mercoledì 13 aprile 2016








Alberto Di Girolamo   
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO GIUDAICO-CRISTIANO  
CAPITOLO QUARTO    
LA PRESENZA DEL MALE    
GLI ATTRIBUTI DIVINI HANNO PARI IMPORTANZA?  Nel capitolo precedente abbiamo elencato una serie di attributi divini servendoci dei testi rivelati e della letteratura giudaico-cristiana. Alcuni di questi attributi sono essenziali e senza di essi non sarebbe possibile avere il concetto di Divinità, altri invece sono secondari, accessori che precisano il concetto divino, ma non lo fondano, tanto è vero che possono essere modificati o soppressi senza che venga meno la divinità del soggetto a cui si riferiscono. Così, ad esempio, è credibile che ci siano più dei e che alcuni siano malvagi (lo sono Ahriman nello zoroastrismo, o Shiva nell’induismo), è pensabile un dio immanente (panteismo) e addirittura identificabile con il mondo (panenteismo), o, al contrario un dio assente dal mondo, indifferente alla storia umana e necessitato dalla sua stessa natura. 
Insomma a un dio si può negare l’unicità, la bontà, la trascendenza, la provvidenza e persino la libera volontà, ma mai si potrà parlare di dio come di un essere mortale e impotente; in quest’ultimo caso la religione che dovrebbe dare conforto a un’umanità sofferente e derelitta non avrebbe più motivo d’essere.  Vanno sicuramente considerati essenziali al concetto divino l’eternità che implica l’immortalità e la potenza assoluta che implica una coincidenza di potere e volere. Anche un uomo può essere santo e buono, ma solo un dio è eterno e onnipotente. Non è un caso che il Simbolo apostolico tra tutti gli attributi divini citi solo l’onnipotenza: Io credo in Dio padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figliolo, Nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito,discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Così sia.   
Ciò che rende Gesù un dio non è la sua bontà ma la sua potenza e precisamente la potenza di vincere la morte (risurrezione), di sconfiggere il maligno e dare la vita eterna a chi gli è fedele. I suoi stessi discepoli hanno acquisito la piena consapevolezza che il loro maestro fosse il Cristo solo dopo la sua risurrezione; e il più scettico di loro non ha creduto finché non gli è apparso dopo la morte invitandolo a toccare con mano le sue piaghe. La potenza che vince la morte è stata dai Cristiani saldata all’amore e hanno fatto di quest’ultimo il movente dell’operato divino: Dio per amore ha creato il mondo e ha formato l’uomo a sua immagine, per amore ha rivelato se stesso e ha promesso agli uomini la salvezza celeste, per amore si è fatto carne e ha patito la crocifissione. Amore e onnipotenza per i Cristiani sono compatibili e inscindibili e – cosa molto importante - Dio li usa liberamente. Questi attributi fondamentali (potenza, libertà, amore), che fanno di un essere un dio, entrano in conflittualità tra loro quando si considera il male che c’è nel mondo. La presenza del male nell’universo pone in collisione l’onnipotenza con la bontà divina se Dio ha la libertà di usare la sua potenza quando e come vuole. In altre 
parole, il dolore e la malvagità che travagliano la nostra vita mettono in discussione –sul filo logico- la coesistenza in Dio della bontà e dell’onnipotenza, perché un essere infinitamente buono e misericordioso utilizzerebbe la sua potenza per eliminare la sofferenza presente nel mondo, e, se il buon Dio è libero nelle sue azioni, non si capisce perché non lo faccia. Non lo capiva, nel secolo IV a.C., neanche Epicuro che contro il provvidenzialismo stoico così ragionava: La divinità – dice questi [Epicuro] – o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce? (Lattanzio, De Ira Dei, in Abbagnano/Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, vol. I, pag. 456).  
Alla fine Epicuro arriverà alla conclusione che gli dei potrebbero abolire i mali, ma non lo fanno perché vivono beati e imperturbabili negli spazi celesti, indifferenti a ciò che accade nel mondo.   
Anche i Cristiani ammettono che Dio potrebbe cancellare dal mondo i mali, ma non vuole. Naturalmente la motivazione è diversa: Dio tollera il male (che non crea Lui) per ricavare da esso un bene più grande. Il come e il perché è incomprensibile, ma è così: Che Dio permetta il male fisico e morale è un mistero che Dio illumina nel suo Figlio, Gesù Cristo, morto e risorto per vincere il male. La fede ci dà la certezza che Dio non permetterebbe il male, se dallo stesso male non traesse il bene, per vie che conosceremo pienamente soltanto nella vita eterna (Catechismo, par. 324).  
