Alberto Di Girolamo
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO
GIUDAICO-CRISTIANO
CAPITOLO TERZO
LA NASCITA DEL MONOTEISMO
COME VIENE RAPPRESENTATO DIO, NELL’A.T.?
Nell’A.T. ci imbattiamo in numerosi attributi che adornano
Dio e ne precisano il concetto; quelli più significativi ce lo descrivono come:
-
ONNIPOTENTE = può fare tutto ciò che vuole;
-
UNICO = non ci sono altre divinità;
-
PURISSIMO SPIRITO = non ha corpo e quindi non è percepibile dai
sensi;
-
IMMENSO =
onnipresente in cielo in terra e in ogni luogo;
-
ETERNO = è
sempre stato e sempre sarà;
-
ONNISCIENTE =
conosce tutto: il reale, il possibile e l’immaginario;
-
VERITÀ = non
può ingannare;
- VOLONTÀ LIBERA = non esiste nulla
di esterno che ne condizioni le decisioni;
-
GIUSTIZIA INFINITA
= premia e castiga con equità;
- TRASCENDENTE = aldilà di tutte le cose mondane,
oltrepassa ogni determinazione e
riferimento per cui l’uomo può averne conoscenza solo per mezzo della Rivelazione;
-
PROVVIDENZA = ha
cura di ciò che crea, è Signore della storia;
-
MISERICORDIOSO = pietoso, soccorritore, pronto a perdonare;
-
PERFETTO = immutabile, senza limiti e senza difetti.
Il primo attributo nel quale
ci imbattiamo, nella prima pagina del primo libro dell’A.T., è la potenza
creatrice di Dio; l’unicità, che abbiamo elencato come secondo attributo, è
affermata per la prima volta in Es 3, 15; mentre ci imbattiamo nella sua
immensità in 1Re 8, 27. Insomma il concetto di Dio quale emerge dal quadro
sopraesposto non è mai presentato in modo globale, perché i vari attributi sono
sparsi nei vari libri che – come si sa - furono scritti in tempi successivi. Questo
fatto ha avuto due spiegazioni: quella dei religiosi che sostengono che Dio
abbia preferito rivelarsi in modo progressivo, per adeguare lo svelamento di sé
alle capacità mentali dell’uomo; e quella dei critici indipendenti per i quali
l’aggiunta graduale di nuovi elementi distintivi della natura divina dimostra
che la religione ebraica abbia avuto uno storico sviluppo, come tutte le altre
religioni comparse sul nostro pianeta.
SI PUÒ STUDIARE LA RELIGIONE
EBRAICA ALLA STREGUA DELLE ALTRE RELIGIONI CHE SI SONO AFFACCIATE NELLA STORIA?
Ciò è stato già fatto da quegli studiosi laici che hanno affrontato
l’argomento senza preconcetti. Dopo aver messo in discussione la tradizionale
convinzione di un Pentateuco scritto da Mosè su ispirazione divina, la critica
testuale procedette con consequenzialità a studiare la religione ebraica come
il risultato di un processo evolutivo storico-culturale che era partito (siamo
intorno al sec. XX a. C.) da una religione tribale per approdare con i profeti
(e siamo intorno all’VIII sec. A. C.) a un monoteismo universale (nel quale
però Israele continuava ad avere sempre una posizione privilegiata).
Leggendo i libri del Pentateuco appare chiaro ed evidente che il popolo
d’Israele, malgrado sia stato testimone e destinatario di tanti prodigi divini,
non riesce a essere fedele in modo esclusivo a Jahweh, il che significa – confermando
la tesi storica - che in quel momento l’idea di un dio unico non si era ancora
del tutto consolidata nella loro cultura religiosa. Né le minacce né le
punizioni né le blandizie delle belle promesse riescono a tenere lontano dal
peccato idolatrico quel “popolo di dura cervice” (1) come lo chiama Dio. Il
Pentateuco ha per oggetto la storia di questo incostante rapporto tra
L’israelita e il suo Dio; nella Bibbia non ci sono altre spiegazioni agli
avvenimenti narrati: quando il popolo si adegua alla volontà divina, tutte le
cose gli vanno bene, ma se il comportamento della gente non risponde alle
aspettative del Signore allora sono guai, perché, implacabile, arriva la
punizione sotto forma di sconfitta militare o di terribile pestilenza.
Fortunatamente c’è sempre qualcuno che mantiene buoni rapporti con Dio, così si
può sapere il motivo della sua ira e porvi rimedio in modo che la vita proceda
per il suo giusto verso.
Questa impressione generale di un politeismo residuo presso la
popolazione ebraica che vagava nel deserto è, del resto, confermata da una
serie di passi che non lasciano dubbi sul fatto che gli Israeliti dei tempi più
antichi ammettessero l’esistenza di più divinità tra le quali emergeva Jahweh,
il loro dio nazionale, che li proteggeva dai popoli nemici i quali, a loro
volta, avevano i loro dei protettori (vedi Genesi 6; Esodo 15, 11/ 18,
11; Deuteronomio 4, 7; Levitico16, 6) (2).
L’esame testuale ha portato molti storici alla convinzione che il
monoteismo ebraico, codificato durante l’esodo, è il risultato di uno sviluppo
che ha le sue radici nella terra d’origine di quegli schiavi in fuga, cioè
nella terra dei Faraoni, visto che Mosè e il suo popolo provenivano da lì. E in
effetti, i sacerdoti egizi, nel corso dei secoli, avevano trasformato il
politeismo in enoteismo, avevano cioè collocato tutti gli dei in un sistema di
relazioni in modo da attribuire una posizione di privilegio a un solo dio pur
non arrivando a negare gli altri. Un altro passo verso un vero e proprio
monoteismo fu fatto nel XIV sec. A. C. dal re Amenophis IV (1372-1355) che
impose una nuova religione di stato la quale 1) ammetteva il culto di un solo
dio, Aton, il disco solare che manda i suoi raggi benefici sulla terra; 2)
rifiutava l’antropomorfismo e la magia; 3) negava la vita dopo la morte. Il
Faraone per devozione all’unico dio cambiò il suo nome in Ikhnaton e compose
personalmente degli inni, come l’inno al Sole che influenzerà il salmo
104.
Spinto dal suo fanatismo, il re cercò di imporre con la forza la nuova
religione e cancellò dai templi ogni traccia di quella vecchia, ma questi
provvedimenti non bastarono a rendere duratura la riforma religiosa. Subito
dopo la sua morte, il nuovo faraone Tutanchamon restaurò l’antico culto di
Amon, ridando ai sacerdoti degli antichi dei i loro privilegi e il loro potere;
allora, per evitare le inevitabili ritorsioni, i monoteisti guidati da Mosè
(3), un nobile sacerdote di Aton, si unirono a una tribù semitica, che viveva
oppressa in Egitto, e tutti insieme riuscirono a fuggire nella penisola del
Sinai. Mosè e gli altri monoteisti resero la loro religione ancora più
spiritualizzata, privandola di ogni immagine, e cercarono di convertire al loro
dio unico i loro compagni semiti, ma quella rozza gente non riuscì ad aderire
totalmente all’idea di una divinità così astratta, da non essere
rappresentabile con un idolo, per cui non riusciva a stare lontano dall’idolatria
anche se poi se ne pentiva, quando veniva aspramente biasimata da Mosè. Questa
ipotesi storica su Mosè fu ripresa da Freud e rivisitata, alla luce delle sue
teorie psicoanalitiche, nell’opera L’Uomo Mosé e la religione monoteistica
(1934).
Secondo Freud, gli Ebrei, stanchi ed esasperati per la lunga permanenza
nel deserto si ribellarono contro Mosè e arrivarono a ucciderlo. Il ricordo di
quell’assassinio fu rimosso e cacciato nell’inconscio collettivo, ma, ai tempi
dei profeti, si verificò il “ritorno del rimosso”, l’insegnamento del capo
ucciso, riemerse alla luce della coscienza, sotto forma di rivelazioni da parte
di Yahwèh, un temuto dio dei vulcani venerato dalle tribù semitiche stanziate
nel territorio di Madian con le quali gli israeliani si erano fusi dopo la morte
di Mosè. In altre parole gli insegnamenti di Mosè – primo fra tutto l’uso di
distinguersi dagli altri popoli per la pratica egizia della circoncisione –
sempre presenti nella coscienza popolare in forma più o meno velata,
lentamente, attraverso i secoli, finirono col trionfare, e così le qualità
spirituali e universali del Dio di Mosè si riaffermarono come attributi di quel
Yahwèh che nel frattempo era stato adottato come dio nazionale.
