mercoledì 6 aprile 2016




Alberto Di Girolamo



DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO GIUDAICO-CRISTIANO




CAPITOLO TERZO



LA NASCITA DEL MONOTEISMO


COME VIENE RAPPRESENTATO DIO, NELL’A.T.?
Nell’A.T. ci imbattiamo in numerosi attributi che adornano Dio e ne precisano il concetto; quelli più significativi ce lo descrivono come:
-             ONNIPOTENTE = può fare tutto ciò che vuole;
-             UNICO = non ci sono altre divinità;
-             PURISSIMO SPIRITO = non ha corpo e quindi non è percepibile dai sensi;
-             IMMENSO = onnipresente in cielo in terra e in ogni luogo;
-             ETERNO = è sempre stato e sempre sarà;
-             ONNISCIENTE = conosce tutto: il reale, il possibile e l’immaginario;
-             VERITÀ = non può ingannare;
-       VOLONTÀ LIBERA = non esiste nulla di esterno che ne condizioni le decisioni;
-             GIUSTIZIA INFINITA = premia e castiga con equità;
-       TRASCENDENTE = aldilà di tutte le cose mondane, oltrepassa ogni   determinazione e riferimento per cui l’uomo può averne conoscenza solo per       mezzo della Rivelazione;
-             PROVVIDENZA = ha cura di ciò che crea, è Signore della storia;
-             MISERICORDIOSO = pietoso, soccorritore, pronto a perdonare;
-             PERFETTO = immutabile, senza limiti e senza difetti.

Il primo attributo nel quale ci imbattiamo, nella prima pagina del primo libro dell’A.T., è la potenza creatrice di Dio; l’unicità, che abbiamo elencato come secondo attributo, è affermata per la prima volta in Es 3, 15; mentre ci imbattiamo nella sua immensità in 1Re 8, 27. Insomma il concetto di Dio quale emerge dal quadro sopraesposto non è mai presentato in modo globale, perché i vari attributi sono sparsi nei vari libri che – come si sa - furono scritti in tempi successivi. Questo fatto ha avuto due spiegazioni: quella dei religiosi che sostengono che Dio abbia preferito rivelarsi in modo progressivo, per adeguare lo svelamento di sé alle capacità mentali dell’uomo; e quella dei critici indipendenti per i quali l’aggiunta graduale di nuovi elementi distintivi della natura divina dimostra che la religione ebraica abbia avuto uno storico sviluppo, come tutte le altre religioni comparse sul nostro pianeta.

SI PUÒ STUDIARE LA RELIGIONE EBRAICA ALLA STREGUA DELLE ALTRE RELIGIONI CHE SI SONO AFFACCIATE NELLA STORIA?
Ciò è stato già fatto da quegli studiosi laici che hanno affrontato l’argomento senza preconcetti. Dopo aver messo in discussione la tradizionale convinzione di un Pentateuco scritto da Mosè su ispirazione divina, la critica testuale procedette con consequenzialità a studiare la religione ebraica come il risultato di un processo evolutivo storico-culturale che era partito (siamo intorno al sec. XX a. C.) da una religione tribale per approdare con i profeti (e siamo intorno all’VIII sec. A. C.) a un monoteismo universale (nel quale però Israele continuava ad avere sempre una posizione privilegiata).
Leggendo i libri del Pentateuco appare chiaro ed evidente che il popolo d’Israele, malgrado sia stato testimone e destinatario di tanti prodigi divini, non riesce a essere fedele in modo esclusivo a Jahweh, il che significa – confermando la tesi storica - che in quel momento l’idea di un dio unico non si era ancora del tutto consolidata nella loro cultura religiosa. Né le minacce né le punizioni né le blandizie delle belle promesse riescono a tenere lontano dal peccato idolatrico quel “popolo di dura cervice” (1) come lo chiama Dio. Il Pentateuco ha per oggetto la storia di questo incostante rapporto tra L’israelita e il suo Dio; nella Bibbia non ci sono altre spiegazioni agli avvenimenti narrati: quando il popolo si adegua alla volontà divina, tutte le cose gli vanno bene, ma se il comportamento della gente non risponde alle aspettative del Signore allora sono guai, perché, implacabile, arriva la punizione sotto forma di sconfitta militare o di terribile pestilenza. Fortunatamente c’è sempre qualcuno che mantiene buoni rapporti con Dio, così si può sapere il motivo della sua ira e porvi rimedio in modo che la vita proceda per il suo giusto verso.
Questa impressione generale di un politeismo residuo presso la popolazione ebraica che vagava nel deserto è, del resto, confermata da una serie di passi che non lasciano dubbi sul fatto che gli Israeliti dei tempi più antichi ammettessero l’esistenza di più divinità tra le quali emergeva Jahweh, il loro dio nazionale, che li proteggeva dai popoli nemici i quali, a loro volta, avevano i loro dei protettori (vedi Genesi 6; Esodo 15, 11/ 18, 11; Deuteronomio 4, 7; Levitico16, 6) (2).
L’esame testuale ha portato molti storici alla convinzione che il monoteismo ebraico, codificato durante l’esodo, è il risultato di uno sviluppo che ha le sue radici nella terra d’origine di quegli schiavi in fuga, cioè nella terra dei Faraoni, visto che Mosè e il suo popolo provenivano da lì. E in effetti, i sacerdoti egizi, nel corso dei secoli, avevano trasformato il politeismo in enoteismo, avevano cioè collocato tutti gli dei in un sistema di relazioni in modo da attribuire una posizione di privilegio a un solo dio pur non arrivando a negare gli altri. Un altro passo verso un vero e proprio monoteismo fu fatto nel XIV sec. A. C. dal re Amenophis IV (1372-1355) che impose una nuova religione di stato la quale 1) ammetteva il culto di un solo dio, Aton, il disco solare che manda i suoi raggi benefici sulla terra; 2) rifiutava l’antropomorfismo e la magia; 3) negava la vita dopo la morte. Il Faraone per devozione all’unico dio cambiò il suo nome in Ikhnaton e compose personalmente degli inni, come l’inno al Sole che influenzerà il salmo 104.  
Spinto dal suo fanatismo, il re cercò di imporre con la forza la nuova religione e cancellò dai templi ogni traccia di quella vecchia, ma questi provvedimenti non bastarono a rendere duratura la riforma religiosa. Subito dopo la sua morte, il nuovo faraone Tutanchamon restaurò l’antico culto di Amon, ridando ai sacerdoti degli antichi dei i loro privilegi e il loro potere; allora, per evitare le inevitabili ritorsioni, i monoteisti guidati da Mosè (3), un nobile sacerdote di Aton, si unirono a una tribù semitica, che viveva oppressa in Egitto, e tutti insieme riuscirono a fuggire nella penisola del Sinai. Mosè e gli altri monoteisti resero la loro religione ancora più spiritualizzata, privandola di ogni immagine, e cercarono di convertire al loro dio unico i loro compagni semiti, ma quella rozza gente non riuscì ad aderire totalmente all’idea di una divinità così astratta, da non essere rappresentabile con un idolo, per cui non riusciva a stare lontano dall’idolatria anche se poi se ne pentiva, quando veniva aspramente biasimata da Mosè. Questa ipotesi storica su Mosè fu ripresa da Freud e rivisitata, alla luce delle sue teorie psicoanalitiche, nell’opera L’Uomo Mosé e la religione monoteistica (1934).