Dopo morti scopriremo che Dio agisce secondo una logica che non è la nostra ma diversa e superiore, alla luce della quale tutto ciò che oggi ci sembra assurdo e contraddittorio acquisterà una chiara ed evidente giustificazione. Ma il rimando alla logica divina non ha però eliminato in molti pensatori il sospetto che Dio sia responsabile in qualche modo per il dolore fisico e morale dilagante nel mondo. Anzi, per questi pensatori non si tratta più di vedere se Dio sia responsabile o 
meno (come hanno fatto Agostino, Tommaso, Leibniz), ma di spiegare perché Dio abbia introdotto la sofferenza nella creazione. Le ipotesi sono molteplici: c’è chi (come Luigi Pareyson) considera il male come costitutivo dell’essenza divina, e c’è chi (come Hans Jonas) considera Dio, condizionato dalla sua stessa creazione, impotente di fronte al male (Dio non intervenne ad Auschwitz non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo).  
MA LA TEOLOGIA CRISTIANA NON ESCLUDE CHE DIO SIA L’AUTORE DEL MALE NEL MONDO?  Sì, è vero. In tal senso già si espresse Origene (185 – 255) che attribuì a Dio la generazione solo del Logos, ossia la ragione universale, il Figlio, il Cristo. Il Logos è della stessa sostanza del Padre; non separata da lui, ma solo distinta, come il raggio del sole dal sole da cui ha avuto origine (Luce da Luce). Il Logos a sua volta diede l’essere a delle sostanze intellettuali, immateriali e fornite di libera volontà. Esse liberamente si sono volte al male e per questa colpa sono diventate anime costrette a rivestirsi di un corpo; con la loro materializzazione è apparso il mondo visibile. Secondo la gravità della colpa originaria, le intelligenze sono diventate le anime dei corpi celesti, degli angeli, degli uomini e, le più perverse, dei diavoli. Attribuendo il male che c’è nel mondo all’uso che le sostanze intelligenti hanno fatto della loro libertà, Origene intende togliere a Dio ogni responsabilità, evitando, nello stesso tempo, di fare ricorso a un altro primo principio (del male) come facevano gli gnostici. Tutte le anime, anche quelle dei diavoli, hanno la possibilità di ritornare ad essere pure intelligenze, in virtù del libero arbitrio che conservano dopo la caduta. Questo ritorno alla condizione originaria (apocatastasi) avviene dopo una serie di rinascite in tanti altri mondi. La Chiesa non ha accettato la teoria di Origene, preferendo a essa quella elaborata da Agostino.  
Agostino, che più di ogni altro sentì il problema del male, partendo dal versetto della Genesi 1, 31 “ tutte le cose fece sommamente buone”, tolse sostanzialità al 
male considerandolo non-essere, privazione. Il suo ragionamento si sviluppa distinguendo quattro concetti di male: -Male metafisico = ontologicamente non sussiste. Le creature, essendo imperfette, mancano di qualcosa; questa mancanza è il male metafisico. Esempio: Non è esatto dire che esiste la cecità, ma la mancanza di vista. -Male fisico = è un male soggettivo (come quelli che seguono) in quanto appare tale solo al soggetto che lo subisce, ma visto nel contesto dell’armonia del creato non esiste anzi è un bene. Esempio: le carestie sono un male per chi le patisce, ma nell’economia generale del creato sono un bene perché permettono di mantenere l’equilibrio dell’ecosistema naturale. -Male gnoseologico = è un errore umano, un falso giudizio in contrasto con ogni principio logico.  -Male etico = è dovuto al “traviamento della volontà umana” che invece di rivolgere il suo amore verso Dio si lascia sedurre da ciò che è inferiore come l’avidità, la lussuria, la presunzione, l’orgoglio.  Insomma Dio viene totalmente scagionato dal ragionamento di Agostino, per il quale soltanto gli ultimi due tipi di mali si possono dire esistenti e la loro origine è chiaramente e prettamente umana.  La Chiesa Cattolica ha saputo fare tesoro della filosofia del vescovo d’Ippona e nel suo catechismo, considerando reale solo il male etico, afferma: “Dio non può fare il male, perché non può volerlo, essendo bontà infinita; ma lo tollera per lasciar libere le creature, sapendo ricavare il bene anche dal male”(1).  
E siccome quest’assicurazione non basta a fare scomparire d’incanto le sofferenze causate dalle “privazioni” metafisiche o dalle malattie, pensa di consolare gli afflitti, considerando il tormento fisico uno stato provvisorio: La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del creatore interamente compiuta. È creata “in stato di via” (in statu viae) verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione (Catechismo, par.302).  