Nella sua ricostruzione dell’origine del Giudaismo, Freud applica allo
specifico caso ebraico la teoria illustrata in Totem e Tabù per spiegare
in genere l’origine della religione e della civiltà. Secondo questa teoria,
nella notte dei tempi gli uomini vivevano in piccole orde – ipotesi che
aveva formulato Charles Darwin osservando le abitudini di vita delle scimmie
superiori – ciascuna delle quali era dominata da “un padre violento, geloso,
che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli man mano che crescono”
(4). In questa situazione di soggezione, i figli maschi potevano accoppiarsi al
più con qualche femmina prigioniera o di passaggio, ma in genere ripiegavano su
rapporti omosessuali; questa situazione durò finché, un giorno, spinti dalla
loro sessualità repressa, essi unirono le loro forze per eliminare il padre:
I fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso e mangiato il padre,
ponendo fine all’orda paterna. Una volta riunitisi si sono fatti audaci e sono
stati in grado di realizzare ciò che ciascuno di loro, isolatamente sarebbe
stato incapace di fare […] Che essi abbiano mangiato il cadavere del padre non
ci stupisce, dato che si tratta di primitivi cannibali. Il violento progenitore
costituiva certamente il modello invidiato e temuto di ciascuno dei membri di
questa associazione fraterna. Essi realizzavano, con l’atto del pasto, la loro
identificazione con lui, ciascuno si appropriava di parte della sua forza (5).
I figli avevano sempre
provato nei confronti del padre-padrone due sentimenti contraddittori e
ambivalenti: odio e amore. Dopo aver “placato il loro odio” attraverso il
delitto, i sentimenti di affetto e di ammirazione diventarono prevalenti,
producendo il pentimento e un insopportabile senso di colpa “sentito
collettivamente”. Questo rimorso inconscio segnò la storia dell’umanità con 1) la
deificazione del padre (6). Per liberarsi del loro senso di colpa i figli
reintegrano il padre nella sua autorità, in quest’operazione nostalgica il
padre perde tutte quelle negatività per le quali era stato ucciso e diventa la
figura benevola e potente di un Dio; 2) il divieto del fratricidio (7). La
nuova società, basata sui due tabù legati al complesso di Edipo,
l’omicidio e l’incesto, nasce sia per evitare uno stato di homo homini lupus
nel quale nessuno dei fratelli ha la forza di imporsi agli altri, sia per evitare
che un delitto simile a quello che loro avevano commesso potesse in futuro
ripetersi.
Freud non porta a sostegno
della sua teoria prove storiche inconfutabili, non è possibile per il semplice
fatto che non ve ne sono; il suo vuole essere un ragionamento, probabile e
verosimile, conforme ai dati della ricerca psicoanalitica: egli parte dalla
conclusione che la vita psichica dei popoli come del singolo individuo si
potesse spiegare partendo dal rapporto ambivalente con il padre, e pertanto anche
il sentimento religioso in genere, nonché
la vicenda di Mosè e, con qualche variante, la crocifissione di Gesù
possono avere una spiegazione coerente con il complesso di Edipo. “Nel
complesso di Edipo e nel ‘ritorno del rimosso ’ Freud aveva trovato dei
principi integrativi mediante i quali, in maniera per lui stesso imprevedibile,
tutti i pezzi del rompicapo si erano incastrati come per magia, finendo
addirittura con il rinforzarsi a vicenda: dalla psicologia dell’individuo alla
psicologia delle masse, dalla psicologia alla storia, dalla storia ebraica
indietro fino alla preistoria e in avanti fino alle origini del Cristianesimo e
ai meccanismi dell’antisemitismo” (8).
QUALI ARGOMENTI CONTRAPPONE LA
POSIZIONE CONFESSIONALE?
I
religiosi pongono alla base della conoscenza di Dio i testi rivelati che sono
considerati anche la prova decisiva della sua esistenza. Secondo questi
pensatori l’uomo non avrebbe potuto elaborare l’idea di Dio se Dio stesso non
si fosse rivelato in qualche modo a lui. La rivelazione infrange la
trascendenza divina:
Con la sua Rivelazione “Dio
invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si
intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé” [Conc. Ecum.
Vat. II, Dei Verbum]. La risposta adeguata a questo invito è la fede (Catechismo, par.142) .
L’essere
eterno si rivela all’uomo per il suo bene, per la sua salvezza. Infatti, anche
se, con la sua intelligenza, l’uomo potesse arrivare ad avere una qualche idea
di Dio, questa conoscenza naturale non basterebbe alla salvezza della nostra
anima, perché resteremmo nell’ambito delle congetture sulla natura e sulla
volontà dell’Essere eterno. Seguendo invece la Rivelazione siamo sicuri di fare
la volontà di Dio apportatrice di beatitudine. La Chiesa Cattolica sostiene che
i libri che contengono la Rivelazione hanno, in ultima istanza, Dio per autore
e che gli agiografi (autori umani) si limitano a riportare fedelmente ciò che
vuole il loro ispiratore. Quindi: di Dio noi conosciamo ciò che Lui stesso ha
voluto rivelare.
INSOMMA SIAMO DI FRONTE A UN DIO
MISTERIOSO, “DEUS ABSCONDITUS”, MALGRADO
LA RIVELAZIONE?
Proprio
così. L’uomo conosce molte cose su Dio, ma non tutto.
Il
concetto di un Dio nascosto è già presente nel Vecchio Testamento, dove vengono
messe in bocca a Yahwèh queste parole:
Io abito nella caligine(1 Re, 8).
E
il profeta Isaia esclama:
Si, tu sei un Dio che ti nascondi
O Dio d’Israele, o Salvatore (Isaia,
XLV, 15).
L’idea
di un Dio che mostra solo una faccia di se stesso, mentre l’altra rimane
immersa nel buio del mistero fu ripresa dal Cristianesimo (9)
e utilizzata per accrescere il valore dottrinale e politico della Chiesa che si
è posta come tramite tra il fedele e Cristo e come unica depositaria ed
interprete autorizzata della parola di Dio. Ai fedeli non rimane altro che
accogliere “con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati,
sotto varie forme, dai Pastori” (Catechismo, par. 87). La Chiesa ha amato
sempre pontificare all’ombra del mistero preferendo la fede cieca alla luce
della ragione. La speculazione razionale è stata tollerata finché tornava utile
alla dottrina ufficiale ed è stata condannata e disprezzata quando, sostenendo
che si potesse dubitare di ciò che non appare alla mente in modo chiaro e
distinto, ha cercato di esorcizzare la paura del mistero divino. Il dubbio
speculativo sui misteri divini non è ammesso dalla Chiesa, perché contrario al
concetto di fede che consiste in una accettazione cieca e incondizionata
dell’inspiegabile:
Con la fede l’uomo sottomette
pienamente a Dio la propria intelligenza e la propria volontà. Con tutto il suo
essere l’uomo dà il proprio assenso a Dio rivelatore [cf. Conc. Ecum. Vat. II,
Dei Verbum, 2]. La Sacra Scrittura chiama “obbedienza della fede” questa
risposta dell’uomo a Dio che si rivela [cf. Rm 1,5; Rm 16,26] (Catechismo, par.
143).
La
Chiesa pur parlando di una rivelazione piena (10), della
quale essa sola ne è la depositaria, non rinuncia ad affermare con forza
la ineffabilità, l’incomprensibilità, l’invisibilità e l’inafferrabilità di Dio
(11).
Gli
scrittori cattolici hanno spiegato e giustificato il concetto del “Dio
nascosto” con diversi argomenti: mettendo il nascondimento alla base di una
libera fede (12); colpevolizzando ancora una volta l’uomo che non è stato mai
degno di ricevere una totale rivelazione di Dio; mortificando le umane facoltà
intellettive con la trita tesi che la natura infinita di Dio non può essere
compresa fino in fondo dal limitato intelletto umano.
