PRIMO AMORE
capitoli 9,10 e 11
Capitolo 9
Sono puntualissimi. Alle undici meno un minuto la
grossa suv si ferma davanti casa.
Nando rimane in auto col motore acceso e Chiara viene a chiamarci, ma noi siamo
già pronti dietro l’uscio, per cui usciamo prima che lei suoni il campanello.
L’auto è spaziosa, odora di resina – mi piace tutto di questa macchina, ma a
loro non l’ho mai detto, anzi li rimprovero di gettare troppi soldi in mezzo
alla strada – e scivola nel traffico, isolandoci da ogni rumore.
Nando prende la Circonvallazione e poi gira a sinistra
verso Trapani. Man mano che usciamo dalla città, i moderni condomini si fanno
più rari e prevalgono le vecchie umili casette a piano terra di una volta.
Conosco bene quella strada per averla percorsa
infinite volte a piedi o in bicicletta per andare a scuola.
Chiesi: «Ma dove andiamo?»
«Ad Amavenera, nella tua contrada» mi risponde Nando.
«È lì che abita la famiglia della ragazza?»
«Vicino alla chiesa» specifica Chiara.
«Come fa di cognome?» chiedo per capire chi fossero
quei probabili futuri parenti.
«Azzolin» risponde mia figlia.
«Mai esistito questo cognome ad Amavenera» faccio io.
«Per forza», dice il genero, «proviene dal Veneto».
Non aggiungo più una parola, inteso come sono a
scrutare e a riconoscere i luoghi familiari.
La contrada mi dà l’impressione di una triste decadenza:
tutti gli edifici sembrano avere bisogno di un immediato ripristino e
soprattutto di un restauro nei colori, perché sono sbiaditi e screpolati
nell’intonaco.
Se mi avessero dato un pugno nello stomaco, avrei
sentito meno male, quando l’auto all’incrocio, dopo aver girato per la salita
che porta all’altopiano delle sciare, si inoltra in un vicolo cieco, in fondo
al quale abitava una volta Floriana.
Devo essere diventato pallido perché mia sorella mi
chiesd: «Ti senti male?»
«No, no», rispondo precipitosamente, «ma questi luoghi
mi fanno venire nostalgia. E a te?»
«Per niente. Il passato è passato, e non esiste più»
dichiara lei.
Fa la dura Teresa ma le sue narici si aprono a dismisura
come in un respiro affannoso e ciò mi fa capire che pure lei è presa dalla
nostalgia. Sicuramente pensa a Piero, suo marito, che una malattia aveva
portato via dopo quasi vent’anni di matrimonio.
Mio cognato era stato un uomo molto intelligente e
sensibile ai problemi del prossimo e quando c’era di aiutare un povero cristo
s’impegnava fino allo spasimo. Io, personalmente gli devo molto: il lavoro e
soprattutto il sostegno morale quando le cose non andavano come avrei
desiderato.
Fu lui a salvarmi dall’infantile abulia nella quale
ero sprofondato per la prima delusione d’amore. Al suo intervento propiziativo
ho dedicato tutto un capitolo nel romanzo.
Vivevo nell’inerzia: la mattina mi allontanavo da casa con i libri
sottobraccio, ma, invece di recarmi a scuola – ormai frequentavo l’avviamento -
mi andavo a rifugiare in una spiaggia
deserta. Se il tempo invernale non lo permetteva mi rintanavo in una
sala-biliardo piena di sfaccendati, e ne uscivo rispettando l’orario
scolastico. Quando tornavo a casa, mangiavo un boccone e mi chiudevo in camera
mia, dove, per non essere disturbato, facevo finta di studiare, tenendo un
libro aperto davanti a me.
Dopo parecchi mesi di questa vita, mio cognato Piero bussò alla parete del
bozzolo che mi isolava.
«Sono di passaggio e perciò vado subito al dunque» esordì.
Egli era sempre di fretta perché, quando non lavorava, aveva sempre da fare
qualcosa per il partito di cui era segretario nella sezione di Amavenera.
«Domani mattina c’è una riunione dei
capi lega di tutte le contrade, e avrei bisogno di qualcuno che aiutasse i
Trema-trema a sistemare la sezione. Io non posso farlo perché devo andare alla
stazione a prendere l’onorevole Fernandez che viene da Palermo per parlare
all’assemblea».
Nel mentre che mi parlava mi scrutava con i suoi occhi vispi e sinceri che
si spostavano continuamente da un punto all’altro dei vetri degli occhiali.