L’apporto più originale del cristianesimo sul problema del male consiste nell’aver scoperto anche nel male un fine buono che è la funzione di espiazione e riscatto che esso adempie. In altre parole, i Cristiani danno alla sofferenza un valore positivo, considerandola un mezzo per arrivare in Paradiso. Ne consegue che l’uomo deve vivere in questa “valle di lacrime”, accettando con umile rassegnazione ogni tribolazione mandata da Dio, se vuole raggiungere l’eterna beatitudine. Si soffre nell’al di qua per godere nell’al di là. Se per i Giudei il male è la conseguenza di un atto di giustizia, per i cristiani è anche un atto di amore, una ciambella di salvataggio lanciata all’uomo affinché attraverso l’espiazione ritorni a essere degno della grazia divina. Tutta la dottrina Cristiana sul male ha il suo fondamento nella prima parte del Genesi e in particolare nel racconto biblico del peccato originale. Quelle pagine costituiscono un tentativo di spiegazione dell’origine dell’universo e delle regole fisiche, biologiche, morali che lo regolano. Il racconto è rozzo e infantile, eppure su di esso è impostata la fede di milioni e milioni di persone.   
LA FIDUCIA È BEN RIPOSTA?  Direi proprio di no. Il racconto si propone di dare la colpa del male nel mondo all’uomo e/o a Lucifero e di scagionare totalmente il Creatore, senza però addurre una motivazione e/o spiegazione convincente per cui non sarà difficile protestare, sul piano logico, l’innocenza sia di Adamo che di Lucifero, mentre più complessa appare  la posizione del terzo personaggio, Dio. Ma procediamo con ordine: SULLA POSIZIONE DI ADAMO. La concezione del male come una colpa dell’uomo è la risposta che più frequentemente troviamo nelle antiche culture religiose compreso quella della Grecia arcaica. Il racconto di un’infrazione originaria è presente, infatti, nella teogonia di Esiodo (VII secolo a.C.) laddove ci racconta il mito di Prometeo. Questo Titano, figlio della Terra e del Titano Giàpeto, per alleviare le miserie dell’umanità, salì sull’olimpo, nascose una scintilla in una canna sottile e così portò agli uomini il fuoco splendente. Giove irato per quel furto punì sia Prometeo sia l’umanità.  
Il primo fu incatenato ad una rupe posta all’estremità del mondo dove potesse essere battuto dal vento e dalla pioggia, arso dal calore e intirizzito dal freddo. Inoltre per accrescere il suo tormento, il padre degli dei inviò un’aquila che a giorni alterni gli rodesse il fegato, il quale cresceva sempre nuovo, sì che la pena non aveva mai fine. Prometeo rimase lì, in quelle condizioni, finché lo stesso Giove non lo fece liberare da Ercole; in cambio il Titano rivelò a Giove il nome della dea accoppiandosi con la quale avrebbe generato un figlio tanto forte da spodestarlo. Per non fare avverare quel vaticinio Giove fece sposare Tètide (la donna indicata dal Titano) con un uomo mortale, Peleo, re della Tessaglia. Da queste nozze nacque Achille.  In quanto alla punizione che si abbatté sull’umanità, essa è raccontata nel mito di Pandora. Questa bellissima fanciulla, creata dagli dei, venne mandata da Giove sulla terra con un vaso pieno di ogni male; giunta sulla terra la fanciulla spinta dalla curiosità aprì il vaso e tutte le sventure possibili ed immaginabili si sparsero per il mondo. Quando Pandora rinchiuse il vaso, nel fondo era rimasta soltanto la speranza.  
Il filosofo Anassimandro  (VI secolo a.C.) estese il concetto male-comecolpa, (che Esiodo aveva applicato al genere umano) a tutte le cose e a tutti gli esseri. Egli indicò come principio primordiale una sostanza illimitata, indeterminata e in continuo movimento, l’àpeiron, dalla quale si separano dei contrari (caldo e freddo, secco ed umido ecc.) che combinandosi tra loro determinano il mondo con gli esseri finiti che lo popolano. Ma la separazione dall’àpeiron, con la quale inizia la vita, violando l’armonia del “principio”, è intesa come una infrazione della legge cosmica, un’ingiustizia che va punita. La giustizia cosmica consiste nel distruggere il mondo che si è formato con questo strappo. Così, dopo un certo periodo di tempo, tutte le cose tornano a dissolversi nella sostanza dalla quale hanno avuto origine. Nella cosmogonia del nostro filosofo la nascita (colpa) è sempre seguita dalla morte (pena) che è nuovamente seguita dalla vita secondo un ciclo eterno, che vede il susseguirsi d’infiniti mondi. L’uomo non produce il suo tragico destino eppure non si può sottrarre alla sofferenza e al morire perché essi fanno parte del suo vivere e del suo esserci. La colpa o 
ingiustizia di cui parla Anassimandro, essendo prodotta da un movimento che anima la sostanza primordiale, non ha nulla a che vedere con il biblico peccato originale, che chiama in causa la responsabilità dell’uomo.   