Quest’ultimo
argomento ha radici antiche: già con il neoplatonico (Plotino III sec.) si era
affermata quella teologia negativa che avrà uno dei suoi massimi rappresentanti
in Nicola Cusano. Quest’ultimo la chiamerà “dotta ignoranza”, perché “secondo
questa teologia, Dio non è conoscibile né ora né in futuro, perché ogni
creatura in quanto non può comprendere il lume infinito, è tenebra nei suoi
confronti, e Dio è noto solo a se stesso” (13). Poiché l’Assoluto è
inconoscibile ed inesprimibile l’uomo può dire di Dio solo “ciò che non è”
rispetto al mondo, cioè possiamo solo negare – come fa il Pseudo Dionigi – che
la “causa universale” abbia le qualità sensibili e intelligibili riscontrabili
nel mondo (14). Sarebbe del tutto inadeguato esprimere l’essenza di Dio
utilizzando attributi affermativi.
La
Chiesa Cattolica non accetta questa posizione radicale perché ridurrebbe il suo
Magistero che consiste nel dare ai testi rivelati l’interpretazione più adatta
a suscitare nell’animo umano l’accettazione per fede di ciò che di misterioso e
incomprensibile c’è in essi. E allora per spiegarsi il nascondimento divino
preferisce ricorrere al rispetto che Dio avrebbe della libertà dell’uomo: se
Dio manifestasse la sua presenza aldilà di ogni dubbio annullerebbe il valore
della fede e della libertà umane. Il catechismo cattolico definisce la fede una
virtù soprannaturale, grazie alla quale crediamo e aderiamo incondizionatamente
a verità che si presentano come misteri superiori (ma non contrari) alla
ragione. Credo quia absurdum est (Tertulliano). Questa è la condizione sine
qua non per essere un cristiano. La fede, indirizzandosi a ciò che
non si vede – Fides ergo est, quod non vides credere (Agostino) – non
può non essere che una libera scelta, un libero fiducioso salto nel buio. Dio,
nascondendosi dietro la “caligine”, vuole rispettare la libertà
dell’uomo di scegliere il suo destino. Se Dio fosse una realtà percepibile come
lo è il cielo o una montagna, l’ubbidienza dell’uomo sarebbe consequenziale,
necessitata e non una libera sottomissione.
Ma
questa libertà che viene data al credente è in effetti parziale, molto
parziale, perché la fede è una grazia di Dio,
un dono che non dipende dalla volontà umana. Al cattolico, poi non è
dato di interpretare da sé i fatti rivelati da Dio, in quanto solo la Chiesa ne
è la depositaria e l’unica interprete
autorizzata. Insomma avere fede significa credere senza porsi domande, ovvero
porsi domande per avere la conferma che l’uomo non è in grado di rispondere ad
esse. Il merito della fede sussiste proprio nella mancanza di risposte chiare: Haec
est enim laus fidei, si quod creditur non videtur (Agostino).
LA FILOSOFIA COSA CI SUGGERISCE SUL
CONCETTO DI DIO?
La
filosofia si è sempre occupata dell’origine e della struttura dell’idea che noi
abbiamo di Dio, pervenendo a teorie anche radicalmente diverse tra loro. Noi,
per chiarezza espositiva abbiamo raggruppato le varie posizioni in due grandi
scuole: nella prima abbiamo inserito tutti coloro che considerano il concetto
di Dio una umana creazione, nella seconda abbiamo inserito i pensatori che
attribuiscono ad esso un’origine metafisica, esterna e indipendente dalla
nostra ragione.
La prima corrente di pensiero, composta
da scettici e materialisti (15), considera il concetto divino come punto di arrivo
dell’evoluzione culturale dello spirito umano e ha i suoi massimi
rappresentanti in David Hume (1711 – 1776), Auguste Comte (1798 - 1857 e Ludwig
Feuerbach (1804 – 1872). Quest’ultimo spiegava l’esistenza in ogni luogo e in
ogni tempo delle religioni come un’invenzione umana determinata da fattori
psicologici. Egli, capovolgendo il rapporto idealistico Dio-uomo, sostiene che
non Dio ha creato l’uomo, ma l’uomo ha creato Dio. L’uomo trasferisce a un
essere immaginario (Dio), perfezionandole, le sue migliori qualità: “Tutte le
qualificazioni dell’essere divino sono… qualificazioni dell’essere umano”(16).
Inizialmente l’uomo proietta se stesso in Dio inconsapevolmente, inconsciamente
per cui, non rendendosi conto del processo che lo ha portato ad
avere questo concetto del divino, lo
considera qualcosa di reale (ipostatizzazione) e ad esso si sottomette. E
quanto più, in questo processo di alienazione, Dio viene arricchito di attributi
tanto più l’uomo impoverisce se stesso, e alla fine: “Nulla è Dio di ciò che è
l’uomo, nulla è l’uomo di ciò che è Dio. Dio è l’essere infinito, l’uomo
l’essere finito; Dio perfetto, l’uomo imperfetto; Dio eterno, l’uomo perituro;
Dio onnipotente, l’uomo impotente; Dio santo, l’uomo peccatore. Dio e l’uomo
sono due estremi: Dio il polo positivo, assomma in sé tutto ciò che è reale,
l’uomo il polo negativo, tutto ciò che è nullo” (17).
Karl Marx (1818 – 1883) condivise il discorso di Feuerbach
sull’alienazione religiosa, ma non fu d’accordo con lui sulle cause che la
producono. Infatti mentre Feuerbach individuò delle cause riconducibili alla
natura umana (opposizione tra volere e potere; sentimento di dipendenza nei
confronti della natura; rapporto individuo e specie),
Marx indicò come causa primaria le ingiustizie sociali: il lavoratore prima di
alienarsi in Dio si sente estraniato nella sua attività produttrice dove viene
sfruttato dal capitalista. Pertanto solo distruggendo le
strutture sociali che la producono sarà possibile eliminare l’alienazione
religiosa.
Anche il padre della psichiatria, Sigmud Freud, considerò la
religione un prodotto della mente umana, elaborando diverse ipotesi: in Totem
e tabù sostiene che l’idea di Dio è frutto del desiderio umano di essere
rassicurato in una situazione frustrante. In un altro saggio, Comportamenti
ossessivi e pratiche religiose, considera l’idea di Dio come il
prodotto di una “nevrosi ossessiva universale” sempre presente nell’umanità
perché collegata a pulsioni istintive, prevalenti nella fase infantile
dell’evoluzione psichica. Nell’opera L’avvenire di una illusione egli
pone la religione come risposta alle nostre angosce esistenziali; infatti
scrive che serve a “esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la
crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta con la morte, risarcirci per
le sofferenze e per le privazioni imposte all’uomo dalla vita civile in
comune”. Si tratta, comunque, di una illusione negativa che sarebbe bene
eliminare servendosi della ragione.
Gli
studiosi della seconda scuola partono da una convinzione
diametralmente opposta: Dio, essere perfetto, ha creato l’uomo rendendolo
parzialmente partecipe delle perfezioni divine. Di conseguenza il concetto che
noi abbiamo di Dio è una delle conoscenze innate poste da Dio stesso nella
nostra mente al momento della creazione.
I sostenitori di questa tesi sono chiamati in genere razionalisti
perché assumono la ragione come unico principio di conoscenza e per questo
escludono l’aiuto della rivelazione e della tradizione per arrivare a conoscere
Dio.
Cartesio, che è nei tempi moderni il loro massimo
rappresentante, sostiene che l’idea di Dio-essere-perfetto, intuitivamente avvertita
come presente nella nostra mente, non
può essere un’idea “avventizia” (cioè non può derivare dalla nostra esperienza
del mondo ove non esistono realtà perfette), né un’idea “fittizia” (cioè una
invenzione della nostra mente, perché ciò che è imperfetto – la mente umana -
non può produrre qualcosa di perfetto, neanche un’idea), quindi – conclude il
filosofo francese - l’idea di Dio che scopriamo intuitivamente avere in noi è
innata, come se Dio, creandoci, avesse
posto nella nostra mente un indelebile marchio di fabbrica. La presenza nella
mente di ciascun uomo dell’ingenito concetto è la più convincente dimostrazione
dell’esistenza di Dio. Inoltre – sempre secondo Cartesio - analizzando
quest’idea possiamo appurare le qualità dell’Ente divino: Dio è una sostanza
spirituale alla quale si addice ogni perfezione come l’onniscienza e
l’onnipotenza; le cose materiali sono prodotte e dipendono dalla divina
potenza.
Un grande psicanalista, discepolo di Freud, Carl Gustav Jung
(1875 – 1961), riuscì a spiegare come le idee, che Cartesio avvertiva innate,
siano in effetti un prodotto della mente umana.