Secondo Freud, gli Ebrei, stanchi ed esasperati per la lunga permanenza nel deserto si ribellarono contro Mosè e arrivarono a ucciderlo. Il ricordo di quell’assassinio fu rimosso e cacciato nell’inconscio collettivo, ma, ai tempi dei profeti, si verificò il “ritorno del rimosso”, l’insegnamento del capo ucciso, riemerse alla luce della coscienza, sotto forma di rivelazioni da parte di Yahwèh, un temuto dio dei vulcani venerato dalle tribù semitiche stanziate nel territorio di Madian con le quali gli israeliani si erano fusi dopo la morte di Mosè. In altre parole gli insegnamenti di Mosè – primo fra tutto l’uso di distinguersi dagli altri popoli per la pratica egizia della circoncisione – sempre presenti nella coscienza popolare in forma più o meno velata, lentamente, attraverso i secoli, finirono col trionfare, e così le qualità spirituali e universali del Dio di Mosè si riaffermarono come attributi di quel Yahwèh che nel frattempo era stato adottato come dio nazionale.
Nella sua ricostruzione dell’origine del Giudaismo, Freud applica allo specifico caso ebraico la teoria illustrata in Totem e Tabù per spiegare in genere l’origine della religione e della civiltà. Secondo questa teoria, nella notte dei tempi gli uomini vivevano in piccole orde – ipotesi che aveva formulato Charles Darwin osservando le abitudini di vita delle scimmie superiori – ciascuna delle quali era dominata da “un padre violento, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli man mano che crescono” (4). In questa situazione di soggezione, i figli maschi potevano accoppiarsi al più con qualche femmina prigioniera o di passaggio, ma in genere ripiegavano su rapporti omosessuali; questa situazione durò finché, un giorno, spinti dalla loro sessualità repressa, essi unirono le loro forze per eliminare il padre:
I fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso e mangiato il padre, ponendo fine all’orda paterna. Una volta riunitisi si sono fatti audaci e sono stati in grado di realizzare ciò che ciascuno di loro, isolatamente sarebbe stato incapace di fare […] Che essi abbiano mangiato il cadavere del padre non ci stupisce, dato che si tratta di primitivi cannibali. Il violento progenitore costituiva certamente il modello invidiato e temuto di ciascuno dei membri di questa associazione fraterna. Essi realizzavano, con l’atto del pasto, la loro identificazione con lui, ciascuno si appropriava di parte della sua forza (5).

I figli avevano sempre provato nei confronti del padre-padrone due sentimenti contraddittori e ambivalenti: odio e amore. Dopo aver “placato il loro odio” attraverso il delitto, i sentimenti di affetto e di ammirazione diventarono prevalenti, producendo il pentimento e un insopportabile senso di colpa “sentito collettivamente”. Questo rimorso inconscio segnò la storia dell’umanità con 1) la deificazione del padre (6). Per liberarsi del loro senso di colpa i figli reintegrano il padre nella sua autorità, in quest’operazione nostalgica il padre perde tutte quelle negatività per le quali era stato ucciso e diventa la figura benevola e potente di un Dio; 2) il divieto del fratricidio (7). La nuova società, basata sui due tabù legati al complesso di Edipo, l’omicidio e l’incesto, nasce sia per evitare uno stato di homo homini lupus nel quale nessuno dei fratelli ha la forza di imporsi agli altri, sia per evitare che un delitto simile a quello che loro avevano commesso potesse in futuro ripetersi.
Freud non porta a sostegno della sua teoria prove storiche inconfutabili, non è possibile per il semplice fatto che non ve ne sono; il suo vuole essere un ragionamento, probabile e verosimile, conforme ai dati della ricerca psicoanalitica: egli parte dalla conclusione che la vita psichica dei popoli come del singolo individuo si potesse spiegare partendo dal rapporto ambivalente con il padre, e pertanto anche il sentimento religioso in genere, nonché  la vicenda di Mosè e, con qualche variante, la crocifissione di Gesù possono avere una spiegazione coerente con il complesso di Edipo. “Nel complesso di Edipo e nel ‘ritorno del rimosso ’ Freud aveva trovato dei principi integrativi mediante i quali, in maniera per lui stesso imprevedibile, tutti i pezzi del rompicapo si erano incastrati come per magia, finendo addirittura con il rinforzarsi a vicenda: dalla psicologia dell’individuo alla psicologia delle masse, dalla psicologia alla storia, dalla storia ebraica indietro fino alla preistoria e in avanti fino alle origini del Cristianesimo e ai meccanismi dell’antisemitismo” (8).

QUALI ARGOMENTI CONTRAPPONE LA POSIZIONE CONFESSIONALE?
I religiosi pongono alla base della conoscenza di Dio i testi rivelati che sono considerati anche la prova decisiva della sua esistenza. Secondo questi pensatori l’uomo non avrebbe potuto elaborare l’idea di Dio se Dio stesso non si fosse rivelato in qualche modo a lui. La rivelazione infrange la trascendenza divina:
Con la sua Rivelazione “Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum]. La risposta adeguata a questo invito è la fede (Catechismo, par.142) .

L’essere eterno si rivela all’uomo per il suo bene, per la sua salvezza. Infatti, anche se, con la sua intelligenza, l’uomo potesse arrivare ad avere una qualche idea di Dio, questa conoscenza naturale non basterebbe alla salvezza della nostra anima, perché resteremmo nell’ambito delle congetture sulla natura e sulla volontà dell’Essere eterno. Seguendo invece la Rivelazione siamo sicuri di fare la volontà di Dio apportatrice di beatitudine. La Chiesa Cattolica sostiene che i libri che contengono la Rivelazione hanno, in ultima istanza, Dio per autore e che gli agiografi (autori umani) si limitano a riportare fedelmente ciò che vuole il loro ispiratore. Quindi: di Dio noi conosciamo ciò che Lui stesso ha voluto rivelare.

INSOMMA SIAMO DI FRONTE A UN DIO MISTERIOSO,  “DEUS ABSCONDITUS”, MALGRADO LA RIVELAZIONE?
Proprio così. L’uomo conosce molte cose su Dio, ma non tutto.
Il concetto di un Dio nascosto è già presente nel Vecchio Testamento, dove vengono messe in bocca a Yahwèh queste parole:
Io abito nella caligine(1 Re, 8).

E il profeta Isaia esclama:
Si, tu sei un Dio che ti nascondi
O Dio d’Israele, o Salvatore (Isaia, XLV, 15).

L’idea di un Dio che mostra solo una faccia di se stesso, mentre l’altra rimane immersa nel buio del mistero fu ripresa dal Cristianesimo (9) e utilizzata per accrescere il valore dottrinale e politico della Chiesa che si è posta come tramite tra il fedele e Cristo e come unica depositaria ed interprete autorizzata della parola di Dio. Ai fedeli non rimane altro che accogliere “con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori” (Catechismo, par. 87). La Chiesa ha amato sempre pontificare all’ombra del mistero preferendo la fede cieca alla luce della ragione. La speculazione razionale è stata tollerata finché tornava utile alla dottrina ufficiale ed è stata condannata e disprezzata quando, sostenendo che si potesse dubitare di ciò che non appare alla mente in modo chiaro e distinto, ha cercato di esorcizzare la paura del mistero divino. Il dubbio speculativo sui misteri divini non è ammesso dalla Chiesa, perché contrario al concetto di fede che consiste in una accettazione cieca e incondizionata dell’inspiegabile:
Con la fede l’uomo sottomette pienamente a Dio la propria intelligenza e la propria volontà. Con tutto il suo essere l’uomo dà il proprio assenso a Dio rivelatore [cf. Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 2]. La Sacra Scrittura chiama “obbedienza della fede” questa risposta dell’uomo a Dio che si rivela [cf. Rm 1,5; Rm 16,26] (Catechismo, par. 143).