 Dio sicuramente fornì il nostro progenitore, Adamo, di un alto quoziente intellettuale affinché potesse decidere liberamente, ma, cosa incomprensibile gli negò ciò che era indispensabile per una scelta autonoma “la conoscenza del bene e del male”. Senza quella conoscenza la volontà di Adamo era cieca.  Siccome non crediamo che un dio possa essere geloso della sua creatura, ci sembra più ovvio pensare che con quel racconto, la classe sacerdotale – ieri come oggi – si schierava, in nome di Dio, contro la libera ricerca.   
Adamo, essendo parte di un progetto divino, non poteva inventare da sé il peccato. Se egli - come sta scritto - fu creato puro e innocente, niente c’era in lui che lo spingesse al peccato, pertanto gli era impossibile fare ciò che non rientrasse nelle sue potenzialità naturali. E ancora, quando si dice che il peccato di Adamo generò il male, si dice che prima viene il peccato e poi il male, ma il peccato è esso stesso male e quindi ci deve essere un’altra causa generatrice del male-peccato, che può essere benissimo la mente contorta del primo uomo, ma una simile mente era stata foggiata da Dio. Conclusione se Adamo peccò vuol dire che Dio aveva inserito nella sua mente questa cattiva inclinazione. L’innocenza di Adamo è provata pure dalla dimostrazione che la sua libertà fu solo apparente.  I filosofi ci hanno insegnato che affinché si possa parlare di comportamento morale è necessario che ci siano alcune condizioni imprescindibili. La prima di queste è la responsabilità che implica la libera volontà: per esserci moralità è necessario vi sia responsabilità e quindi libertà. Un soggetto agente è responsabile delle sue azioni quando esse sono imputabili a una sua decisione, altrimenti sarebbero inutili sia il tribunale esterno che quello interno. Inoltre una decisione si dice libera se si danno più possibilità fra cui scegliere o, quanto meno, una alternativa: questa è la seconda condizione che contraddistingue un’azione morale. 
Per il Cristianesimo le due condizioni sono soddisfatte perché Adamo poté responsabilmente scegliere tra il BENE (l’ubbidienza a Dio) o il MALE (la disobbedienza). Ma se Adamo poté scegliere, ciò vuol dire che il BENE e il MALE già c’erano e che quindi non sono stati introdotti nella creazione dall’uomo. Inoltre è sbagliato dire che quello di Adamo fu il peccato originale, perché, secondo la tradizione cristiana, il primo a peccare, ribellandosi a Dio, fu Lucifero, l’angelo più riuscito della serie. Fu lui a suscitare e a diffondere nel mondo la perversione; fu lui a corrompere l’uomo nell’intento di colpire Dio attraverso la sua creatura prediletta. In tutta questa storia il nostro primo antenato è una vittima ingenua e non un malvagio ribelle; anche perché il Padre eterno avrebbe dovuto aprire gli occhi alla umana coppia,  avvertendola che il campione del male si aggirava in quel luogo paradisiaco, invece, il povero, sprovveduto Adamo fu lasciato alla mercé delle suggestioni tentatrici di Lucifero senza quell’arma di difesa quale poteva essere la conoscenza. Qualcosa di simile accadrà a Giobbe, ma almeno lui avrà alle spalle una consolidata conoscenza della volontà di Dio, della sua misericordia e della sua severità, per cui tentato dal diavolo saprà trovare la giusta reazione: la paziente sopportazione della sofferenza.  
Adamo è dunque innocente, e pertanto il racconto veterotestamentario va visto come un gesto d’amore verso Dio da parte di un agiografo ebreo che ha voluto scagionare Jahweh per il male che c’è nel mondo. Ma in questo atto di generosità non manca una buona dose di opportunismo. Se dicessimo che il male è stato voluto da Dio assieme al bene e che l’uomo ha peccato perché uscì dalle mani di Dio come un impasto di male e di bene ci precluderemmo la speranza di un pietoso intervento di Dio il quale non potrebbe eliminare ciò che ha voluto (il male). Se invece ci facciamo carico di ogni bruttura, e chiamiamo Dio fuori dal male, lasciando inalterate la sua bontà e la sua potenza, gli diamo la possibilità (che è anche la nostra salvezza, e ci è dovuta perché grazie al nostro sacrificio è rimasto santo e immacolato) di un gesto pietoso che cancelli in qualche modo il nostro errore e i terribili patimenti. Per questa speranza la dolente umanità vive in una continua umiliazione di se stessa accusandosi fino al delirio parossistico. 