Jung, studiando le allucinazioni e i sogni, notò che essi
contenevano degli elementi che andavano aldilà dell’esperienza personale, come,
ad esempio, gli incubi dei bambini per gli animali feroci dei quali non avevano
mai avuto esperienza diretta. Inoltre, comparando miti e leggende delle culture
più disparate, costatò l’esistenza di elementi comuni e identici, sebbene le
popolazioni non avessero avuto rapporti tra loro per la distanza geografia e
storica. Queste osservazioni portarono lo studioso svizzero a ritenere che ci
sia nella struttura della nostra psiche, oltre alla coscienza e all’inconscio
personale, anche un inconscio collettivo, inteso come l’insieme dei modi di
pensare e di comportarsi che gli esseri umani ereditano dalle generazioni
primitive.
Jung chiamò le immagini primordiali dell’inconscio collettivo
“archetipi”; essi sono avvertiti da ciascun individuo come delle tendenze
innate, non apprese, ma in realtà sono il frutto della ripetizione di situazioni
identiche nel corso dello sviluppo dell’umanità, per cui: ciò che per
l’individuo può essere innato non lo è per la specie.
Con
questa fusione di ontogenesi e filogenesi, Jung vanificò il tentativo
cartesiano di dimostrare l’esistenza di Dio, perché l’idea che abbiamo di Lui
non è, in ultima istanza, innata.
SOLO CARTESIO HA TENTATO DI DIMOSTRARE L’ESISTENZA DI DIO?
Tutti i filosofi si sono in qualche modo posti il problema
dell’esistenza di Dio e della sua essenza. Il bisogno di costruire una “prova”
razionale a sostegno dell’esistenza di
Dio
non fu determinato dalla mancanza di fede, tanto è vero che questo sforzo si
ebbe soprattutto nel medioevo quando la fede sovrabbondava e uomini santi come
Anselmo D’Aosta e Tommaso D’Aquino s’impegnavano nella ricerca filosofica.
Fu proprio Anselmo D’Aosta nel 1077 ad accendere il moderno
dibattito filosofico sulla possibile dimostrazione razionale dell’esistenza di
Dio che vedrà impegnati le migliori menti speculative sino alla fine del XVIII
secolo, quando Emanuele Kant, nella Critica della Ragion Pura, dopo aver
analizzato le principali “prove”, concluse che la metafisica non può essere una
scienza perché priva di dati empirici, e che pertanto l’uomo non avesse la
possibilità di poter affermare o negare razionalmente l’esistenza di Dio.
Dopo Kant, la filosofia rinuncia a dimostrare l’esistenza di
Dio; una simile pretesa verrà considerata assurda o una “scemenza” - come ebbe
a scrivere S. Kierkegaad nel 1844 - perché nel momento in cui si inizia una
dimostrazione su Dio, già lo si è presupposto esistente: “altrimenti non avrei
incominciato a dimostrarlo, perché si comprende facilmente che tutto ciò
sarebbe impossibile se Dio non esistesse” (18). L’esistenza non si può
dimostrare: “… non dimostro che esiste una pietra, ma che un qualcosa ch’esiste
è una pietra; il tribunale non dimostra affatto ch’esistono criminali, ma che
l’accusato – che certamente esiste – è un criminale” (19).
Quasi un secolo dopo, M. Scheler ribadirà lo stesso concetto
del filosofo danese, aggiungendo che Dio si può “trovare”, ma non dimostrare, e
“solo chi ha trovato Dio può sentire la necessità di dimostrare l’esistenza.”,
in quanto “tutto ciò che si sa su Dio si sa necessariamente allo stesso tempo
attraverso Dio” (20).
Oggi la Chiesa Cattolica nel suo catechismo continua a citare
la prova cosmologica:
“La santa Chiesa,
nostra madre, sostiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose,
può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo
dalle cose create” (Catechismo, par. 36). “partendo dal movimento e dal
divenire, dalla contingenza, dall’ordine e dalla bellezza del mondo si può
giungere a conoscere Dio come origine e fine dell’universo” (Catechismo, par.
32).
Ma sostanzialmente anche la Chiesa ha rinunciato a ogni
dimostrazione preferendo fare appello all’analisi interiore, alla voce della
coscienza e alla forza della Rivelazione divina, piuttosto che alle capacità
razionali dell’uomo:
“L’uomo con la
sua apertura alla verità […] e la voce della coscienza […] percepisce segni
della propria anima spirituale. […] L’uomo ha facoltà che lo rendono capace di
conoscere l’esistenza di un Dio personale. Ma perché l’uomo possa entrare nella
sua intimità, Dio ha voluto rivelarsi a lui e donargli la grazia di poter
accogliere questa Rivelazione della fede” (Catechismo, par. 33, 35).
SE IL CONCETTO CHE ABBIAMO DI DIO È FRUTTO DI UNA RIVELAZIONE, COME MAI NON È
UNICO?
Se consideriamo le religioni che non si richiamano al Vecchio
testamento riscontriamo delle sostanziali differenze concettuali - tra di loro
e con la tradizione giudaica.
Lo Zoroastrismo ritiene che ci siano due divinità coeterne e
in continua lotta tra di loro: il supremo dio Ahura Mazda, principio del bene,
e Angra Mainyu, principio del male.
Nei testi rivelati degli Induisti si parla di un’entità
primigenia (Brahman), ma anche di un nutrito gruppo di dei e di uomini santi e
eroici che attraverso il rito e l’ascesi si possono rivelare ai fedeli.
I Buddisti credono che l’universo sia governato dalla legge
eterna del compenso delle azioni (karman), legge che occupa il posto del
Dio creatore e reggitore di altre religioni.
Ma anche tra le religioni che si
richiamano allo stesso testo, si notano diversità e modifiche importanti nel
corso del tempo: Abbiamo visto come il concetto arcaico del Dio ebraico si sia
andato modificando con il trascorrere del tempo fino ad arrivare, nei tempi
moderni, a liberare Jahweh di ogni carattere nazionale e a farne il dio di
tutta l’umanità; abbiamo pure visto come abbia perso ogni connotazione
antropomorfica a favore di una maggiore spiritualità e trascendenza, e come
abbia dismesso l’aspetto severo del Dio giudice-castigatore per accentuare la
sua naturale ed essenziale disposizione alla pietà e al perdono.
Adesso occupiamoci del Cristianesimo. Gesù
non ha mai messo in discussione l’idea di Dio quale emerge dall’Antico
Testamento, ma ne fa un essere molto più vicino al singolo uomo più di quanto
l’abbiano ritenuto i Giudei. Ognuno di noi - sostiene il nazareno - non si deve
preoccupare eccessivamente del domani; basta spendere il proprio tempo a
cercare “prima di tutto il regno (di Dio) e la sua giustizia” (Mt. 6, 33)
e Dio ci darà “per giunta” tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il pio
giudeo vedeva in Dio un essere misericordioso, al quale importava il
comportamento collettivo di tutto il popolo santo: la sua protezione o la sua
ira non era determinata esclusivamente dal singolo individuo. Quello giudaico è
un Dio reggitore che troneggia nei lontani cieli governando il mondo per mezzo
degli angeli. Gesù invece ci insegna a guardare a Lui come a un padre che pieno
d’amore provvede sollecito ai suoi figli:
Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e
vi sarà aperto. Poiché chiunque chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi
bussa, verrà aperto. E qual è quell’uomo fra voi che darà una pietra a suo
figlio che gli chiede del pane? O se chiede un pesce, gli dia una serpe? Se
dunque voi, cattivi come siete, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto
più il vostro Padre che è nei cieli concederà cose buone a colore che gliele
chiedono! (Mt. 7, 7-11).
Simile a un padre, Dio è pronto a perdonare i nostri errori e
i nostri peccati: basta un sincero pentimento per essere riammesso alla
salvezza eterna. Dio è sempre pronto a perdonarci, ma noi dobbiamo fare
altrettanto con il nostro prossimo. Per meritarci l’amore di Dio non basta
ricambiare con lo stesso sentimento il nostro creatore, ma bisogna amare tutte
le altre creature fino all’inverosimile, fino a porgere l’altra guancia.
L’amore che Dio ci dà è gratuito e gratuitamente noi lo dobbiamo riversare su
chi incrociamo nella nostra vita, come ci insegna la parabola del buon
samaritano.