«Ti sarei grato se lo facessi tu» concluse.
Gli feci segno di si, e lui si congedò abbracciandomi e baciandomi sulle
guance. Un gesto d’affetto che mi scosse nel profondo.
La riunione dei capi lega dei contadini era prevista per le dieci, ma io
già alle otto mi trovai sulla soglia del rustico magazzino che ospitava la
sezione di Amavenera del Partito Comunista.
I Trema-trema che dormivano in una stanzetta sul retro avevano già aperto
il portone e tentavano di fissare, con delle puntine da disegno, un drappo
rosso, con falce e martello, dietro il tavolo dei dirigenti, ma non riuscivano
a venirne a capo perché Pino non riusciva a tener fermo il vessillo e a Vito
sfuggivano continuamente le puntine da disegno, spargendole pericolosamente per
terra. La frustrazione dell’insuccesso aveva aggiunto al solito tremolio del
loro corpo dei movimenti scomposti delle braccia e del capo.
Mi precipitai in loro soccorso incurante dei chiodini dalla testa larga che
penetravano nelle suole delle mie scarpe e tolsi dalle loro mani il drappo e la
scatoletta con le puntine metalliche.
«Lo faccio io» li tranquillizzai.
«Rilassatevi!»
Li costrinsi a sedersi e poi sistemai il simbolo del partito nel punto
della parete da loro indicatomi.
I due fratelli, chiamati Trema-trema per una malattia che faceva tremolare
continuamente i loro corpi, cominciarono a ringraziarmi come se fossi stato
inviato in loro soccorso da un santo del paradiso. Per cui quando spiegai loro
che ero stato mandato da Piero per dare una mano rimasero delusi.
Però approfittarono della mia disponibilità.
«Ci vorrebbe una spazzata…le sedie che sono nel ripostiglio vanno messe in
fila davanti al tavolo…dietro le sedie poi troverai alcune bandiere che vanno
piantate fuori ai lati della porta… »
Eseguii tutti i loro ordini senza lamentarmi e alla fine mi sedetti
anch’io, aspettando che i compagni della Federterra arrivassero.
«Ah, come mi piacerebbe avere la tua età!» sospirò Pino.
«Tutti vogliamo essere sempre più giovani» considerai io saggiamente.
«Non rimpiango tanto la gioventù quanto la salute. Alla tua età ero sano
come un pesce».
«Tutta colpa del bombardamento» intervenne Vito.
«Ci è caduto un palo di legno sul
collo e tutti i nostri nervi si sono allentati» spiegò Pino.
Parlavano così i fratelli Trema-trema, passandosi continuamente la parola
come per avere, a turno, una pausa di riposo.
«Ma chi ve lo ha detto che tremate per questo motivo e non per un virus?»
chiesi io poco convinto.
«Lo diciamo noi…» affermò Vito.
«…perché abbiamo cominciato a tremare dopo che ci cadde la casa addosso»
precisò Pino.
«Però, restare a casa mentre è in corso un bombardamento aereo-navale è
stata una strafottenza» li rimproverai. «Ve la siete proprio cercata!»
«Nostro padre era convinto che in campagna si fosse al sicuro» spiegò Pino.
«E invece è mancato poco che ci colpissero in pieno» aggiunse Vito.
«In un colpo solo abbiamo perso tutto…» considerò Pino.
«…genitori, salute e casa» specificò Vito
«Si può essere più sfortunati di così?»
Non ebbi bisogno di rispondere all’amara domanda di Pino perché
cominciarono ad arrivare le delegazioni dei contadini delle varie contrade per
partecipare all’assemblea. Ma una considerazione tra di me la feci: le mie pene
d’amore erano bazzecole rispetto alle loro vicissitudini.
In breve tempo la sala si riempì e
molta gente rimase accalcata sulla soglia del portone. Se non si soffocava dal
caldo, data la giornata estiva, era perché il tetto di tegole con i suoi
spifferi assicurava una perfetta aereazione.
I lavoratori della terra accorsero così in massa per la popolarità
dell’onorevole Girolamo Fernandez che doveva parlare loro, ma soprattutto
perché per migliorare la loro misera esistenza erano pronti a pregare qualunque
santo. Quando arrivò la Topolino con i tre segretari – zonale, comunale e
regionale – e ne scese l’Onorevole, tutti quelli che erano fuori gli si
accalcarono attorno per stringergli la mano e per poco non lo travolsero. Piero
e il segretario comunale, Ignazio Pelli,
ebbero il loro daffare per aprirgli un varco fino al tavolo della
dirigenza.