 SULLA POSIZIONE DI LUCIFERO. La presenza nell’immaginario religioso di un personaggio cattivo e potente quasi quanto Dio ha permesso il formarsi di una teoria che scagiona di fronte al male sia l’uomo sia Dio.  La dottrina del doppio principio, uno buono e uno cattivo, presente in alcune religioni (Zoroastrismo, Induismo) e in alcuni movimenti eretici cristiani (manicheismo, paulismo), considera il Male e il Bene come due principi supremi e cooriginari, e quindi il male deriva da un principio contrario e opposto al bene. Questa risposta al problema della teodicea ha il pregio di essere chiara e univoca, superando la posizione incerta, e ambigua del rigido monoteismo. Anche il grande filosofo greco Platone distingueva nell’essere due distinti piani: l’iperuranio eterno, immutabile, immateriale, soggetto al Bene e il mondo fisico (physis), materiale, transitorio, ricettacolo del male. Il mondo delle idee è definito “ciò che è sempre e non ha generazione” ed è concepibile solo attraverso l’intelletto e i suoi ragionamenti; il mondo materiale al contrario è “ciò che si genera perennemente e non è mai essere” e si conosce attraverso la percezione sensoriale. Sono due mondi opposti: l’uno esemplare e principio di ogni perfezione, l’altro, imitazione del primo, imperfetto e principio di ogni negatività metafisica, fisica e morale.  I Padri della Chiesa stretti dalla difficoltà di scindere l’azione creatrice divina dall’origine del male, hanno accolto solo parzialmente nella teologia cristiana la teoria “dualistica”: sia nella versione platonica di uno stretto rapporto fra materia e male (per cui nella corporeità umana risiede la causa di ogni tentazione peccaminosa); sia nella versione eretica di un essere malefico potente (quasi) quanto Dio. La tradizione cristiana ammette accanto a Dio (principio del Bene) un angelo ribelle (principio del male), la cui funzione particolare è quella di tormentare l’uomo con ogni tipo di tentazioni (lo fa pure con Gesù) e disgrazie (lo fa con Giobbe) per spingerlo a rinnegare il suo creatore. La presenza di questo principe del male, tuttavia, non compromette la concezione “monistica” di fondo, perché  i due principi non sono coeterni e indipendenti tra loro. Lucifero, infatti, diventa il principio del male dopo un atto di ribellione contro il suo creatore, Dio, che lo aveva realizzato santo. Per la Chiesa – e questa è la differenza con il 
manicheismo, da essa condannato - Dio (il Bene) è increato, mentre Lucifero (il Male) è frutto perverso della creazione. Un’altra importante differenza tra la dottrina cattolica e quella “dualistica” riguarda la libertà dell’agire umano: per i “dualisti” l’uomo, conteso dal principio buono e dal principio cattivo, non ha alcuna autonomia; la sua volontà non è libera perché è dominato dall’una o dall’altra forza. Per i Cattolici (e Protestanti) invece l’uomo possiede il libero arbitrio della volontà che gli permette di scegliere la sua salvezza o perdizione. E il fatto che Dio nella sua onniscienza conosce in anticipo la scelta umana non costituisce un condizionamento. Dio in assoluta libertà ha voluto che l’uomo fosse libero.  