L’amore di Dio verso l’uomo, e dell’uomo verso Dio e
verso i suoi simili, costituisce il cuore pulsante della predicazione di Gesù.
Anche nell’Antico Testamento si parla dell’amore come
elemento della relazione Dio – uomo e uomo - uomo, ma non si può fare a meno di
notare come i passi che esaltano questo nobile sentimento siano pochi e poco
incisivi. Se si vanno a vedere i passi che segnalano l’amore di Dio verso le
creature (15), si noterà come l’accento cada più sulla gelosia che
sull’affetto e comunque si tratta di un amore limitato, quasi sempre, al popolo
eletto e concesso come corrispettivo ad una retta osservanza dei comandamenti.
Ancora meno numerosi sono i passi che riguardano l’amore dell’uomo verso Dio e
verso il prossimo (16), e anch’essi legano l’amore alla attuazione degli
adempimenti prescritti dalla legge.
Non c’è quindi da meravigliarsi se ai tempi di Gesù la
religiosità ebraica fosse scaduta in un legalismo “che si sforza di conquistare
la benevolenza di Dio attraverso l’osservanza meticolosa delle prescrizioni
della legge” (17). Quando l’osservanza religiosa si riduce a un
atto formale - quello che conta è ciò che si fa non come si fa - si perde anche
il senso della obbedienza a Dio. “Ma la conseguenza più grave è che si corrompe
così il motivo dell’azione morale. Non solo perché balza risolutamente in primo
piano l’idea della retribuzione, ma anche perché – tratto caratteristico del
giudaismo – l’obbedienza che l’uomo deve a Dio e all’istanza del bene viene intesa
in senso puramente formale, cioè come obbedienza che soddisfa l’esigenza della
lettera, che obbedisce a ciò che è comandato perché è comandato, senza
chiedersi il perché, il senso del comando” (18). Contro questo
formalismo si scaglia con veemenza Gesù. Attenzione però, egli non ha mai
contestato la legge, ma il modo di osservarla dei suoi connazionali.
Il Dio di Gesù è senza dubbio il Dio dell’antico
testamento ma il suo insegnamento contiene almeno tre elementi che rompono con
la tradizione, ponendo in una luce diversa la figura del Creatore che si
manifesta nei libri sacri:
-Primo elemento. Il rapporto uomo – dio non è più
considerato un rapporto giuridico, ma un rapporto d’amore nel quale l’uomo si
dona integralmente a Dio senza condizioni. La rigorosa obbedienza alla volontà
divina prescinde dal premio e dalla punizione, ma deve essere uno slancio categorico
e senza mezze misure, così per entrare nel Regno di Dio non basta aver
osservato i precetti cultuali e rituali, ma bisogna anche spogliarsi dei beni
mondani:
Ed ecco, gli si presentò un tale, dicendo: “Maestro,
quale bene dovrò fare io per avere la vita eterna?” Gli rispose: “Perché
m’interroghi riguardo al bene? Uno solo è buono, Dio. Se vuoi entrare nella
vita, osserva i Comandamenti”. “Quali?” gli domandò. E Gesù rispose: “Non
uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso,
onora il padre e la madre, e ama il prossimo tuo come te stesso”. E il giovane
gli disse: “Tutto questo io l’ho osservato (sin da fanciullo): che altro mi
manca?” Gesù gli rispose: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto hai,dallo
ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Ma il giovane,
udite queste parole, se ne andò via rattristato, perché aveva molti beni (Mt
19, 15 – 22).
.
La stessa inflessibilità Gesù mostra sul tema del
divorzio perché esso va contro la volontà divina, per cui la tolleranza
mostrata da Mosè su questo argomento non è accettabile:
Allora gli si presentarono dei Farisei e, per
tentarlo, gli domandarono: “È permesso ad un uomo ripudiare la propria moglie
per un motivo qualsiasi?” Ed egli rispose loro: “Non avete letto come il
Creatore da principio li fece maschio e femmina?” e disse: “Per questo l’uomo
lascerà il padre e la madre e si unirà con la moglie, e i due saranno una sola
carne. Quindi non son più due, ma una sola carne. Dunque non divida l’uomo
quello che Dio ha congiunto”. “Ma perché allora”, gli replicano, “Mosè ha
ordinato di dare alla donna il libello del ripudio e di rimandarla?” Rispose
loro: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi permise di ripudiare le vostre
mogli; ma da principio non fu così. Però io vi dico: chi rimanda la propria
moglie, eccetto in caso di adulterio, e ne sposa un’altra, commette adulterio;
e chi sposa la ripudiata, commette adulterio” (Dt 24,1).
Insomma di fronte ai Comandamenti è impossibile avere
sconti, come quelli che gli ebrei si sono concessi a proposito dell’obbligo di
onorare i genitori e che Gesù rinfaccia loro (Mc 7, 9 - 13). Ma anche la
più meticolosa adempienza dei doveri che Dio ci ha prescritto non può
soddisfare le aspettative di Dio, se manca la nostra intima partecipazione, la
nostra convinta volontà. Dio non fa sconti e perciò chiede una obbedienza
estrema e totale. Anche i più semplici gesti di devozione religiosa come le
elemosine, le orazioni e i digiuni se non sono fatti con il cuore non hanno
valore agli occhi di Dio (Mt 6, 2 –16). Ciò che conta non è tanto quello
che si fa, ma come si fa. Dio guarda al di là delle nostre azioni e vede e
giudica le nostre intenzioni. Egli vuole la nostra anima.
-Secondo elemento. Per Gesù, Dio non giudica
collettivamente l’intero popolo, né le colpe di uno solo ricadono sopra la
comunità, ma ogni singolo uomo, in quanto soggetto morale, è direttamente
responsabile delle sue azioni e ne risponde personalmente davanti al Signore.
Il giudizio divino, come il peccato e la morte, è ad personam. Solo chi
è pronto a fare ogni sacrificio pur di mantenersi santo entrerà nel regno dei
cieli:
Se la tua mano destra ti dà scandalo, tagliala. È
meglio che tu entri monco nella vita che, con tutt’e due le mani, andare nella
Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti dà scandalo, taglialo: è
meglio che tu entri zoppo nella vita, che con tutt’e due i piedi esser gettato
nella Geenna. E se il tuo occhio ti dà scandalo, levatelo: è meglio che tu
entri con un occhio solo nel regno di Dio, che con tutt’e due, esser gettato
nella Geenna, “dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9,
43 – 46).
-Terzo elemento. Il regno di Dio che s’istaurerà con
la venuta del Messia perde, nelle parole di Gesù, ogni riferimento
nazionalista, poiché non viene più descritto come il trionfo di Israele sui
suoi nemici, ma come il trionfo di Dio sulle potenze sataniche che adesso
dominano il mondo:
Il Figlio dell’uomo manderà i suoi
Angeli, che toglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che hanno
commesso l’iniquità, e li getteranno nella fornace ardente, ove sarà pianto
e stridor di denti. Allora i giusti
splenderanno come il sole nel regno del loro Padre (Mt 13,41 – 43).
Il regno di Dio sarà un regno di santi: chiunque vi
potrà accedere se, dopo essersi purificato con il pentimento dei propri
peccati, saprà fare la volontà del padre celeste.
Ma malgrado queste novità interpretative portate
avanti da Gesù, non si può dire che egli abbia alterato il concetto giudaico di
Dio. Saranno i suoi seguaci di cultura ellenista a determinare una radicale
trasformazione dell’idea veterotestamentaria di Dio con il dogma della trinità;
ma del resto se non avessero affermato la divinità di Gesù, non sarebbe sorto
il Cristianesimo come nuova religione, e il movimento ispirato da Gesù sarebbe
rimasto una delle tante sette che animano il Giudaismo.
IL PUNTO SUL TERZO CAPITOLO
Non pensate che io sia
venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per
portare a compimento. Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il
cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che
tutto sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti
e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma
chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel regno dei
cieli. (Matteo 5, 17 – 19)
Questo passo evangelico è uno dei
pochi sui quali i critici siano d’accordo. Esso ci dice in modo inequivocabile
che Gesù non si considerò il fondatore di una nuova religione, ma rimase nel
solco della tradizione. Anche il fatto che egli abbia iniziato a predicare
nelle sinagoghe dimostra la sua fedeltà alla legge antica.