Lo schiamazzo durò anche dopo che i tre raggiunsero la loro postazione,
però adesso era di tono diverso: non più festoso e di benvenuto ma rabbioso e
di protesta. Ognuno urlava i motivi del proprio scontento, insultando le
istituzioni e i loro rappresentanti ad ogni livello. Era un coro di doglianze che
veniva dalle viscere: spontaneo e naturale come il respirare.
I tre segretari rimasero in piedi, sperando che questo loro stato d’attesa
riportasse la calma. Piero nel tentativo di sovrastare il frastuono della sala
alzò tanto la voce che divenne paonazzo: le guance arrossate, i riccioli
castani scomposti, il pugno destro alzato lo rendevano simile all’arcangelo
Michele che brandisce la spada. Anche il segretario comunale si diede da fare
per portare la calma, ma, sapendo di avere una voce bassa, piuttosto che
parlare batteva i pugni sul tavolo per chiedere silenzio, aumentando di fatto
il rumore assordante. L’unico a mantenere un contegno serafico fu il compagno
Girolamo; egli si puntellò con le mani sul ripiano del tavolo e, mantenendo
un’espressione seria e attenta come se udisse veramente le parole di ciascun
vociante, li lasciò sfogare per un poco, poi si sedette come colui che avesse
capito ogni cosa, estrasse una penna Bic dal taschino e si mise a scrivere
qualcosa con la massima concentrazione. Per incanto tutti quelli che erano
nella sala tacquero pensando che l’onorevole stesse lavorando per loro e quindi
non andava disturbato. Solo quelli di fuori continuarono a vociare, ma furono
zittiti da quelli che stavano sulla soglia della sezione.
Piero, che era rimasto in piedi, prese la parola per primo, presentando
l’onorevole – «…che tutti voi conoscete e che è qui per dare più forza alla
nostra voce di protesta… » – e descrivendo in tinte fosche le disperate
condizioni di vita dei braccianti agricoli e dei piccoli proprietari.
Mentre gli applausi fioccavano si sedette e si alzò l’onorevole.
Il compagno Girolamo era un oratore esperto e prima che con la parola si
espresse con una serie di gesti teatrali: si sbottonò la giacca e, come chi si
accinge a una lotta, si tolse gli occhiali di tartaruga e li roteò in alto
sopra la testa per poi gettarli, con gesto sdegnato, sul tavolo.
«Compagni!» chiamò, e tutti gli occhi si puntarono attenti su di lui.
«La rabbia che prima avete manifestato è la mia rabbia….[applausi
contenuti]…I contadini, fondamento di tutto il sistema economico e sociale sono
i peggio trattati da questo governo… [applausi e fischi]…Come si risponde alla
sacrosanta richiesta di pane e lavoro?... [Drammatica sospensione accompagnata
da un silenzio di tomba] con tasse, tasse e sempre tasse inique come quella
sulla circolazione dei carri agricoli e sul bestiame da lavoro…[mormorio di
disapprovazione] da oggi non le pagheremo più…[grida di consenso] disobbedienza
civile…[applausi scroscianti]
La misura è colma…[grida di consenso] no alla disoccupazione agricola per
lunghi mesi dell’anno…[coro: “Lavoro, lavoro”] no ai bassi salari…[coro: “Pane,
pane”] no all’aumento dei prezzi…[fischi e urla]
Ai signori grandi proprietari intimiamo di firmare il contratto stagionale
della conza primaverile, prima che l’incendio che si accende in questa
assemblea non divampi…[fischi e urla] a diventare un rogo distruttore…[coro:
“La terra a chi la lavora”]»
Questa volta fu più difficile riportare la calma perché gli animi erano
stati sovraeccitati dalle parole dell’onorevole deputato nazionale.
Il segretario comunale dovette sbracciarsi a lungo prima di fare sentire la
sua voce.
« Lo sciopero indetto per il 28 marzo è confermato. Vi riunirete nella
sezione della vostra contrada e da lì muoverete con ogni mezzo – carri,
biciclette, muli – verso la città.
L’appuntamento è per mezzogiorno a piazza Loggia. Partecipate numerosi, vi
raccomando; mai, come in questo sciopero, il numero è sostanza».
Prima che il locale si svuotasse del tutto passò più di un’ora, perché
tutti i delegati, coppola in mano,
vollero stringere la mano
all’onorevole e poi vari gruppi si attardarono in conciliaboli per
commentare ciò che avevano udito e prendere accordi per la giornata dello
sciopero.