Della libertà dell’uomo ne abbiamo già parlato e torneremo a parlarne. Per adesso restiamo sulla figura di Lucifero per dimostrare se così come ce lo rappresenta la tradizione cattolica possa essere colpevole del male nel mondo oppure no. È una comune opinione filosofica che solo all’uomo è data la possibilità di fondare una vita morale perché essendo unità di spiritualità (o ragione) e di sensibilità sente, in quanto spiritualità, una forte attrazione verso il bene e, in quanto sensibilità, una continua resistenza ad esso. La sensibilità o corporeità è costituita da impulsi e inclinazioni, per cui si cerca il piacere immediato e si fugge il dolore (è la concupiscenza cristiana); invece la nostra parte razionale o spirituale tende a guidare l’azione verso un fine spirituale, che è indipendente dal piacere fisico e/o intellettuale. Insomma per questo ineliminabile dualismo tra spirito e inclinazioni naturali, la legge morale riguarda solo l’uomo; non si può parlare di moralità in un animale che segue senza rimorsi i suoi istinti, né si può parlare di morale in un essere fatto di puro spirito (angeli) perché in loro non c’è alcuna resistenza al bene operare. Questa teoria, se è corretta, rende inspiegabile la ribellione dell’angelo Lucifero, fonte di tutti i mali, perché egli per sua natura era esente da ogni concupiscenza. Ammesso che fosse stato provvisto di una volontà libera (e per i Cristiani in questa libertà va cercata la radice del suo peccato) essa non poteva non essere buona. Comunque in lui non c’erano le altre condizioni - alternativa, desiderio per la 
trasgressione - che determinano un agire responsabile. Proprio perché non era stato creato per peccare non si capisce come possa averlo fatto.  Nella tradizione, la ribellione di Lucifero è considerata da Dio più grave di quella di Adamo; infatti per l’angelo ribelle non ci sarà alcuna misericordia o possibilità di redenzione. Dio non fa nulla per recuperarlo, per ricondurlo a sé, mentre per l’uomo arriva a incarnarsi e a patire la croce. Il Catechismo ci spiega che, essendo l’angelo un puro spirito senza un’interiore spinta al peccato, la sua ribellione fu più grave, perché contro natura.  Questa asserzione è chiaramente contraddittoria perché sostiene che ha peccato chi, per natura, non poteva farlo. La contraddizione non viene superata replicando che la   libertà consisteva proprio nella possibilità di violare la sua stessa natura; infatti una creatura liberamente segue e non contrasta le sue inclinazioni, perché solo così si sente felice. In base a questa regola, Lucifero non avrebbe potuto volere insidiare il potere del suo creatore, perché in lui non c’era alcun sentimento di invidia e di avidità. Per ammettere che lo abbia fatto, dobbiamo presupporre che, nel crearlo, Dio ha posto in lui i germi della malvagità, ma non si vede il motivo per cui Dio avrebbe dovuto crearsi un nemico.  In conclusione un personaggio come Lucifero – puro spirito, creato santo ,che diventa malvagio contro la sua stessa natura – è assurdo e non può esistere. Pertanto se non si vuole accettare un Signore del male eternamente coesistente col Signore del bene, non ci resta altro che cercare la radice del male nell’azione divina.  
SULLA POSIZIONE DI DIO. È difficile sostenere che un dio assolutamente libero, e originariamente unico, sia innocente del male che imperversa nel mondo. Lo fa la dottrina cristiana col risultato di provocare una serie di affermazioni contraddittorie che ne compromettono l’intera impalcatura teoretica.  Così troviamo scritto che “l’uomo non fu creato debole e misero come ora siamo” e poi che “Il peccato di Adamo fu un peccato grave di superbia e di disubbidienza”. Se non era debole e misero come fece a peccare? 
Oppure, si scagiona Dio per la presenza del male nel mondo e poi si aggiunge che Egli semplicemente lo permette. Chi permette qualcosa non è corresponsabile di ciò che accade? Rispondere di no, significa essere in mala fede. E ancora, a un dio che non può fare il male gli si attribuisce la creazione dell’inferno, dove l’eterna punizione senza riscatto supera la più terribile delle colpe.  