La novità
del suo messaggio consisteva nel considerare la religiosità come un fatto
interiore che andasse anzitutto vissuto nel cuore di ciascuno, e nel ritenere
che le pratiche esteriori avessero poco valore agli occhi di Dio. Su
quest’ultimo punto egli si contrapponeva ai Farisei ritenendoli ipocriti e
falsi per la loro ostentata osservanza della Legge. I Farisei, da parte loro,
rinfacciavano a Gesù di non tenere nel dovuto conto le prescrizioni della legge
non scritta sull’osservanza del sabato, sul rituale di purificazione, sul
pagamento delle tasse a favore dei sacerdoti. Ma si trattavano di dispute che
non mettevano in discussione la religione fondata da Mosè.
Il fatto che Gesù non voglia rompere con la tradizione
giudaica spiegherebbe anche la sua renitenza a proclamare pubblicamente e senza
mezzi termini di essere il Messia; i sinottici sono una dimostrazione di questa
ritrosia, perché in essi solo due volte la sua persona è accostata all’atteso
Messia; la prima volta per iniziativa di Pietro:
Poi Gesù se ne andò, con i
suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; cammin facendo, domandò
ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» Essi risposero: «Alcuni,
Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti.» Egli domandò
loro: «E voi, chi dite che io sia?» E Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo».
Ed egli ordinò loro di non parlare di lui a nessuno (Marco 8, 27 – 30).
E la seconda volta, davanti al Sinedrio, quasi a
sfidare i suoi giudici accusatori:
Appena fu giorno, gli
anziani del popolo, i capi dei sacerdoti e gli scribi si riunirono, e lo
condussero nel loro sinedrio, dicendo: «Se tu sei il Cristo, diccelo». Ma egli
disse loro: «Anche se ve lo dicessi, non credereste; e se io vi facessi delle domande, non
rispondereste. Ma da ora in avanti il Figlio dell'uomo sarà seduto alla
destra della potenza di Dio».
E tutti dissero: «Sei tu, dunque, il Figlio di Dio?»
Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono» (Luca 22, 66 – 70).
Tutti e due i passi sono, però, fortemente contestati
dalla critica indipendente che li considera delle aggiunte successive. In
effetti, malgrado il passaggio di Marco sopra riportato, neanche i discepoli
più intimi di Gesù sembrano convinti al cento per cento che quell’uomo
imprevedibile e un po’ misterioso fosse il Messia. Infatti se i discepoli fossero
stati profondamente convinti che Gesù era il Messia non avrebbero dovuto farsi
prendere dallo sconforto e dalla paura al momento dell’arresto del Maestro,
quando era ancora possibile che il Gesù-Messia potesse venire fuori da quella
situazione trionfando sui suoi nemici; la paura sarebbe stata giustificata solo
all’atto della crocifissione. Invece vediamo che Pietro rinnegò l’amato Maestro,
quando lo scontro con gli avversari era appena cominciato. Dov’era la fiducia
che aveva nel suo Messia?
La condanna e la successiva crocifissione dovette fare
crollare ogni loro illusione, tanto che gli undici apostoli accolgono la
straordinaria notizia della resurrezione come se fosse inverosimile:
Questa andò ad annunziarlo a coloro che erano stati
con lui, i quali facevano cordoglio e piangevano. Essi, udito che egli viveva
ed era stato visto da lei, non lo credettero. Dopo questo, apparve in modo diverso
a due di loro che erano in cammino verso i campi; e questi andarono ad
annunziarlo agli altri; ma neppure a quelli credettero. Poi apparve agli undici
mentre erano a tavola e li rimproverò della loro incredulità e durezza di
cuore, perché non avevano creduto a quelli che l’avevano visto risuscitare
(Marco 16,10 – 14).
Superata
questa iniziale incredulità grazie anche alle apparizioni di Gesù, gli apostoli
incominciarono a professare con forza e decisione la loro fede in Gesù quale
Messia. Ma intendevano per Messia la figura di un uomo innalzato da Dio alla dignità divina:
Uomini d’Israele, udite queste
parole: Gesù il Nazareno fu un uomo accreditato da Dio presso di voi con
prodigi, portenti e miracoli, che per mezzo di lui il Signore operò in mezzo a
voi,come voi ben sapete; Dio, nel suo volere e nella sua provvidenza, ha
permesso che egli vi fosse consegnato: e voi, per mano di empi senza legge, lo
avete ucciso inchiodandolo al patibolo: Ma Iddio lo ha risuscitato liberandolo
dalle doglie della morte; poiché non era possibile che la morte lo possedesse
(Atti 2, 22 – 24).
Questa
dottrina dell’esaltazione dell’uomo Gesù a Messia, sarà chiamata teoria adozionistica
ed è conforme al concetto del Messia che le masse ebraiche si erano fatte. Però
i Nazareni introdussero un particolare nuovo e inquietante: “il Messia non è
più l’eroe potente e vittorioso ma assume significato e dignità solo nella
sofferenza, nella morte sulla croce”.
Con le loro argomentazioni e la loro testimonianza, gli
apostoli convertirono molti abitanti di Gerusalemme e molti pellegrini che
arrivavano nella città in occasione delle feste: si creò ben presto una nutrita
comunità guidata dai dodici apostoli e da Giacomo, fratello di Gesù. Le loro
speciali credenze messianiche ed escatologiche non posero gli apostoli fuori
dalla ortodossia giudaica, tanto che essi continuarono a frequentare le
sinagoghe e a presentare il culto a Dio nel Tempio.
Proprio perché restavano nel solco della tradizione, essi
rivolsero la loro propaganda soltanto ai Giudei; tuttavia il Vangelo venne ben presto conosciuto anche
da molti Gentili, attraverso gli Ebrei sparsi nel mondo; saranno questi pagani
convertiti a fare del Cristianesimo una nuova religione. Essi nel recepire il
messaggio di Gesù Cristo si allontanarono sempre più dalla tradizione religiosa
ebraica, perché, provenendo dall’idolatria,
considerarono il Vangelo una novità assoluta e non una particolare
interpretazione del giudaismo come, invece, pensavano i giudeo-cristiani di
Gerusalemme.
Tutto ciò non avvenne senza un forte dibattito che vide
coinvolti in primo piano gli apostoli che si divisero in due gruppi, uno
conservatore che voleva che il Cristianesimo restasse una corrente del
Giudaismo, e l’altro aperto alla mentalità ellenista e alle novità che questo
comportava.
Il primo gruppo era rappresentato da Giacomo, fratello del
Signore, divenuto ben presto capo molto ascoltato della chiesa di Gerusalemme.
Egli si batté contro ogni scollamento tra Cristianesimo e Giudaismo, e, poiché
non poteva impedire la conversione dei Gentili, pretendeva che essi si
assoggettassero alla Legge scritta e alla tradizione degli Ebrei, ivi compreso
la circoncisione; ciò era lo stesso che chiedere ai Gentili, che volessero
seguire Gesù, di convertirsi al Giudaismo del quale il Cristianesimo era una
setta.
A questa posizione ortodossa, sostenuta soprattutto dagli
apostoli che operavano in Palestina, si opposero quelli che andavano
evangelizzando i Gentili come Simon-Pietro e soprattutto Saul di Tarso. Essi
alla chiusura nazionalista di Giacomo opponevano una concezione universalista
della salvezza tramite Gesù Cristo:
Allora Pietro, cominciando a parlare, disse: “In verità
comprendo che Dio non ha riguardi personali; ma che in qualunque nazione chi lo
teme e opera giustamente gli è gradito. Questa è la parola che egli ha diretta
ai figli d’Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù
Cristo. Egli è il Signore di tutti.” (Atti 10, 34 – 36).
Tuttavia
non fu Pietro a sostenere fino in fondo il discorso universalista per non
mettersi contro i fratelli di Gerusalemme, bensì fu Saul (19)
a diffondere più di ogni altro il nuovo messaggio di salvezza fuori dalla
comunità israelita, dando al Cristianesimo quelle fondamenta dottrinarie che
ancora oggi lo caratterizzano.
Il vangelo di Paolo poggia essenzialmente sull’equazione GESÙ
= CRISTO = DIO. Gesù il Cristo è un essere divino, il figlio di Dio, generato
dall’eternità del padre, egli esiste prima della creazione, e tutto ciò che
esiste, è stato creato e continua a sussistere per mezzo di lui. Essendo della
stessa sostanza del padre, a Cristo appartengono gli stessi attributi che sono
di Dio come, ad esempio, l’onniscienza e l’onnipotenza.