La Chiesa pur parlando di una rivelazione piena (10), della quale essa sola ne è la depositaria, non rinuncia ad affermare con forza la ineffabilità, l’incomprensibilità, l’invisibilità e l’inafferrabilità di Dio (11).
Gli scrittori cattolici hanno spiegato e giustificato il concetto del “Dio nascosto” con diversi argomenti: mettendo il nascondimento alla base di una libera fede (12); colpevolizzando ancora una volta l’uomo che non è stato mai degno di ricevere una totale rivelazione di Dio; mortificando le umane facoltà intellettive con la trita tesi che la natura infinita di Dio non può essere compresa fino in fondo dal limitato intelletto umano.
Quest’ultimo argomento ha radici antiche: già con il neoplatonico (Plotino III sec.) si era affermata quella teologia negativa che avrà uno dei suoi massimi rappresentanti in Nicola Cusano. Quest’ultimo la chiamerà “dotta ignoranza”, perché “secondo questa teologia, Dio non è conoscibile né ora né in futuro, perché ogni creatura in quanto non può comprendere il lume infinito, è tenebra nei suoi confronti, e Dio è noto solo a se stesso” (13). Poiché l’Assoluto è inconoscibile ed inesprimibile l’uomo può dire di Dio solo “ciò che non è” rispetto al mondo, cioè possiamo solo negare – come fa il Pseudo Dionigi – che la “causa universale” abbia le qualità sensibili e intelligibili riscontrabili nel mondo (14). Sarebbe del tutto inadeguato esprimere l’essenza di Dio utilizzando attributi affermativi.

La Chiesa Cattolica non accetta questa posizione radicale perché ridurrebbe il suo Magistero che consiste nel dare ai testi rivelati l’interpretazione più adatta a suscitare nell’animo umano l’accettazione per fede di ciò che di misterioso e incomprensibile c’è in essi. E allora per spiegarsi il nascondimento divino preferisce ricorrere al rispetto che Dio avrebbe della libertà dell’uomo: se Dio manifestasse la sua presenza aldilà di ogni dubbio annullerebbe il valore della fede e della libertà umane. Il catechismo cattolico definisce la fede una virtù soprannaturale, grazie alla quale crediamo e aderiamo incondizionatamente a verità che si presentano come misteri superiori (ma non contrari) alla ragione. Credo quia absurdum est (Tertulliano). Questa è la condizione sine qua non per essere un cristiano. La fede, indirizzandosi a ciò che non si vede – Fides ergo est, quod non vides credere (Agostino) – non può non essere che una libera scelta, un libero fiducioso salto nel buio. Dio, nascondendosi dietro la “caligine”, vuole rispettare la libertà dell’uomo di scegliere il suo destino. Se Dio fosse una realtà percepibile come lo è il cielo o una montagna, l’ubbidienza dell’uomo sarebbe consequenziale, necessitata e non una libera sottomissione.
Ma questa libertà che viene data al credente è in effetti parziale, molto parziale, perché la fede è una grazia di Dio,  un dono che non dipende dalla volontà umana. Al cattolico, poi non è dato di interpretare da sé i fatti rivelati da Dio, in quanto solo la Chiesa ne è la depositaria  e l’unica interprete autorizzata. Insomma avere fede significa credere senza porsi domande, ovvero porsi domande per avere la conferma che l’uomo non è in grado di rispondere ad esse. Il merito della fede sussiste proprio nella mancanza di risposte chiare: Haec est enim laus fidei, si quod creditur non videtur (Agostino).

LA FILOSOFIA COSA CI SUGGERISCE SUL CONCETTO DI DIO?
La filosofia si è sempre occupata dell’origine e della struttura dell’idea che noi abbiamo di Dio, pervenendo a teorie anche radicalmente diverse tra loro. Noi, per chiarezza espositiva abbiamo raggruppato le varie posizioni in due grandi scuole: nella prima abbiamo inserito tutti coloro che considerano il concetto di Dio una umana creazione, nella seconda abbiamo inserito i pensatori che attribuiscono ad esso un’origine metafisica, esterna e indipendente dalla nostra ragione.

La prima corrente di pensiero, composta da scettici e materialisti (15), considera il concetto divino come punto di arrivo dell’evoluzione culturale dello spirito umano e ha i suoi massimi rappresentanti in David Hume (1711 – 1776), Auguste Comte (1798 - 1857 e Ludwig Feuerbach (1804 – 1872). Quest’ultimo spiegava l’esistenza in ogni luogo e in ogni tempo delle religioni come un’invenzione umana determinata da fattori psicologici. Egli, capovolgendo il rapporto idealistico Dio-uomo, sostiene che non Dio ha creato l’uomo, ma l’uomo ha creato Dio. L’uomo trasferisce a un essere immaginario (Dio), perfezionandole, le sue migliori qualità: “Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono… qualificazioni dell’essere umano”(16). Inizialmente l’uomo proietta se stesso in Dio inconsapevolmente, inconsciamente per cui, non rendendosi conto del processo che lo ha portato ad avere  questo concetto del divino, lo considera qualcosa di reale (ipostatizzazione) e ad esso si sottomette. E quanto più, in questo processo di alienazione, Dio viene arricchito di attributi tanto più l’uomo impoverisce se stesso, e alla fine: “Nulla è Dio di ciò che è l’uomo, nulla è l’uomo di ciò che è Dio. Dio è l’essere infinito, l’uomo l’essere finito; Dio perfetto, l’uomo imperfetto; Dio eterno, l’uomo perituro; Dio onnipotente, l’uomo impotente; Dio santo, l’uomo peccatore. Dio e l’uomo sono due estremi: Dio il polo positivo, assomma in sé tutto ciò che è reale, l’uomo il polo negativo, tutto ciò che è nullo” (17).
Karl Marx (1818 – 1883) condivise il discorso di Feuerbach sull’alienazione religiosa, ma non fu d’accordo con lui sulle cause che la producono. Infatti mentre Feuerbach individuò delle cause riconducibili alla natura umana (opposizione tra volere e potere; sentimento di dipendenza nei confronti della natura; rapporto individuo e specie), Marx indicò come causa primaria le ingiustizie sociali: il lavoratore prima di alienarsi in Dio si sente estraniato nella sua attività produttrice dove viene sfruttato dal capitalista. Pertanto solo distruggendo le strutture sociali che la producono sarà possibile eliminare l’alienazione religiosa.
Anche il padre della psichiatria, Sigmud Freud, considerò la religione un prodotto della mente umana, elaborando diverse ipotesi: in Totem e tabù sostiene che l’idea di Dio è frutto del desiderio umano di essere rassicurato in una situazione frustrante. In un altro saggio, Comportamenti ossessivi e pratiche religiose, considera l’idea di Dio come il prodotto di una “nevrosi ossessiva universale” sempre presente nell’umanità perché collegata a pulsioni istintive, prevalenti nella fase infantile dell’evoluzione psichica. Nell’opera L’avvenire di una illusione egli pone la religione come risposta alle nostre angosce esistenziali; infatti scrive che serve a “esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta con la morte, risarcirci per le sofferenze e per le privazioni imposte all’uomo dalla vita civile in comune”. Si tratta, comunque, di una illusione negativa che sarebbe bene eliminare servendosi della ragione.

Gli studiosi della seconda scuola partono da una convinzione diametralmente opposta: Dio, essere perfetto, ha creato l’uomo rendendolo parzialmente partecipe delle perfezioni divine. Di conseguenza il concetto che noi abbiamo di Dio è una delle conoscenze innate poste da Dio stesso nella nostra mente al momento della creazione.
I sostenitori di questa tesi sono chiamati in genere razionalisti perché assumono la ragione come unico principio di conoscenza e per questo escludono l’aiuto della rivelazione e della tradizione per arrivare a conoscere Dio.
Cartesio, che è nei tempi moderni il loro massimo rappresentante, sostiene che l’idea di Dio-essere-perfetto, intuitivamente avvertita come presente nella nostra mente,  non può essere un’idea “avventizia” (cioè non può derivare dalla nostra esperienza del mondo ove non esistono realtà perfette), né un’idea “fittizia” (cioè una invenzione della nostra mente, perché ciò che è imperfetto – la mente umana - non può produrre qualcosa di perfetto, neanche un’idea), quindi – conclude il filosofo francese - l’idea di Dio che scopriamo intuitivamente avere in noi è innata, come se Dio, creandoci,  avesse posto nella nostra mente un indelebile marchio di fabbrica. La presenza nella mente di ciascun uomo dell’ingenito concetto è la più convincente dimostrazione dell’esistenza di Dio. Inoltre – sempre secondo Cartesio - analizzando quest’idea possiamo appurare le qualità dell’Ente divino: Dio è una sostanza spirituale alla quale si addice ogni perfezione come l’onniscienza e l’onnipotenza; le cose materiali sono prodotte e dipendono dalla divina potenza.