 I Cristiani sono disposti a sacrificare la coerenza pur di salvare l’unicità e la libertà di Dio, perché la libertà di decidere gli dà quella personalità, fatta di sentimenti e reazioni, che non potrebbe avere  se fosse pensato come un motore immobile (Aristotele)  o un essere necessitato (Plotino, Spinoza). Per evitare di legare e quindi vincolare la volontà di Dio a qualcosa che da sempre coesistesse con Lui,  i Cristiani hanno rifiutato l’idea greca di una materia eterna, affermando che Dio creò il mondo dal nulla, “istituendo con ciò una gerarchia di valori fondata sull’inferiorità dell’effetto rispetto alla causa” (2). Prima della creazione esisteva solo Dio e nient’altro. Non esisteva neanche il nulla perché Dio era ovunque (onnipresenza). L’unicità ne faceva “in principio” un essere assolutamente incondizionato e per questo poté a suo piacimento organizzare l’universo e decidere i requisiti delle creature che lo dovevano popolare.   All’alba del primo giorno della creazione Dio era assolutamente libero, niente lo condizionava: non il mondo esterno che ancora non esisteva (neanche il nulla); non una eventuale conflittualità tra i suoi attributi costitutivi perché tutte le possibili azioni erano realizzabili. Egli poteva esplicare tutta la sua bontà creando un mondo che mai sperimentasse il male; lo poteva fare perché era onnipotente (bontà e onnipotenza entrano in conflitto solo in presenza del male) e perché ciò non avrebbe arrecato alcun pregiudizio al suo senso di giustizia (invece dopo il fatto peccaminoso la bontà trova un limite nell’esigenza di fare giustizia).  Dio, essendo onniscienza, sapeva in partenza che l’uomo avrebbe peccato, introducendo così il male nel creato, eppure, Egli, malgrado la sua bontà infinita e la sua onnipotenza, nulla fece, al momento della creazione, per prevenire la 
tragedia. Su questa passività di Dio il Catechismo – rifacendosi ad Agostino e a Tommaso - dà due motivazioni che mal si conciliano fra loro: 1) Nella prima spiegazione, l’inizio della storia, cristianamente intesa, è dovuto a una decisione libera e per questo imprevedibile dell’uomo. Dio aveva in mente che quella creatura, creata a sua immagine e somiglianza, avesse la libertà di scegliere tra il bene e il male, di accettare o rifiutare il Creatore e la sua legge e pertanto era disposto (Dio) ad adeguarsi a quella scelta. Il suo non intervento preventivo fu un segno di rispetto e di fiducia per quel libero arbitrio che differenziava l’uomo dalle altre creature. Queste sono le parole della Chiesa: Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi deviare. […] Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale […] Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene. (Catechismo, par. 311)  
2)Nella seconda spiegazione, invece, il peccato, la redenzione per mezzo di Cristo, l’apocalisse finale precedono, come progetto, l’azione creatrice: La creazione è il fondamento di “tutti i progetti salvifici di Dio”, “l’inizio della storia della salvezza”, [Congrecazione per il Clero, Direttorio catechistico generale, 51] che culmina in Cristo. Inversamente, Il mistero di Cristo è la luce decisiva sul mistero della creazione: rivela il fine in vista del quale, “in principio, Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1, 1): dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo [Cf Rm 8, 18 – 23] (Catechismo, par. 280).  
Non ci vuole molto a capire che le due affermazioni si elidono a vicenda perché la prima pone la libertà umana mentre la seconda la nega. Delle due l’una: o Dio, malgrado la sua onniscienza, non poteva sapere la libera reazione di Adamo, tentato dal serpente,  oppure, la “caduta” di Adamo doveva necessariamente avvenire affinché la storia avesse il corso che ha avuto e che Dio voleva che avesse.  La filosofia Cristiana, per mediare la discordanza tra le due interpretazioni ha elaborato questa tesi: Dio lasciò Adamo perfettamente libero di prendere la sua decisione, ma ne previde il comportamento e quindi progettò in base alla sua 
previsione. Anche noi umani, quando conosciamo bene una persona riusciamo a prevedere la sua reazione di fronte a una situazione problematica , figuriamoci se ciò non l’abbia potuto fare colui che, avendo creato Adamo, lo conosceva nelle sue più intime pulsioni.  Ma affinché Adamo fosse veramente libero ci doveva essere fino all’ultimo una pur minima possibilità che Adamo dicesse no alla tentazione: Dio non poteva essere certo che si sarebbe consumato quel primo peccato e quindi non era padrone del futuro del mondo. La qualcosa però è inimmaginabile se si dà un Dio onnisciente ed onnipotente al quale non si confà il minimo dubbio. E così restiamo in un vicolo cieco. Inoltre insorge un altro problema: quali pulsioni si agitavano nell’inconscio del primo uomo? Non dovevano essere negative, dal momento che Adamo era una creatura pura ed innocente. La previsione più consequenziale sarebbe stata che il nostro progenitore, privo d’invidia e di ambizione com’era, restasse fedele alle disposizioni ricevute dal buon Dio. La mancanza di pulsioni negative come la superbia rende inspiegabile il gesto della coppia progenitrice, a meno che Lucifero, sotto forma di serpente, non l’abbia resa incapace di intendere e di volere; ma questa logica soluzione non viene presa in considerazione dalla Chiesa che insiste sulla volontarietà del peccato originale che precipitò l’umanità nella colpa, affinché si avverasse il sacrificio della croce.   