Il Signore si è fatto uomo per riaprire all’uomo le porte del
cielo che erano state chiuse da Dio dopo il peccato commesso da Adamo ed Eva.
Gesù Cristo, morendo sulla croce, ha soddisfatto la giustizia divina,
gravemente offesa dalla condotta peccaminosa dell’uomo; con il suo sacrificio
ha riconciliato l’umanità con Dio:
Sicché, come per una sola colpa la condanna è venuta su
tutti gli uomini, così per un solo atto di giustizia viene offerta a tutti gli
uomini la giustificazione che dà la vita (Romani 5, 18).
Per
questa identificazione GESÙ = CRISTO = DIO, Paolo viene considerato da molti
studiosi come il vero fondatore del Cristianesimo.
Egli si è impadronito del personaggio storico di Gesù e ne ha
fatto il Cristo, emendando il suo insegnamento (di Gesù) degli elementi
giudaici più vistosi e inserendovi credenze elleniche come l’idea orfica della
salvezza dell’anima. In questa operazione la vita di Gesù rimane nello sfondo ,
sbiadisce, perde la sua importanza, quello che conta è il Cristo risorto; la
Resurrezione è la prova palese della dignità messianica di Gesù. Per questo
motivo le lettere di Paolo sono così povere di notizie storiche su Gesù, e
formano invece un ricco trattato teologico sul Cristo. Dice il Guignebert:
“Paolo ha sacrificato Gesù al Cristo, e lo ha fatto deliberatamente. […] Egli
ha visto il Cristo glorificato, che non può somigliare al Galileo che i
discepoli hanno conosciuto “nella carne” (Galati 1 11 – 18). […] Ecco perché
egli non s’interessa effettivamente che alla dignità divina del Cristo, alla
sua glorificazione, all’interpretazione misteriosofica della sua morte e della
sua resurrezione. Quel che Gesù ha potuto dire e fare sulla terra è divenuto
quasi indifferente a chi vede ormai in lui
<il Signore>, padrone del mondo”.
Paolo, sostenendo che Gesù Cristo non è un uomo che
diventa Dio ma un Dio che diventa uomo, pone sul tappeto il problema del
rapporto del Cristo con il Padre. Le teorie e le polemiche che su quest’argomento
si svilupperanno per più di tre secoli sono davvero impressionanti sia per il
numero di persone coinvolte sia per l’accanimento con il quale gli uni
cercheranno di prevalere sugli altri. Ecco un quadro dell’intricato panorama
dottrinario:
In una posizione molto radicale troviamo gli adozionisti,
alcuni dei quali per salvaguardare il monoteismo, rigettavano il quarto Vangelo,
sostenendo che Gesù fosse nato uomo e che solo al battesimo, quando lo Spirito
santo era sceso su di lui, fosse divenuto il Cristo con poteri soprannaturali.
Nell’opposta, estrema, posizione possono essere
collocati i docetisti i quali negavano la natura umana di Cristo fino a
considerarne fittizia o apparente la passione e il sacrificio. Questa dottrina
fu sostenuta dai cosiddetti gnostici cristiani che consideravano il
Figlio un’emanazione dal Padre. Le numerose e sofisticate teorie elaborate
dagli “gnostici” hanno in comune
l’intento di salvaguardare il monoteismo e di tutelare l’inviolabilità del
padre-dio, asserendo che l’umanità di Cristo fosse solo apparente per cui Gesù
non poté essere soggetto alle infermità e alle impurità della carne.
Anche molti “apologisti”, filosofi ellenisti che si
proposero di difendere il Cristianesimo dagli attacchi degli intellettuali
pagani, furono vicini al docetismo nel momento in cui sostenevano che
Dio era troppo perfetto per calarsi nel mondo, e che il contatto tra Dio e il
mondo avveniva tramite il Logos, “il quale come ragione divina era
eternamente immanente in Dio, ed emanava da Dio prima ancora della creazione,
affinché per suo mezzo il mondo potesse essere fatto” (20).
Volendo difendere in maniera assoluta il monoteismo, i
monarchiani o modalisti rifiutavano la distinzione tra le tre
persone, e alcuni di loro (i patripassiani) arrivarono ad ammettere che
fu Dio stesso ad incarnarsi e a patire la crocifissione. “Lo stesso unico Dio
era Padre e Figlio al tempo stesso, ora invisibile e ora visibile, ora non
generato ed ora di nuovo nato dalla Vergine, ora impassibile ed immortale, ed
ora sottoposto al dolore ed alla morte sulla croce” (21).
Quest’ultima dottrina fu combattuta dai subordinatisti
che affermavano la distinzione fra le Persone e un rapporto gerarchico fra
esse. Il loro più grande rappresentante fu Origene al quale si deve il primo
grande sistema della filosofia cristiana.
Rifacendosi al neoplatonismo, Egli concepì Cristo come
Logos, Ragione Universale emanata ovvero generata da Dio. Solo il Padre
è aseità, un essere in sé e per sé; il Figlio è generato dall’eternità e
quantunque della stessa essenza è distinto dal Padre. Al Figlio non appartiene
l’aseità divina e per questo non è sullo stesso piano del Padre (che è
nongenito), ma è un secondo Dio che riflette le qualità del Padre: Dio è il
bene, la bontà, la vita, l’eternità; il Figlio riceve tutto dal padre per cui, ad esempio, non è buono di una
bontà propria ma riflette la bontà di Dio. Quanto allo Spirito, esso è stato
creato dal Logos e quindi è inferiore al Figlio così come questi è inferiore al
Padre.
Quando Costantino ebbe il dominio dell’oriente, trovò
un paese attraversato da forti tensioni a causa dei contrasti religiosi: la
popolazione era divisa in fazioni mentre i vescovi si scomunicavano tra loro e
sinodi partigiani dichiaravano eretiche le opinioni degli avversari.
In quel momento la contrapposizione più lacerante
aveva per oggetto la controversia ariana. Ario, presbitero di Alessandria,
rifacendosi in parte a Origene e in parte agli adozionisti, sosteneva che il
Figlio, dovendo la sua esistenza al Padre, non è Dio. Il Logos, secondo lui,
era stato creato dal nulla come tutte le creature e quindi essendovi stato un
tempo in cui non era, non può essere considerato eterno. Rigettando la teoria
dell’emanazione, Ario affermava che il Figlio non era della stessa natura del
padre.
La teoria di Ario fu rigettata dagli ortodossi che si
battevano per l’uguaglianza ab aeterno delle tre Persone della Trinità.
Nel 321 gli ortodossi guidati dal vescovo Alessandro organizzarono un sinodo per
deporre Ario; la decisione, però, venne contestata da numerosi vescovi che
simpatizzavano per lui.
Di fronte a questo subbuglio, l’Imperatore radunò un
consiglio della Chiesa intera a Nicea, nelle vicinanze della residenza
imperiale. Siamo nel 325.
Fortemente influenzato, nelle sue decisioni,
dall’Imperatore, il Concilio riconfermò la deposizione di Ario e, per evitare
che in futuro sorgessero delle controversie sullo stesso argomento, elaborò un
simbolo di fede nel quale il Figlio è definito “Dio da Dio, luce da luce, vero
Dio da vero Dio, generato, non fatto, della stessa essenza col Padre”.
Ma tutto ciò non bastò a porre fine alle controversie:
molti vescovi, che avevano firmato per ossequio all’Imperatore, non erano
d’accordo sul termine homoousios (stessa persona) che si era utilizzato nel
simbolo, perché tale termine sembrava dare ragione ai modalisti. Così si
creò uno schieramento, guidato da Atanasio, che difendeva la formula di Nicea e
uno schieramento, guidato da Eusebio, che premeva per una modifica in direzione
ariana.
Non vale la pena seguire nei particolari queste lotte
poco edificanti; diciamo solo che la teologia di Nicea finì col trionfare e che
fu perfezionata elevando lo “Spirito Santo ad una uguale partecipazione della
Trinità ipostatica” (22).