Un grande psicanalista, discepolo di Freud, Carl Gustav Jung (1875 – 1961), riuscì a spiegare come le idee, che Cartesio avvertiva innate, siano in effetti un prodotto della mente umana.
Jung, studiando le allucinazioni e i sogni, notò che essi contenevano degli elementi che andavano aldilà dell’esperienza personale, come, ad esempio, gli incubi dei bambini per gli animali feroci dei quali non avevano mai avuto esperienza diretta. Inoltre, comparando miti e leggende delle culture più disparate, costatò l’esistenza di elementi comuni e identici, sebbene le popolazioni non avessero avuto rapporti tra loro per la distanza geografia e storica. Queste osservazioni portarono lo studioso svizzero a ritenere che ci sia nella struttura della nostra psiche, oltre alla coscienza e all’inconscio personale, anche un inconscio collettivo, inteso come l’insieme dei modi di pensare e di comportarsi che gli esseri umani ereditano dalle generazioni primitive.
Jung chiamò le immagini primordiali dell’inconscio collettivo “archetipi”; essi sono avvertiti da ciascun individuo come delle tendenze innate, non apprese, ma in realtà sono il frutto della ripetizione di situazioni identiche nel corso dello sviluppo dell’umanità, per cui: ciò che per l’individuo può essere innato non lo è per la specie.
Con questa fusione di ontogenesi e filogenesi, Jung vanificò il tentativo cartesiano di dimostrare l’esistenza di Dio, perché l’idea che abbiamo di Lui non è, in ultima istanza, innata.

SOLO CARTESIO HA TENTATO DI DIMOSTRARE  L’ESISTENZA DI DIO?
Tutti i filosofi si sono in qualche modo posti il problema dell’esistenza di Dio e della sua essenza. Il bisogno di costruire una “prova” razionale a sostegno   dell’esistenza di Dio non fu determinato dalla mancanza di fede, tanto è vero che questo sforzo si ebbe soprattutto nel medioevo quando la fede sovrabbondava e uomini santi come Anselmo D’Aosta e Tommaso D’Aquino s’impegnavano nella ricerca filosofica.
Fu proprio Anselmo D’Aosta nel 1077 ad accendere il moderno dibattito filosofico sulla possibile dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio che vedrà impegnati le migliori menti speculative sino alla fine del XVIII secolo, quando Emanuele Kant, nella Critica della Ragion Pura, dopo aver analizzato le principali “prove”, concluse che la metafisica non può essere una scienza perché priva di dati empirici, e che pertanto l’uomo non avesse la possibilità di poter affermare o negare razionalmente l’esistenza di Dio.
Dopo Kant, la filosofia rinuncia a dimostrare l’esistenza di Dio; una simile pretesa verrà considerata assurda o una “scemenza” - come ebbe a scrivere S. Kierkegaad nel 1844 - perché nel momento in cui si inizia una dimostrazione su Dio, già lo si è presupposto esistente: “altrimenti non avrei incominciato a dimostrarlo, perché si comprende facilmente che tutto ciò sarebbe impossibile se Dio non esistesse” (18). L’esistenza non si può dimostrare: “… non dimostro che esiste una pietra, ma che un qualcosa ch’esiste è una pietra; il tribunale non dimostra affatto ch’esistono criminali, ma che l’accusato – che certamente esiste – è un criminale” (19).                                                                                                           
Quasi un secolo dopo, M. Scheler ribadirà lo stesso concetto del filosofo danese, aggiungendo che Dio si può “trovare”, ma non dimostrare, e “solo chi ha trovato Dio può sentire la necessità di dimostrare l’esistenza.”, in quanto “tutto ciò che si sa su Dio si sa necessariamente allo stesso tempo attraverso Dio” (20).

Oggi la Chiesa Cattolica nel suo catechismo continua a citare la prova cosmologica:
 “La santa Chiesa, nostra madre, sostiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create” (Catechismo, par. 36). “partendo dal movimento e dal divenire, dalla contingenza, dall’ordine e dalla bellezza del mondo si può giungere a conoscere Dio come origine e fine dell’universo” (Catechismo, par. 32).

Ma sostanzialmente anche la Chiesa ha rinunciato a ogni dimostrazione preferendo fare appello all’analisi interiore, alla voce della coscienza e alla forza della Rivelazione divina, piuttosto che alle capacità razionali dell’uomo:
 “L’uomo con la sua apertura alla verità […] e la voce della coscienza […] percepisce segni della propria anima spirituale. […] L’uomo ha facoltà che lo rendono capace di conoscere l’esistenza di un Dio personale. Ma perché l’uomo possa entrare nella sua intimità, Dio ha voluto rivelarsi a lui e donargli la grazia di poter accogliere questa Rivelazione della fede” (Catechismo, par. 33, 35).

SE IL CONCETTO CHE ABBIAMO DI DIO  È FRUTTO DI UNA RIVELAZIONE, COME MAI NON È UNICO?
Se consideriamo le religioni che non si richiamano al Vecchio testamento riscontriamo delle sostanziali differenze concettuali - tra di loro e con la tradizione giudaica.
Lo Zoroastrismo ritiene che ci siano due divinità coeterne e in continua lotta tra di loro: il supremo dio Ahura Mazda, principio del bene, e Angra Mainyu, principio del male.
Nei testi rivelati degli Induisti si parla di un’entità primigenia (Brahman), ma anche di un nutrito gruppo di dei e di uomini santi e eroici che attraverso il rito e l’ascesi si possono rivelare ai fedeli.
I Buddisti credono che l’universo sia governato dalla legge eterna del compenso delle azioni (karman), legge che occupa il posto del Dio creatore e reggitore di altre religioni.
Ma anche tra le religioni che si richiamano allo stesso testo, si notano diversità e modifiche importanti nel corso del tempo: Abbiamo visto come il concetto arcaico del Dio ebraico si sia andato modificando con il trascorrere del tempo fino ad arrivare, nei tempi moderni, a liberare Jahweh di ogni carattere nazionale e a farne il dio di tutta l’umanità; abbiamo pure visto come abbia perso ogni connotazione antropomorfica a favore di una maggiore spiritualità e trascendenza, e come abbia dismesso l’aspetto severo del Dio giudice-castigatore per accentuare la sua naturale ed essenziale disposizione alla pietà e al perdono.
Adesso occupiamoci del Cristianesimo. Gesù non ha mai messo in discussione l’idea di Dio quale emerge dall’Antico Testamento, ma ne fa un essere molto più vicino al singolo uomo più di quanto l’abbiano ritenuto i Giudei. Ognuno di noi - sostiene il nazareno - non si deve preoccupare eccessivamente del domani; basta spendere il proprio tempo a cercare “prima di tutto il regno (di Dio) e la sua giustizia” (Mt. 6, 33) e Dio ci darà “per giunta” tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il pio giudeo vedeva in Dio un essere misericordioso, al quale importava il comportamento collettivo di tutto il popolo santo: la sua protezione o la sua ira non era determinata esclusivamente dal singolo individuo. Quello giudaico è un Dio reggitore che troneggia nei lontani cieli governando il mondo per mezzo degli angeli. Gesù invece ci insegna a guardare a Lui come a un padre che pieno d’amore provvede sollecito ai suoi figli:
Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Poiché chiunque chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa, verrà aperto. E qual è quell’uomo fra voi che darà una pietra a suo figlio che gli chiede del pane? O se chiede un pesce, gli dia una serpe? Se dunque voi, cattivi come siete, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre che è nei cieli concederà cose buone a colore che gliele chiedono! (Mt. 7, 7-11).