Alcuni filosofi hanno pensato di risolvere questa impasse ipotizzando che Dio, dopo la creazione non sia stato più assolutamente libero come lo era stato prima. Questo perché,essendo  Iddio anche Provvidenza, Egli non poté non occuparsi di ciò che aveva creato, e poiché aveva creato esseri spirituali che sono eterni (gli angeli, l’anima umana), si era vincolato per l’eternità, si era necessariamente autocondizionato. Ciò è provato da quei passi della Bibbia che ci mostrano un Dio irato e/o deluso per il comportamento di quelle creature che dovevano essere il suo orgoglio perché fatte a sua immagine.  Il condizionamento di Dio non è solo morale, come può esserlo quello di un padre che deve prendersi cura della famiglia che ha creato, ma anche “costituzionale” (3), perché Iddio dovette ritrarsi da una porzione dell’immensità e 
lasciare lo spazio dove collocare il mondo. Se l’Assoluto non si fosse spostato in là non avrebbe potuto creare un al di qua separato da Lui, ma si avrebbe avuto quel panteismo e/o panenteismo di cui parlano gli idealisti. Il concetto di Dio, come essere trascendente, presuppone una sua autolimitazione “che dà spazio all’esistenza e all’autonomia di un mondo. La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta –una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso-  un atto infine dell’autoalienazione divina” (4).  Insomma un Dio che si è autolimitato per dare spazio alla creazione e che si è auto-assunto il compito di pilotare la storia non gode più di quella assoluta libertà che aveva quando era l’unico essere esistente: la sua stessa libera creazione divenne una condizione, un limite alla sua libertà, e, in ultima istanza alla sua stessa potenza dal momento che non la potrà più esercitare liberamente. C’è pure da dire che il Signore, essendo Onnisciente, lo sapeva già da prima che sarebbe stato così, per cui sacrificò la sua libertà sull’altare della creazione. Prima di iniziare la sua opera niente lo vincolava: Egli poteva creare uno o infiniti mondi, perché, essendo onnipotente, la creazione di un universo non escludeva necessariamente gli altri. Così non è detto che Dio abbia creato solo questo universo e neanche che esso sia il migliore dei mondi possibili. Il nostro cosmo che è chiuso occupa solo una minima porzione dell’infinità dove c’è posto per tutti gli universi che Dio avesse voluto creare.   
L’idea di un Dio che muta in seguito al lavoro creativo fu considerata pericolosa da alcuni antichi filosofi cristiani. Così Origene per evitare l’implicazione di un mutamento nell’essere divino preferisce sostenere che la creazione del mondo sia eterna.  Agostino invece tenta di salvare la coesistenza di creazione e perfezione (o immutabilità) con un famoso ragionamento nel quale lega il cambiamento al tempo e questo alla creazione: Dio non ha creato il mondo nel tempo, ma il tempo con il mondo.Ne consegue che 1) prima della creazione il tempo non esisteva e quindi non ha senso parlare di un dio disuguale “prima” e “dopo” la creazione; 2) poiché il tempo è una sua creazione, Dio si chiama fuori da esso (così come fuori dal mondo) in modo che non essendo soggetto al tempo non è soggetto neanche al 
cambiamento. Ma la teoria di Agostino non risponde all’obiezione: come si può parlare di un Dio che esiste “prima” della creazione se il tempo ancora non c’era?  Inoltre, se Dio fosse fuori del tempo non potrebbe entrare a far parte della successione temporale degli eventi mondani come invece ci testimoniano i testi sacri, ove il dio biblico vive la relazione con il creato fino a lasciarsi coinvolgere emotivamente e fattivamente nel fluire temporale delle vicende umane: Egli si rammarica, si pente, giudica, punisce, aiuta, patteggia, arriva persino ad incarnarsi, a soffrire e a sperimentare la morte. Insomma la creazione comporta un cambiamento dell’essere divino al quale non è più riferibile l’attributo di immutabile perfezione. Dio era immutabile prima della creazione, ma realizzando l’universo ha sacrificato la sua perfezione, ecco perché la creazione è stata un grande atto d’amore, che significa rinuncia, sacrificio. La dottrina cristiana sbaglia quando sostiene che, dopo la creazione, Dio restò identico a se stesso. Chi dà qualcosa, qualunque cosa, non è più lo stesso di prima: quel gesto lo ha cambiato. Per questo la domanda agostiniana su cosa facesse Dio prima della creazione, meritava una risposta diversa da quella che diede il vescovo d’Ippona, e cioè che qualunque cosa Dio facesse non la poté più fare.  
DOPO AVER CONSIDERATO QUELLA DI ADAMO (E ANCHE QUELLA DI LUCIFERO) UNA LIBERTÀ CONDIZIONATA,DOBBIAMO RINUNCIARE ALL’IDEA DI UN DIO LIBERO? Per salvare la libertà divina le alternative sono due: o ci richiamiamo (come fanno i teologi cristiani) al mistero della logica superiore di Dio, invocando i limiti umani nella comprensione dell’essenza ultima di Dio e della sua volontà; oppure dobbiamo rinunciare all’idea di un dio creatore: se l’universo non è creato da Dio non lo sono neanche il bene e il male in esso contenuti. 



































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