Scala, mentre
tutti gli invitati battevano le mani e fischiavano infiammati d’entusiasmo.
-v’ha cumannatu ccu
tanta ‘mputtanza, ci fazzu applarisi a ‘sta
contradanza.
Mio padre raccontò per molti anni questa sua prodezza: «I picciotti si
dovettero fermare. Non c’era spazio che mi bastasse per la velocità con la
quale giravo». Inoltre favoleggiò orgogliosamente sull’abbondanza dei
rinfreschi: «il bar stette aperto per tutto il tempo…e il gelato fu servito a
sciala cuore».
Per esaltare la magnificenza dell’evento, usò la tattica della lamentela
per le spese sostenute.
«Per questa figlia mi sono svenato» sospirava. «Sapiti come sono le femmine
quando vogliono fare le cose in grande…non conoscono limiti…il corredo lo
vollero a ventiquattro…e a ventiquattro fu…che neanche il cavaliere Catanìa,
che è il più ricco della provincia, ha fatto un simile corredo alla figlia. E
pure casa in città ci fici… a cambiali naturalmente. Ancora non so a chi pagare
prima: il muratore o il cantunaru, l’elettricista o il tubista, il marunaru o
il mobiliere…cosi tinti!»
Ma il suo brontolio non era convincente perché gli occhi gli ridevano per
la soddisfazione. Neanche l’accusa dei camerati per essersi messo in casa un
comunista lo turbava più, come ai primi giorni del fidanzamento.
Si era preparato, a tal proposito, un discorsetto che subito metteva in
campo.
«I tempi son cambiati…il parere dei padri non conta più…i giovani certe
cose non li considerano…ora si sposano per amore. E secondo me fanno bene…che
era meglio quando i matrimoni erano combinati dai parenti? No. Se poi capita un
comunista come genero, pazienza! L’importante è che abbia la testa a posto».
Capitolo 6
Sarebbe interessante rappresentare le diversità dei
tempi attraverso il variare delle cerimonie e dei festeggiamenti nuziali. Se nel
matrimonio di Teresa, il ballo costituì il clou dei festeggiamenti, nella festa
nuziale di Chiara tutto ruotò attorno al cibo: quella che era stata una sala da
ballo era divenuta, trent’anni dopo, un ristorante a tutti gli effetti. Ricordo
ancora benissimo il menù di ciò che fu offerto agli ospiti: Gamberi al pompelmo
e rucola; rosellina di salmone affumicato; Carpaccio di pesce spada alle
mandorle; crespelle con crema di melenzane e mozzarella; cupoletta ai fiori di
zucca e pistacchio; cavatelli ai crostacei e caviale; dentice al sale;
Gamberoni arrosto; frutta in coppa; torta marriage; torte gelato; millefoglie
ai frutti di bosco; parfait di mandorla.
Fu un pranzo ottimo e abbondante, tanto che gli
invitati si alzarono da tavola con difficoltà per la pancia troppo piena. Io,
però, trovo più festoso il festeggiamento di una volta, basato sul ballo.
A sentire Ninni festeggiamenti di sposalizio sono
destinati a scomparire. «Quando due si amano, vanno a convivere e buonanotte al
secchio» afferma sbrigativamente, ogni volta che gli parlo del passato.
L’ha sempre detto e, stasera, l’ha fatto, senza pensare
alla responsabilità che ne deriva a me che lo ospitavo.
Mi auguro che i
suoi genitori domani non se la prendano con me per mancata vigilanza.
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