Simile a un padre, Dio è pronto a perdonare i nostri errori e i nostri peccati: basta un sincero pentimento per essere riammesso alla salvezza eterna. Dio è sempre pronto a perdonarci, ma noi dobbiamo fare altrettanto con il nostro prossimo. Per meritarci l’amore di Dio non basta ricambiare con lo stesso sentimento il nostro creatore, ma bisogna amare tutte le altre creature fino all’inverosimile, fino a porgere l’altra guancia. L’amore che Dio ci dà è gratuito e gratuitamente noi lo dobbiamo riversare su chi incrociamo nella nostra vita, come ci insegna la parabola del buon samaritano.
L’amore di Dio verso l’uomo, e dell’uomo verso Dio e verso i suoi simili, costituisce il cuore pulsante della predicazione di Gesù.
Anche nell’Antico Testamento si parla dell’amore come elemento della relazione Dio – uomo e uomo - uomo, ma non si può fare a meno di notare come i passi che esaltano questo nobile sentimento siano pochi e poco incisivi. Se si vanno a vedere i passi che segnalano l’amore di Dio verso le creature (15), si noterà come l’accento cada più sulla gelosia che sull’affetto e comunque si tratta di un amore limitato, quasi sempre, al popolo eletto e concesso come corrispettivo ad una retta osservanza dei comandamenti. Ancora meno numerosi sono i passi che riguardano l’amore dell’uomo verso Dio e verso il prossimo (16), e anch’essi legano l’amore alla attuazione degli adempimenti prescritti dalla legge.
Non c’è quindi da meravigliarsi se ai tempi di Gesù la religiosità ebraica fosse scaduta in un legalismo “che si sforza di conquistare la benevolenza di Dio attraverso l’osservanza meticolosa delle prescrizioni della legge” (17). Quando l’osservanza religiosa si riduce a un atto formale - quello che conta è ciò che si fa non come si fa - si perde anche il senso della obbedienza a Dio. “Ma la conseguenza più grave è che si corrompe così il motivo dell’azione morale. Non solo perché balza risolutamente in primo piano l’idea della retribuzione, ma anche perché – tratto caratteristico del giudaismo – l’obbedienza che l’uomo deve a Dio e all’istanza del bene viene intesa in senso puramente formale, cioè come obbedienza che soddisfa l’esigenza della lettera, che obbedisce a ciò che è comandato perché è comandato, senza chiedersi il perché, il senso del comando” (18). Contro questo formalismo si scaglia con veemenza Gesù. Attenzione però, egli non ha mai contestato la legge, ma il modo di osservarla dei suoi connazionali.
Il Dio di Gesù è senza dubbio il Dio dell’antico testamento ma il suo insegnamento contiene almeno tre elementi che rompono con la tradizione, ponendo in una luce diversa la figura del Creatore che si manifesta nei libri sacri:
-Primo elemento. Il rapporto uomo – dio non è più considerato un rapporto giuridico, ma un rapporto d’amore nel quale l’uomo si dona integralmente a Dio senza condizioni. La rigorosa obbedienza alla volontà divina prescinde dal premio e dalla punizione, ma deve essere uno slancio categorico e senza mezze misure, così per entrare nel Regno di Dio non basta aver osservato i precetti cultuali e rituali, ma bisogna anche spogliarsi dei beni mondani:
Ed ecco, gli si presentò un tale, dicendo: “Maestro, quale bene dovrò fare io per avere la vita eterna?” Gli rispose: “Perché m’interroghi riguardo al bene? Uno solo è buono, Dio. Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti”. “Quali?” gli domandò. E Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, e ama il prossimo tuo come te stesso”. E il giovane gli disse: “Tutto questo io l’ho osservato (sin da fanciullo): che altro mi manca?” Gesù gli rispose: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto hai,dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Ma il giovane, udite queste parole, se ne andò via rattristato, perché aveva molti beni (Mt 19, 15 – 22).
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La stessa inflessibilità Gesù mostra sul tema del divorzio perché esso va contro la volontà divina, per cui la tolleranza mostrata da Mosè su questo argomento non è accettabile:
Allora gli si presentarono dei Farisei e, per tentarlo, gli domandarono: “È permesso ad un uomo ripudiare la propria moglie per un motivo qualsiasi?” Ed egli rispose loro: “Non avete letto come il Creatore da principio li fece maschio e femmina?” e disse: “Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà con la moglie, e i due saranno una sola carne. Quindi non son più due, ma una sola carne. Dunque non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto”. “Ma perché allora”, gli replicano, “Mosè ha ordinato di dare alla donna il libello del ripudio e di rimandarla?” Rispose loro: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi permise di ripudiare le vostre mogli; ma da principio non fu così. Però io vi dico: chi rimanda la propria moglie, eccetto in caso di adulterio, e ne sposa un’altra, commette adulterio; e chi sposa la ripudiata, commette adulterio” (Dt 24,1).
Insomma di fronte ai Comandamenti è impossibile avere sconti, come quelli che gli ebrei si sono concessi a proposito dell’obbligo di onorare i genitori e che Gesù rinfaccia loro (Mc 7, 9 - 13). Ma anche la più meticolosa adempienza dei doveri che Dio ci ha prescritto non può soddisfare le aspettative di Dio, se manca la nostra intima partecipazione, la nostra convinta volontà. Dio non fa sconti e perciò chiede una obbedienza estrema e totale. Anche i più semplici gesti di devozione religiosa come le elemosine, le orazioni e i digiuni se non sono fatti con il cuore non hanno valore agli occhi di Dio (Mt 6, 2 –16). Ciò che conta non è tanto quello che si fa, ma come si fa. Dio guarda al di là delle nostre azioni e vede e giudica le nostre intenzioni. Egli vuole la nostra anima.

-Secondo elemento. Per Gesù, Dio non giudica collettivamente l’intero popolo, né le colpe di uno solo ricadono sopra la comunità, ma ogni singolo uomo, in quanto soggetto morale, è direttamente responsabile delle sue azioni e ne risponde personalmente davanti al Signore. Il giudizio divino, come il peccato e la morte, è ad personam. Solo chi è pronto a fare ogni sacrificio pur di mantenersi santo entrerà nel regno dei cieli:
Se la tua mano destra ti dà scandalo, tagliala. È meglio che tu entri monco nella vita che, con tutt’e due le mani, andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti dà scandalo, taglialo: è meglio che tu entri zoppo nella vita, che con tutt’e due i piedi esser gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti dà scandalo, levatelo: è meglio che tu entri con un occhio solo nel regno di Dio, che con tutt’e due, esser gettato nella Geenna, “dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9, 43 – 46).

-Terzo elemento. Il regno di Dio che s’istaurerà con la venuta del Messia perde, nelle parole di Gesù, ogni riferimento nazionalista, poiché non viene più descritto come il trionfo di Israele sui suoi nemici, ma come il trionfo di Dio sulle potenze sataniche che adesso dominano il mondo:
Il Figlio dell’uomo manderà i suoi Angeli, che toglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che hanno commesso l’iniquità, e li getteranno nella fornace ardente, ove sarà pianto e  stridor di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del loro Padre (Mt 13,41 – 43).

Il regno di Dio sarà un regno di santi: chiunque vi potrà accedere se, dopo essersi purificato con il pentimento dei propri peccati, saprà fare la volontà del padre celeste.
Ma malgrado queste novità interpretative portate avanti da Gesù, non si può dire che egli abbia alterato il concetto giudaico di Dio. Saranno i suoi seguaci di cultura ellenista a determinare una radicale trasformazione dell’idea veterotestamentaria di Dio con il dogma della trinità; ma del resto se non avessero affermato la divinità di Gesù, non sarebbe sorto il Cristianesimo come nuova religione, e il movimento ispirato da Gesù sarebbe rimasto una delle tante sette che animano il Giudaismo.