Quando si trattò di riaccompagnare al treno l’onorevole, Piero volle che
andassi con loro. Così mi stipai anche io nella Topolino del segretario
comunale e partimmo per Marsala. Però non andammo subito alla stazione, prima
ci fermammo in una trattoria vicino al porto dove si mangiava esclusivamente a
base di pesce.
Ci servirono pasta con uova di ricci e cernia, delle squisitezze che
mangiavo per la prima volta nella mia vita, così come per la prima volta bevvi
quella bibita scura, caramellata e frizzante chiamata Coca Cola. Me la ordinò
di sua iniziativa l’onorevole sentendomi dire che ero astemio.
«Non permetto il sacrilegio che si beva acqua con il pesce».
Appena la gustai mi piacque tanto che mi ripetei a mente più volte il nome
ripromettendomi di richiederla in una futura occasione.
Il conto lo pagò l’onorevole; lo disse più volte, con insistenza che avrebbe voluto offrire lui,
anche se nessuno dei presenti aveva palesato la minima intenzione di volerlo
fare.
La coda del treno, che si portava via l’illustre compagno, non era ancora
sparita in lontananza, quando il segretario comunale cominciò ad andare avanti
e indietro sul marciapiede, pizzicandosi nervosamente i baffi o tirando fuori
la cipolla che teneva nel taschino per osservare con preoccupazione il
movimento delle lancette.
«Ohè Pino» fece mio cognato, vedendolo così preoccupato, «che ti succede?»
Dal sospiro di sollievo che fece, si capì che aspettava questa domanda per
tirare fuori il rospo.
«Non sapevo come dirvelo…ma non vi posso accompagnare ad Amavenera…mi sono
improvvisamente ricordato di un impegno e sono già in ritardo».
«Hai il coraggio di farcene tornare a piedi?» lo sfidò mio cognato.
«Se non ve la sentite, mi aspettate qua e quando mi libero vi accompagno
» propose il segretario comunale
cercando di fare trasparire dalla voce tutto il suo dispiacere.
«Ma va là!» lo liquidò mio cognato, e prendendomi a braccetto ci
allontanammo senza neanche salutarlo.
Noi di Amavenera, quando dovevamo ricoprire a piedi la distanza con la
città, prendevamo sempre attraverso le sciare per accorciare la strada, tanto
che negli anni avevamo inciso nelle rocce un viottolo che tutti chiamavamo l’accurzata.
«Mi feci l’accurzata» dicevano gli amavenerini per dire che erano andati o
tornati dalla città a piedi
«Mi dispiace farti fare questa scarpinata»
si scusò Piero.
«Non importa» lo rassicurai. «È stata una bella giornata, piena e
interessante».
« Ti nomino responsabile del settore
giovanile» mi comunicò all’improvviso.
«Come? Così? Su due piedi?»
« È deciso e confermato».
Quando mio cognato diceva così significava che si era incornato e nessuno
glielo poteva levare dalla testa. Tuttavia tentai ancora una debole protesta.
«Ma non so cosa fare».
«Chiedi ai Trema-trema».
«Ai Trema trema?! »
«Ricordati che loro ci dormono da anni in sezione. Sanno assolutamente
tutto».
Non trovai altri motivi per negarmi, anche perché in fondo alla caverna
della mia coscienza l’amor proprio si beava della fiducia che veniva riposta in
me.
«Cerca di starmi vicino in questo periodo »
aggiunse Piero dopo un lungo silenzio che servì a suggellare quanto
stabilito prima, « perché quando andrò in viaggio di nozze ti toccherà
sostituirmi».
«Questo proprio non è possibile» mi schermii io.
«E perché?»
«Troppo difficile per me».
«Chiedi ai…»
«…Trema-trema» conclusi io, togliendogli le parole dalla bocca.
«Deciso e…»
«…confermato».
Le nostre risate scalfirono appena il silenzio dello spazio aperto e
desolato che stavamo attraversando.
Anche perché volevo fare bella figura mi impegnai molto nello svolgere il
compito politico che mi era stato assegnato da Piero. Cenavo anzitempo e andavo
al partito per restarci fino a sera tardi, soprattutto il martedì, quando si
riuniva il Direttivo. Composto da persone anziane che avevano tempo da perdere non
si finiva più di organizzare ipotetiche marce di protesta – «I giovani
disoccupati dovrebbero marciare su Roma...» –
e rivoluzioni – «…la terra a chi la
lavora… il potere agli operai…».