In conclusione il concetto trinitario che s’impose in
modo definitivo viene catechisticamente riassunto così: “Dio è uno solo, ma in
tre persone distinte e uguali, che sono la santissima trinità:
Padre, Figlio e Spirito Santo. Dire che sono distinte significa che in
Dio una persona non è l’altra, pur essendo tutte e tre un Dio solo. Il Padre
non procede da altra persona, ma da lui procedono le altre due. Il Figliuolo è
generato dal Padre, ed è, insieme col Padre, principio dello Spirito Santo che
appunto procede dal Padre e dal Figlio. Dire che sono uguali significa
che le tre persone divine non sono tre dei, ma un Dio solo, in quanto sono
uguali in tutto: nella natura o sostanza, nella volontà e nell’azione. Avendo
in comune l’unica natura divina che è eterna tutte e tre le persone sono
egualmente eterne e quindi il Padre da cui procedono le altre due non fu prima
del Figlio e dello Spirito Santo” (23).
A chi protesta di non averci capito nulla, la Chiesa
risponde che è ovvio che non possiamo comprendere nulla sulle tre persone
divine, perché si tratta di un mistero e come tale di una verità
superiore, anche se non contraria, alla ragione.
Nel mistero della fede conducono pure tutti gli altri
problemi che hanno continuato ad agitare la storia del Cristianesimo: basta
pensare al problema dell’incarnazione, a quello della grazia divina e della
predestinazione, e soprattutto al problema del male che ha visto impegnati i
più grandi filosofi di ogni tempo.
NOTE AL CAPITOLO TERZO
1)
Esodo 33, 3.
2)
Anche al di fuori del Pentateuco troviamo numerose conferme che, ai tempi di
Mosè, la religione degli Ebrei fosse una monolatrica e non propriamente un
monoteismo; così per fare qualche esempio, in Giudici 11, 24 –25, Jefte
taglia corto con il re Ammon dicendogli che come lui possiede il territorio che
il suo dio, Milcon, gli ha fatto conquistare, così gli Israeliani hanno le
terre che hanno preso con l’aiuto del loro Signore Iddio.
3) Già
Giuseppe Flavio nel I secolo sosteneva che il nome di Mosè fosse
etimologicamente egiziano e significa bambino, discendente.
4)
Sigmund Freud, Totem e tabù, Newton Compton Editori, Roma 1970, pag.
218.
5) Idem, pag. 218 –219.
6) “La
religione totemica [la più antica delle religioni] è sorta dal senso di colpa
dei figli, come un tentativo per acquietare questo sentimento e per ottenere la
riconciliazione col padre ucciso, con un’ubbidienza postuma. Tutte le religioni
successive sono altrettanti tentativi per risolvere lo stesso problema, e
differiscono tra di loro per solo a seconda dello stato di civilizzazione in
cuisono sorte e la strada seguita per trovare questa soluzione: ma tutte
rappresentano delle reazioni contro il grande avvenimento da cui è iniziata la
civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l’umanità” (Sigmund
Freud, Totem e tabù, op. Cit., pag. 222).
7)
“Così, garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli s’impegnano a non
trattare mai uno di loro come essi tutti hanno trattato il padre. Escludono che
la sorte toccata al padre possa ripetersi per uno di loro. Al divieto (di
natura religiosa) di uccidere il totem, si aggiunge ormai quello (di natura
sociale) del fratricidio. Passerà ancora molto tempo prima che questo divieto,
scavalcando i limiti del clan, assuma la semplice e breve forma del
comandamento ‘Non uccidere’. L’orda paterna è stata sostituita dal clan
fraterno, fondato sui vincoli di sangue. La società si poggia su una colpa
comune, su un crimine di cui tutti sono stati complici; la religione, sul senso
di colpa e sul pentimento; la morale, sulla necessità di questa società, da una
parte, sul bisogno di espiazione generato dal senso di colpa, dall’altra”
(Sigmund Freud, Totem e tabù, op. Cit., pag. 223).
8) Y.
H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud, Einaudi, Torino 1996, pag. 14.
9) In quel tempo Gesù prese a dire:
“Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto
queste cose ai sapienti e agli scaltri e le hai rivelate ai semplici […]
Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, né alcuno conosce il Padre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11, 25 – 27).
(10) “Per mezzo della ragione
naturale, l’uomo può conoscere Dio con certezza a partire dalle sue opere. Ma
esiste un altro ordine di conoscenza a cui l’uomo non può affatto arrivare con
le sue proprie forze, quello della Rivelazione divina [Cf Concilio Vaticano I,
Denz.-Schonm.; 3015]. Per una decisione del tutto libera, Dio si rivela e si
dona all’uomo svelando il suo Mistero, il suo disegno di benevolenza
prestabilito da tutta l’eternità in Cristo a favore di tutti gli uomini. Egli
rivela pienamente il suo disegno inviando il suo Figlio prediletto, nostro
Signore Gesù Cristo, e lo Spirito Santo” (Catechismo 50) .
11) “Rivelando il suo Nome misterioso
di YHWH, ‘Io sono colui che È’ oppure ‘Io sono colui che Sono’ o anche ‘Io sono
chi Io sono’, Dio dice che egli è e con quale nome lo si deve chiamare.
Questo nome divino è misterioso come Dio è Mistero. Ad un tempo è un Nome
rivelato e quasi il rifiuto di un nome; proprio per questo esprime, come meglio
non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che
possiamo comprendere o dire: egli è il ‘Dio nascosto’ (Is 45, 15), il suo nome
è ineffabile, [cf. Gdc 13, 18] ed è il Dio che si fa vicino agli uomini”
(Catechismo, par. 206).
12) V. Messori, Ipotesi su Gesù,
S.E.I., Torino,1976, pag. 39.
13)
Pighini – Vannucci, Interroghiamo i Filosofi, Canova editrice, Treviso 1999,
pag.88.
14)
cf IN TESTI E CONTESTI
15) Es
20,6; Dt 4,25 o 6,15 o 7,8; Gs 24,19; Pro 8,17; Ecli 4,18; Ger 31,3.
16) Gn
22,2; Dt 5,10 o 6,5 o 10,2; Gs 22,5; Pro 14, 21; Ecli 7,22 o 17,12.
17) R.
Bultman, Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1985, pag.
21.
18)
Idem, pag. 21
19) Saul, nato nei primi anni
dell’era volgare a tarso in Cilicia (atti 9, 30) da giudei della tribù di
Beniamino, ebbe la cittadinanza romana e per questo è più conosciuto col nome
latino di Paolo. egli fu educato a Gerusalemme nella scuola rabbinica di Gamaliel.
L’educazione ricevuta lo rese un ardente fariseo e per questo si impegnò
con animosità contro il cristianesimo nascente:
Saul intanto devastava la chiesa,
entrando di casa in casa; e trascinando via uomini e donne, li metteva in
prigione (atti 8, 3).
Questa sua
azione di repressione contro i seguaci del nazareno durò finché Gesù Cristo
apparendogli sulla via per damasco – dove paolo era diretto per estendere anche
lì la persecuzione - non l’ebbe trasformato in zelante apostolo del suo
vangelo. Anche se non era uno dei dodici, Paolo qualificò sempre se stesso con
il titolo di apostolo, sostenendo che era stato preposto a questo ufficio dallo
stesso Gesù Cristo(da notare che il titolo Cristo nelle sue lettere è usato
sempre come secondo nome di Gesù), quando gli era apparso:
Paolo, servo
di Gesù Cristo, chiamato dal signore ad essere apostolo,scelto per annunziare
il vangelo di Dio,promesso già nelle sacre scritture per mezzo dei suoi profeti
(romani 1, 1 – 2).
E siccome il
suo messaggio era in parecchi punti diverso da quello che si predicava in
Gerusalemme, egli si difendeva asserendo che gli era stato rivelato
direttamente da Gesù Cristo:
Vi dichiaro
apertamente, o fratelli, che il vangelo da me predicato non viene dall’uomo;
perché io non l’ho affatto ricevuto, né imparato da un uomo,ma per rivelazione
di Gesù Cristo (Galati 1, 11 – 12).
I
viaggi missionari di Paolo si svolsero tutti fuori della Palestina; e siccome rivolgeva il suo
insegnamento, oltre agli ebrei emigrati, principalmente ai gentili adattò la
sua dottrina alla mentalità e alla sensibilità di quest’ultimi (cfr. Efesini
cap. 3). Così egli finì col sviluppare delle idee che non erano perfettamente
in linea con quello che andavano dicendo gli altri apostoli.
20) G.
F. Moore, Il Cristianesimo, Laterza, Bari 1964, pag. 70.
21)
Idem pag.73.
22)
Idem pag. 96.
23)
cfr in Catechismo della Dottrina Cristiana, S.E.I., Torino 1947.
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