IL PUNTO SUL TERZO CAPITOLO

Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel regno dei cieli. (Matteo 5, 17 – 19)

Questo passo evangelico è uno dei pochi sui quali i critici siano d’accordo. Esso ci dice in modo inequivocabile che Gesù non si considerò il fondatore di una nuova religione, ma rimase nel solco della tradizione. Anche il fatto che egli abbia iniziato a predicare nelle sinagoghe dimostra la sua fedeltà alla legge antica.
La novità del suo messaggio consisteva nel considerare la religiosità come un fatto interiore che andasse anzitutto vissuto nel cuore di ciascuno, e nel ritenere che le pratiche esteriori avessero poco valore agli occhi di Dio. Su quest’ultimo punto egli si contrapponeva ai Farisei ritenendoli ipocriti e falsi per la loro ostentata osservanza della Legge. I Farisei, da parte loro, rinfacciavano a Gesù di non tenere nel dovuto conto le prescrizioni della legge non scritta sull’osservanza del sabato, sul rituale di purificazione, sul pagamento delle tasse a favore dei sacerdoti. Ma si trattavano di dispute che non mettevano in discussione la religione fondata da Mosè.
Il fatto che Gesù non voglia rompere con la tradizione giudaica spiegherebbe anche la sua renitenza a proclamare pubblicamente e senza mezzi termini di essere il Messia; i sinottici sono una dimostrazione di questa ritrosia, perché in essi solo due volte la sua persona è accostata all’atteso Messia; la prima volta per iniziativa di Pietro:
Poi Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; cammin facendo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» Essi risposero: «Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti.» Egli domandò loro: «E voi, chi dite che io sia?» E Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». Ed egli ordinò loro di non parlare di lui a nessuno (Marco 8, 27 – 30).

 

E la seconda volta, davanti al Sinedrio, quasi a sfidare i suoi giudici accusatori:

Appena fu giorno, gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti e gli scribi si riunirono, e lo condussero nel loro sinedrio, dicendo: «Se tu sei il Cristo, diccelo». Ma egli disse loro: «Anche se ve lo dicessi, non credereste; e se io vi facessi delle domande, non rispondereste. Ma da ora in avanti il Figlio dell'uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio».
E tutti dissero: «Sei tu, dunque, il Figlio di Dio?» Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono» (Luca 22, 66 – 70).

Tutti e due i passi sono, però, fortemente contestati dalla critica indipendente che li considera delle aggiunte successive. In effetti, malgrado il passaggio di Marco sopra riportato, neanche i discepoli più intimi di Gesù sembrano convinti al cento per cento che quell’uomo imprevedibile e un po’ misterioso fosse il Messia. Infatti se i discepoli fossero stati profondamente convinti che Gesù era il Messia non avrebbero dovuto farsi prendere dallo sconforto e dalla paura al momento dell’arresto del Maestro, quando era ancora possibile che il Gesù-Messia potesse venire fuori da quella situazione trionfando sui suoi nemici; la paura sarebbe stata giustificata solo all’atto della crocifissione. Invece vediamo che Pietro rinnegò l’amato Maestro, quando lo scontro con gli avversari era appena cominciato. Dov’era la fiducia che aveva nel suo Messia?
La condanna e la successiva crocifissione dovette fare crollare ogni loro illusione, tanto che gli undici apostoli accolgono la straordinaria notizia della resurrezione come se fosse inverosimile:
Questa andò ad annunziarlo a coloro che erano stati con lui, i quali facevano cordoglio e piangevano. Essi, udito che egli viveva ed era stato visto da lei, non lo credettero. Dopo questo, apparve in modo diverso a due di loro che erano in cammino verso i campi; e questi andarono ad annunziarlo agli altri; ma neppure a quelli credettero. Poi apparve agli undici mentre erano a tavola e li rimproverò della loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che l’avevano visto risuscitare (Marco 16,10 – 14).

Superata questa iniziale incredulità grazie anche alle apparizioni di Gesù, gli apostoli incominciarono a professare con forza e decisione la loro fede in Gesù quale Messia. Ma intendevano per Messia la figura di un uomo innalzato da Dio alla dignità divina:
Uomini d’Israele, udite queste parole: Gesù il Nazareno fu un uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e miracoli, che per mezzo di lui il Signore operò in mezzo a voi,come voi ben sapete; Dio, nel suo volere e nella sua provvidenza, ha permesso che egli vi fosse consegnato: e voi, per mano di empi senza legge, lo avete ucciso inchiodandolo al patibolo: Ma Iddio lo ha risuscitato liberandolo dalle doglie della morte; poiché non era possibile che la morte lo possedesse (Atti 2,  22 – 24).

Questa dottrina dell’esaltazione dell’uomo Gesù a Messia, sarà chiamata teoria adozionistica ed è conforme al concetto del Messia che le masse ebraiche si erano fatte. Però i Nazareni introdussero un particolare nuovo e inquietante: “il Messia non è più l’eroe potente e vittorioso ma assume significato e dignità solo nella sofferenza, nella morte sulla croce”.
Con le loro argomentazioni e la loro testimonianza, gli apostoli convertirono molti abitanti di Gerusalemme e molti pellegrini che arrivavano nella città in occasione delle feste: si creò ben presto una nutrita comunità guidata dai dodici apostoli e da Giacomo, fratello di Gesù. Le loro speciali credenze messianiche ed escatologiche non posero gli apostoli fuori dalla ortodossia giudaica, tanto che essi continuarono a frequentare le sinagoghe e a presentare il culto a Dio nel Tempio.
Proprio perché restavano nel solco della tradizione, essi rivolsero la loro propaganda soltanto ai Giudei; tuttavia   il Vangelo venne ben presto conosciuto anche da molti Gentili, attraverso gli Ebrei sparsi nel mondo; saranno questi pagani convertiti a fare del Cristianesimo una nuova religione. Essi nel recepire il messaggio di Gesù Cristo si allontanarono sempre più dalla tradizione religiosa ebraica, perché, provenendo dall’idolatria,  considerarono il Vangelo una novità assoluta e non una particolare interpretazione del giudaismo come, invece, pensavano i giudeo-cristiani di Gerusalemme.
Tutto ciò non avvenne senza un forte dibattito che vide coinvolti in primo piano gli apostoli che si divisero in due gruppi, uno conservatore che voleva che il Cristianesimo restasse una corrente del Giudaismo, e l’altro aperto alla mentalità ellenista e alle novità che questo comportava.
Il primo gruppo era rappresentato da Giacomo, fratello del Signore, divenuto ben presto capo molto ascoltato della chiesa di Gerusalemme. Egli si batté contro ogni scollamento tra Cristianesimo e Giudaismo, e, poiché non poteva impedire la conversione dei Gentili, pretendeva che essi si assoggettassero alla Legge scritta e alla tradizione degli Ebrei, ivi compreso la circoncisione; ciò era lo stesso che chiedere ai Gentili, che volessero seguire Gesù, di convertirsi al Giudaismo del quale il Cristianesimo era una setta.
A questa posizione ortodossa, sostenuta soprattutto dagli apostoli che operavano in Palestina, si opposero quelli che andavano evangelizzando i Gentili come Simon-Pietro e soprattutto Saul di Tarso. Essi alla chiusura nazionalista di Giacomo opponevano una concezione universalista della salvezza tramite Gesù Cristo:
Allora Pietro, cominciando a parlare, disse: “In verità comprendo che Dio non ha riguardi personali; ma che in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito. Questa è la parola che egli ha diretta ai figli d’Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo. Egli è il Signore di tutti.” (Atti 10, 34 – 36).

Tuttavia non fu Pietro a sostenere fino in fondo il discorso universalista per non mettersi contro i fratelli di Gerusalemme, bensì fu Saul (19) a diffondere più di ogni altro il nuovo messaggio di salvezza fuori dalla comunità israelita, dando al Cristianesimo quelle fondamenta dottrinarie che ancora oggi lo caratterizzano.