La serata più impegnativa era quella del sabato, perché, essendo l’indomani
giornata di riposo, erano più numerosi i compagni che venivano alla sede del
partito. Molti di loro chiedevano a me, che ero istruito, di controllare il
conteggio, fatto dal padrone, della paga settimanale. Ma soprattutto si
raccontavano vicendevolmente le angherie ricevute dal datore di lavoro nel
corso della settimana
«Stiamo facendo la conza nella vigna del Commendatore. Incominciamo a
zappare che c’è ancora buio e col buio della sera dobbiamo finire. Però ancora
non ce ne possiamo andare a casa, perché lui, il Commendatore, prima deve
controllare il lavoro fatto, filare per filare, alla luce di una lanterna…
accussì ci ritiriamo che è mezzanotte».
«Pure il notaio Pizzutello aveva
questo vizio: quando i braccianti dovevano tornare a casa si presentava per il
controllo. Lo sapete come si levò quest’abitudine? Una volta uno, approfittando
del buio, gli tirò una pietra sulle grasse natiche mentre era a culo a ponte
per controllare uno zucco. Lui si incazzò molto e non potendo individuare il
colpevole licenziò tutta la squadra di braccianti. Ma l’indomani sera con la
nuova squadra accadde lo stesso… e così si dovette rassegnare a non fare più
questi controlli notturni».
«Chistu niente è» interveniva un altro e raccontava che il cavaliere Amodeo
mentre loro lavoravano li controllava stando a cavallo e se uno di loro si
fermava per bere o accendersi la sigaretta ne prendeva nota e poi al momento
della paga toglieva mezza lira per ogni minuto perso.
Fu il contatto con questa gente misera, sofferente e fragile che generò in
me una profonda metamorfosi: l’eros che prima era rivolto esclusivamente ad una
sola persona si spinse ad abbracciare tutti gli umili del mondo.
Tutto preso da questi impegni non ebbi tempo di piangermi addosso per il
mio amore infelice. Smisi di sognare ad occhi aperti e ritornai a vivere la
realtà, persino ripresi gli studi che avevo tanto trascurato.
Ogni tanto la malinconia dell’amore perduto si faceva sentire ma restava
sempre una musica di sottofondo che non riusciva a prendere campo nel mio
spirito, se non nei momenti di solitudine e di sconforto.
Ero un adolescente e come tale avrei voluto rivoltare il mondo come un
calzino: una rivoluzione globale in nome della giustizia e dell’equità.
Continuamente mi chiedevo cosa potessi fare personalmente e come risposta
mi vedevo capopopolo, francescano, giudice fustigatore dei malvagi… Alla fine scelsi
di lavorare nel sindacato (la CGIL,
naturalmente): cominciai come impiegato e andai in pensione come segretario
provinciale (avevo preso il posto di Piero in seguito al suo decesso).
Capitolo 10
Quando è palese che siamo diretti alla casa che fu dei
Coppola, all’idea di doverla vedere invasa da estranei mi prende come un
attacco di panico e comincio a cercare
la leva di apertura della portiera con l’intenzione di tornare indietro.
Appena sfioro la maniglia, Nando allarmato mi dice,:
«Che fai suocero?»
Mi sento colto in flagrante, come in un tentativo di
evasione.
«Volevo abbassare il finestrino» mi giustifico.
«Quella leva apre la portiera; il finestrino è
elettrico» mi spiega. «Ma ormai siamo arrivati».
Il suv si ferma e una giovane donna si materializza
sul porticato di casa. «Attenzione a dove mettete i piedi» ci dice, sorridendo.
Lo spiazzo antistante all’abitazione è occupato da mucchi
di vario materiale – calcinacci,
pietrisco, sabbia – segno evidente che si stanno eseguendo dei lavori, anche se
non si vede, in quel momento, alcun operaio.
La vista di quella donna sconosciuta in quella casa
non mi fa alcun effetto e la cosa mi tranquillizza. Penso senza alcun patema
che Mario e sua moglie siano morti e che le figlie l’abbiano venduta per
comprarsi un tetto tra le brume della pianura padana.
Entriamo in fila indiana passando davanti alla
padrona di casa che ci saluta con una stretta
di mano mentre ripete: «Benvenuti, sono Grazia, la mamma di Barbara».
Se non fosse che noi entriamo invece di uscire, mi
verrebbe di pensare a Polifemo che controlla le sue pecore per non fare
scappare gli itacesi.