Il vangelo di Paolo poggia essenzialmente sull’equazione GESÙ = CRISTO = DIO. Gesù il Cristo è un essere divino, il figlio di Dio, generato dall’eternità del padre, egli esiste prima della creazione, e tutto ciò che esiste, è stato creato e continua a sussistere per mezzo di lui. Essendo della stessa sostanza del padre, a Cristo appartengono gli stessi attributi che sono di Dio come, ad esempio, l’onniscienza e l’onnipotenza.
Il Signore si è fatto uomo per riaprire all’uomo le porte del cielo che erano state chiuse da Dio dopo il peccato commesso da Adamo ed Eva. Gesù Cristo, morendo sulla croce, ha soddisfatto la giustizia divina, gravemente offesa dalla condotta peccaminosa dell’uomo; con il suo sacrificio ha riconciliato l’umanità con Dio:
Sicché, come per una sola colpa la condanna è venuta su tutti gli uomini, così per un solo atto di giustizia viene offerta a tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita (Romani 5, 18).
Per questa identificazione GESÙ = CRISTO = DIO, Paolo viene considerato da molti studiosi come il vero fondatore del Cristianesimo.
Egli si è impadronito del personaggio storico di Gesù e ne ha fatto il Cristo, emendando il suo insegnamento (di Gesù) degli elementi giudaici più vistosi e inserendovi credenze elleniche come l’idea orfica della salvezza dell’anima. In questa operazione la vita di Gesù rimane nello sfondo , sbiadisce, perde la sua importanza, quello che conta è il Cristo risorto; la Resurrezione è la prova palese della dignità messianica di Gesù. Per questo motivo le lettere di Paolo sono così povere di notizie storiche su Gesù, e formano invece un ricco trattato teologico sul Cristo. Dice il Guignebert: “Paolo ha sacrificato Gesù al Cristo, e lo ha fatto deliberatamente. […] Egli ha visto il Cristo glorificato, che non può somigliare al Galileo che i discepoli hanno conosciuto “nella carne” (Galati 1 11 – 18). […] Ecco perché egli non s’interessa effettivamente che alla dignità divina del Cristo, alla sua glorificazione, all’interpretazione misteriosofica della sua morte e della sua resurrezione. Quel che Gesù ha potuto dire e fare sulla terra è divenuto quasi indifferente a chi vede ormai in lui  <il Signore>, padrone del mondo”.
Paolo, sostenendo che Gesù Cristo non è un uomo che diventa Dio ma un Dio che diventa uomo, pone sul tappeto il problema del rapporto del Cristo con il Padre. Le teorie e le polemiche che su quest’argomento si svilupperanno per più di tre secoli sono davvero impressionanti sia per il numero di persone coinvolte sia per l’accanimento con il quale gli uni cercheranno di prevalere sugli altri. Ecco un quadro dell’intricato panorama dottrinario:

In una posizione molto radicale troviamo gli adozionisti, alcuni dei quali per salvaguardare il monoteismo, rigettavano il quarto Vangelo, sostenendo che Gesù fosse nato uomo e che solo al battesimo, quando lo Spirito santo era sceso su di lui, fosse divenuto il Cristo con poteri soprannaturali.

Nell’opposta, estrema, posizione possono essere collocati i docetisti i quali negavano la natura umana di Cristo fino a considerarne fittizia o apparente la passione e il sacrificio. Questa dottrina fu sostenuta dai cosiddetti gnostici cristiani che consideravano il Figlio un’emanazione dal Padre. Le numerose e sofisticate teorie elaborate dagli “gnostici” hanno in  comune l’intento di salvaguardare il monoteismo e di tutelare l’inviolabilità del padre-dio, asserendo che l’umanità di Cristo fosse solo apparente per cui Gesù non poté essere soggetto alle infermità e alle impurità della carne.
Anche molti “apologisti”, filosofi ellenisti che si proposero di difendere il Cristianesimo dagli attacchi degli intellettuali pagani, furono vicini al docetismo nel momento in cui sostenevano che Dio era troppo perfetto per calarsi nel mondo, e che il contatto tra Dio e il mondo avveniva tramite il Logos, “il quale come ragione divina era eternamente immanente in Dio, ed emanava da Dio prima ancora della creazione, affinché per suo mezzo il mondo potesse essere fatto” (20)

Volendo difendere in maniera assoluta il monoteismo, i monarchiani o modalisti rifiutavano la distinzione tra le tre persone, e alcuni di loro (i patripassiani) arrivarono ad ammettere che fu Dio stesso ad incarnarsi e a patire la crocifissione. “Lo stesso unico Dio era Padre e Figlio al tempo stesso, ora invisibile e ora visibile, ora non generato ed ora di nuovo nato dalla Vergine, ora impassibile ed immortale, ed ora sottoposto al dolore ed alla morte sulla croce” (21).
Quest’ultima dottrina fu combattuta dai subordinatisti che affermavano la distinzione fra le Persone e un rapporto gerarchico fra esse. Il loro più grande rappresentante fu Origene al quale si deve il primo grande sistema della filosofia cristiana.
Rifacendosi al neoplatonismo, Egli concepì Cristo come Logos, Ragione Universale emanata ovvero generata da Dio. Solo il Padre è aseità, un essere in sé e per sé; il Figlio è generato dall’eternità e quantunque della stessa essenza è distinto dal Padre. Al Figlio non appartiene l’aseità divina e per questo non è sullo stesso piano del Padre (che è nongenito), ma è un secondo Dio che riflette le qualità del Padre: Dio è il bene, la bontà, la vita, l’eternità; il Figlio riceve tutto dal  padre per cui, ad esempio, non è buono di una bontà propria ma riflette la bontà di Dio. Quanto allo Spirito, esso è stato creato dal Logos e quindi è inferiore al Figlio così come questi è inferiore al Padre.
Quando Costantino ebbe il dominio dell’oriente, trovò un paese attraversato da forti tensioni a causa dei contrasti religiosi: la popolazione era divisa in fazioni mentre i vescovi si scomunicavano tra loro e sinodi partigiani dichiaravano eretiche le opinioni degli avversari.
In quel momento la contrapposizione più lacerante aveva per oggetto la controversia ariana. Ario, presbitero di Alessandria, rifacendosi in parte a Origene e in parte agli adozionisti, sosteneva che il Figlio, dovendo la sua esistenza al Padre, non è Dio. Il Logos, secondo lui, era stato creato dal nulla come tutte le creature e quindi essendovi stato un tempo in cui non era, non può essere considerato eterno. Rigettando la teoria dell’emanazione, Ario affermava che il Figlio non era della stessa natura del padre.
La teoria di Ario fu rigettata dagli ortodossi che si battevano per l’uguaglianza ab aeterno delle tre Persone della Trinità. Nel 321 gli ortodossi guidati dal vescovo Alessandro organizzarono un sinodo per deporre Ario; la decisione, però, venne contestata da numerosi vescovi che simpatizzavano per lui.

Di fronte a questo subbuglio, l’Imperatore radunò un consiglio della Chiesa intera a Nicea, nelle vicinanze della residenza imperiale. Siamo nel 325.
Fortemente influenzato, nelle sue decisioni, dall’Imperatore, il Concilio riconfermò la deposizione di Ario e, per evitare che in futuro sorgessero delle controversie sullo stesso argomento, elaborò un simbolo di fede nel quale il Figlio è definito “Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, generato, non fatto, della stessa essenza col Padre”.
Ma tutto ciò non bastò a porre fine alle controversie: molti vescovi, che avevano firmato per ossequio all’Imperatore, non erano d’accordo sul termine homoousios (stessa persona) che si era utilizzato nel simbolo, perché tale termine sembrava dare ragione ai modalisti. Così si creò uno schieramento, guidato da Atanasio, che difendeva la formula di Nicea e uno schieramento, guidato da Eusebio, che premeva per una modifica in direzione ariana.
Non vale la pena seguire nei particolari queste lotte poco edificanti; diciamo solo che la teologia di Nicea finì col trionfare e che fu perfezionata elevando lo “Spirito Santo ad una uguale partecipazione della Trinità ipostatica” (22).
         
In conclusione il concetto trinitario che s’impose in modo definitivo viene catechisticamente riassunto così: “Dio è uno solo, ma in tre persone distinte e uguali, che sono la santissima trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Dire che sono distinte significa che in Dio una persona non è l’altra, pur essendo tutte e tre un Dio solo. Il Padre non procede da altra persona, ma da lui procedono le altre due. Il Figliuolo è generato dal Padre, ed è, insieme col Padre, principio dello Spirito Santo che appunto procede dal Padre e dal Figlio. Dire che sono uguali significa che le tre persone divine non sono tre dei, ma un Dio solo, in quanto sono uguali in tutto: nella natura o sostanza, nella volontà e nell’azione. Avendo in comune l’unica natura divina che è eterna tutte e tre le persone sono egualmente eterne e quindi il Padre da cui procedono le altre due non fu prima del Figlio e dello Spirito Santo” (23).
A chi protesta di non averci capito nulla, la Chiesa risponde che è ovvio che non possiamo comprendere nulla sulle tre persone divine, perché si tratta di un mistero e come tale di una verità superiore, anche se non contraria, alla ragione.
Nel mistero della fede conducono pure tutti gli altri problemi che hanno continuato ad agitare la storia del Cristianesimo: basta pensare al problema dell’incarnazione, a quello della grazia divina e della predestinazione, e soprattutto al problema del male che ha visto impegnati i più grandi filosofi di ogni tempo.




NOTE AL CAPITOLO TERZO
1) Esodo 33, 3.
2) Anche al di fuori del Pentateuco troviamo numerose conferme che, ai tempi di Mosè, la religione degli Ebrei fosse una monolatrica e non propriamente un monoteismo; così per fare qualche esempio, in Giudici 11, 24 –25, Jefte taglia corto con il re Ammon dicendogli che come lui possiede il territorio che il suo dio, Milcon, gli ha fatto conquistare, così gli Israeliani hanno le terre che hanno preso con l’aiuto del loro Signore Iddio.
3) Già Giuseppe Flavio nel I secolo sosteneva che il nome di Mosè fosse etimologicamente egiziano e significa bambino, discendente.
4) Sigmund Freud, Totem e tabù, Newton Compton Editori, Roma 1970, pag. 218.
5) Idem, pag. 218 –219.
6) “La religione totemica [la più antica delle religioni] è sorta dal senso di colpa dei figli, come un tentativo per acquietare questo sentimento e per ottenere la riconciliazione col padre ucciso, con un’ubbidienza postuma. Tutte le religioni successive sono altrettanti tentativi per risolvere lo stesso problema, e differiscono tra di loro per solo a seconda dello stato di civilizzazione in cuisono sorte e la strada seguita per trovare questa soluzione: ma tutte rappresentano delle reazioni contro il grande avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l’umanità” (Sigmund Freud, Totem e tabù, op. Cit., pag. 222).
7) “Così, garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli s’impegnano a non trattare mai uno di loro come essi tutti hanno trattato il padre. Escludono che la sorte toccata al padre possa ripetersi per uno di loro. Al divieto (di natura religiosa) di uccidere il totem, si aggiunge ormai quello (di natura sociale) del fratricidio. Passerà ancora molto tempo prima che questo divieto, scavalcando i limiti del clan, assuma la semplice e breve forma del comandamento ‘Non uccidere’. L’orda paterna è stata sostituita dal clan fraterno, fondato sui vincoli di sangue. La società si poggia su una colpa comune, su un crimine di cui tutti sono stati complici; la religione, sul senso di colpa e sul pentimento; la morale, sulla necessità di questa società, da una parte, sul bisogno di espiazione generato dal senso di colpa, dall’altra” (Sigmund Freud, Totem e tabù, op. Cit., pag. 223).
8) Y. H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud, Einaudi, Torino 1996, pag. 14.
9) In quel tempo Gesù prese a dire: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli scaltri e le hai rivelate ai semplici […] Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, né alcuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11, 25 – 27).

(10) “Per mezzo della ragione naturale, l’uomo può conoscere Dio con certezza a partire dalle sue opere. Ma esiste un altro ordine di conoscenza a cui l’uomo non può affatto arrivare con le sue proprie forze, quello della Rivelazione divina [Cf Concilio Vaticano I, Denz.-Schonm.; 3015]. Per una decisione del tutto libera, Dio si rivela e si dona all’uomo svelando il suo Mistero, il suo disegno di benevolenza prestabilito da tutta l’eternità in Cristo a favore di tutti gli uomini. Egli rivela pienamente il suo disegno inviando il suo Figlio prediletto, nostro Signore Gesù Cristo, e lo Spirito Santo” (Catechismo 50) .

11) “Rivelando il suo Nome misterioso di YHWH, ‘Io sono colui che È’ oppure ‘Io sono colui che Sono’ o anche ‘Io sono chi Io sono’, Dio dice che egli è e con quale nome lo si deve chiamare. Questo nome divino è misterioso come Dio è Mistero. Ad un tempo è un Nome rivelato e quasi il rifiuto di un nome; proprio per questo esprime, come meglio non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo comprendere o dire: egli è il ‘Dio nascosto’ (Is 45, 15), il suo nome è ineffabile, [cf. Gdc 13, 18] ed è il Dio che si fa vicino agli uomini” (Catechismo, par. 206).
           
12) V. Messori, Ipotesi su Gesù, S.E.I., Torino,1976, pag. 39.
13) Pighini – Vannucci, Interroghiamo i Filosofi, Canova editrice, Treviso 1999, pag.88.
14) cf  IN TESTI E CONTESTI
15) Es 20,6; Dt 4,25 o 6,15 o 7,8; Gs 24,19; Pro 8,17; Ecli 4,18; Ger 31,3.
16) Gn 22,2; Dt 5,10 o 6,5 o 10,2; Gs 22,5; Pro 14, 21; Ecli 7,22 o 17,12.
17) R. Bultman, Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1985, pag. 21.
18) Idem, pag. 21
19) Saul, nato nei primi anni dell’era volgare a tarso in Cilicia (atti 9, 30) da giudei della tribù di Beniamino, ebbe la cittadinanza romana e per questo è più conosciuto col nome latino di Paolo. egli fu educato a Gerusalemme nella scuola rabbinica di  Gamaliel.  L’educazione ricevuta lo rese un ardente fariseo e per questo si impegnò con animosità contro il cristianesimo nascente:

Saul intanto devastava la chiesa, entrando di casa in casa; e trascinando via uomini e donne, li metteva in prigione (atti 8, 3).

Questa sua azione di repressione contro i seguaci del nazareno durò finché Gesù Cristo apparendogli sulla via per damasco – dove paolo era diretto per estendere anche lì la persecuzione - non l’ebbe trasformato in zelante apostolo del suo vangelo. Anche se non era uno dei dodici, Paolo qualificò sempre se stesso con il titolo di apostolo, sostenendo che era stato preposto a questo ufficio dallo stesso Gesù Cristo(da notare che il titolo Cristo nelle sue lettere è usato sempre come secondo nome di Gesù), quando gli era apparso:

Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato dal signore ad essere apostolo,scelto per annunziare il vangelo di Dio,promesso già nelle sacre scritture per mezzo dei suoi profeti (romani 1, 1 – 2).

E siccome il suo messaggio era in parecchi punti diverso da quello che si predicava in Gerusalemme, egli si difendeva asserendo che gli era stato rivelato direttamente da Gesù Cristo:

Vi dichiaro apertamente, o fratelli, che il vangelo da me predicato non viene dall’uomo; perché io non l’ho affatto ricevuto, né imparato da un uomo,ma per rivelazione di Gesù Cristo (Galati 1, 11 – 12). 

I viaggi missionari di Paolo si svolsero tutti fuori della  Palestina; e siccome rivolgeva il suo insegnamento, oltre agli ebrei emigrati, principalmente ai gentili adattò la sua dottrina alla mentalità e alla sensibilità di quest’ultimi (cfr. Efesini cap. 3). Così egli finì col sviluppare delle idee che non erano perfettamente in linea con quello che andavano dicendo gli altri apostoli.
20) G. F. Moore, Il Cristianesimo, Laterza, Bari 1964, pag. 70.
21) Idem pag.73.
22) Idem pag. 96.

23) cfr in Catechismo della Dottrina Cristiana, S.E.I., Torino 1947.

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