Dentro c’è un intenso odore di calce: i pavimenti
sono stati riammattonati e le pareti imbiancate. Nella stanza, dove ci fa
entrare, ci sono un tavolo e alcune sedie attorno ad esso e nient’altro. «Siamo
come accampati» si giustifica di quello squallore l’ospite. «I mobili devono
arrivare». Poi aggiunge «Dentro i lavori sono terminati. Dobbiamo ancora fare
il prospetto».
Non capisco bene quello che dice, perché la stanza
semivuota rimbomba. L’importante, per me, è che non si vede nessun altro in
giro, ormai mi sento a mio agio e mi torna persino la spiritosaggine.
«Si potessero rinnovare le persone come si fa con le
case!» dico sospirando.
«Si arriverà anche a questo» afferma la donna.
E Nando aggiunge: «Già si fa per tante cose: denti,
reni, seni, labbra… e persino il cuore».
Intanto ci siamo seduti tutti quanti intorno al
tavolo come se dovessimo pranzare, e mia figlia apre subito l’argomento per il
quale siamo venuti. «Come facciamo con questi ragazzi?» chiede, utilizzando un
interrogativo retorico.
«Mia figlia, Barbara, è più posata di quanto lascia
supporre la sua età» le risponde la padrona di casa. «Perciò se ha preso questa
decisione, l’ha fatto con consapevolezza».
«Però non bastano due cuori e una capanna» interviene
Nando, e mi sorprende, perché quando si trattò di lui erano bastevoli.
«Io sono pronta a fare la mia parte…» comincia col
dire Grazia, ma si interrompe perché qualcuno sta armeggiando con la maniglia
della porta interna.
«È mia madre con il caffè» poi spiega.
Capitolo 11
Se non fosse per quel sorriso, che la illumina, non
l’avrei riconosciuta sia perché, com’è nelle cose, è molto cambiata, sia
perché, in fondo, quello è il solo ricordo chiaro che conservavo di lei
bambina. Era, quello di Floriana, un
sorriso aperto, gioioso, accogliente: specchio del suo animo.
Sicuramente fu esso a farmi innamorare più di
cinquant’anni fa. Adesso, però, riesco a tenere sotto controllo le mie
emozioni: niente ronzio nelle orecchie, niente lingua impastata… solo un
aumento del ritmo cardiaco.
Per poggiare il vassoio con il servizio da caffè si
mette alla mia destra, dove c’è un po’ di spazio, tra le sedie. Emana un
gradevole odore di lavanda che inspiro con voluttà mentre la osservo: il
castano dei capelli tende al grigio e due ventagli di rughe compaiono agli
angoli degli occhi, però la fronte spaziosa è liscia e anche le gote e il
collo. Ne traggo la conclusione che si è mantenuta più giovane di me.
Mentre serve
il caffè noto che i suoi movimenti sono agili e sicuri e quando, poi, va a
sedersi costato che non cammina trascinando i piedi come faccio io.
Mia figlia e Grazia, la mamma di Barbara, riprendono
il discorso interrotto sui due ragazzi, ma io non sto attento, tutto preso a
capire me stesso di fronte a colei che fu il mio primo amore.
A parlare sono solo le due mamme che, perfettamente
in sintonia, stabiliscono, in quattro e quattr’otto, ogni cosa: le due famiglie
passeranno un sussidio ai giovani amanti, mentre io continuerò a pagare
l’affitto, e tutto questo finché non si saranno laureati e avranno un lavoro.
Al momento del commiato, quando siamo tutti in piedi,
Grazia dice alla madre: «Il signor Saverio Palazzolo è originario di Amavenera».
Lei mi guarda, mi scruta, ma a quanto pare non le
dico nulla, perché fa: «Ah, sì?»
Incredulo e un po’ arrabbiato che il mio nome e il mio
viso non le dicano nulla, aggiungo: «E frequentavo la tua stessa scuola».
«Davvero!?»
«Certo».
«Siamo stati compagni?» mi chiede.
«D’Istituto» specifico.
«Non ricordo» afferma, dispiaciuta.
«È possibile?» insisto con poco tatto.
Lei, per cortesia, torna a scrutarmi.
«No, mi dispiace».
«Abbiamo pure recitato insieme la natività» dico io,
sperando che questo particolare possa risvegliare la sua memoria.
«Non ricordo» conferma, dopo aver riflettuto un
poco.
Avrei continuato a importunarla per quel vuoto di
memoria, ma vengo, opportunamente, bloccato dall’intervento di Teresa.
«È passato tanto tempo!» esclama mia sorella. « Adesso
andiamo che si è fatto tardi».