sabato 30 aprile 2016

LA SICILIA COME TEMA
I PROFUMI DEL MIO STAGNONE
di Gioacchino Aldo Ruggieri
…e tornano i profumi dello Stagnone
al far dell’alba
L’aneto selvatico sulla riva
attende il pomodorino di Birgi
e l’aglio scuro di Nubia
Le piccole piramidi della salina
bianche nel nuovo raccolto
cantano melodie silenziose
nel ricordo dei vecchi
E lo sguardo incantato del turista
si ferma per raccogliere nel tempo
una visione impossibile altrove
Il vecchio mulino a vento
occhieggia la macchina elicoidale d’Archimede
E il sole che squarcia le ombre
benedice dall’alto
questo piccolo mondo
che sa di eterno
nel suo volgere quotidiano
E i profumi s’effondono ancora
nel tepore del giorno che avanza.

Il poeta dice di sé: Gioacchino Aldo Ruggieri ha fatto tante cose nella vita: il professore di scuola popolare; il docente di esperanto; il professore di scuola media; il preside di liceo; il docente per conto del Ministero della Pubblica Istruzione in corsi di aggiornamento per professori; il consigliere comunale, provinciale e il presidente della Provincia di Trapani; il giornalista; l’editore e il direttore de Il marsalese; ha rifondato e retto il Convitto per audiofonolesi di Marsala; il docente presso l’università AUSER di Marsala.

Ora legge, scrive e non fa di conto.

domenica 24 aprile 2016


LA SICILIA COME TEMA

S. Quasimodo
Strada di Agrigentum (da “Nuove Poesie”, 1938)
Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l'arenaria e il cuore
dei telamoni lugubri, riversi
sopra l'erba. Anima antica, grigia
di rancori, torni a quel vento, annusi
il delicato muschio che riveste
i giganti sospinti giù dal cielo.
Come sola nello spazio che ti resta!
E più t'accori s'odi ancora il suono
che s'allontana verso il mare
dove Espero già striscia mattutino
il marranzano tristemente vibra
nella gola del carraio che risale
il colle nitido di luna, lento
tra il murmure d' ulivi saraceni.




La poesia “Strada di Agrigentum” è emblematica di uno dei motivi della poesia di Quasimodo: la trasfigurazione della Sicilia, attraverso il ricordo (si noti il verso primo), in un paradiso perduto (tante sono le immagini di una natura che sembra paradisiaca) che acquista tanto più fascino quando il poeta si pone come “esiliato”.  Questo suo esilio rende la terra natia lontana sia nello spazio che nel tempo e pertanto tipicamente ermetica.  La lirica si presenta come una nostalgica rievocazione che, seppure contenga riferimenti autobiografici, ha qualcosa di vago: i paesaggi, gli animali e le cose sembrano remotamente lontani, come immagini che appaiono in un sogno in lento movimento e poi svaniscono subito per la sovrapposizione di altre. 

venerdì 22 aprile 2016






Alberto Di Girolamo   
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO   

CAPITOLO SESTO 

LA CREAZIONE DELL’UOMO 

.QUAL È IL VALORE DOTTRINALE DEL GENESI?  
Il primo libro del Vecchio Testamento è il presupposto irrinunciabile della dottrina della salvezza del Cristianesimo: poiché Adamo ha peccato, Gesù Cristo per riscattare tale peccato si è fatto uomo e si è lasciato crocifiggere; grazie al suo sacrificio le porte del paradiso celeste sono state riaperte alle anime sante. Alla fine dei tempi Gesù tornerà sulla terra per istaurare il Regno di Dio.  Senza il peccato di Adamo tutto ciò non sarebbe accaduto; ma Adamo non avrebbe potuto compiere il nefasto atto di superbia se non fosse stato creato completo ipso facto, pertanto il Cristianesimo non può rinunciare alla teoria creazionista. Se da questa costruzione dottrinaria proviamo a togliere un solo mattone, cade tutto l’impianto: senza Adamo-peccatore non ci può essere Cristosalvatore e la nostra fede sarebbe vana. È inevitabile quindi che la religione cristiana si rifiuti di prendere in considerazione la teoria darwiniana, nel cui processo evolutivo non c’è posto per un primo uomo “completato” in un dato momento. Pertanto sull’origine dell’uomo il contrasto tra cristianesimo e scienza è insanabile, e non può essere diversamente, salvo che la Chiesa non si decida a smentire i primi capitoli del Genesi, dichiarandoli puro prodotto della fantasia e di conseguenza a rivedere la relazione colpa-pena-redenzione. Quando parla della creazione dell’uomo, il racconto del Genesi non è più generico come quando ha esposto la creazione dell’universo fisico, ma è chiaro, perentorio e incontrovertibile. Ciò rende impossibile adattarlo in qualche modo al principio evoluzionistico: l’uno esclude l’altro.  
  
COME È NATO L’UOMO? 
Nel Genesi, dopo aver preparato l’ambiente propizio, Dio lascia che sia la terra a produrre gli animali e riserva a sé il compito di forgiare l’uomo: Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie”. . Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; tali creò l’uomo e la donna (1, 26 – 27). . I padri della Chiesa vedevano nell’uso del plurale “facciamo” la conferma che in Dio vi sono più persone: “Dio Padre parla della creazione dell’uomo al proprio Figlio e allo Spirito Santo, come a Persone sue pari, che hanno comune con lui la natura, la potenza e l’azione” (1). Questa posizione è ribadita nel catechismo cattolico (par. 291-292), ma non è condivisa da tutti gli esegeti, infatti c’è chi sostiene che Dio si rivolga agli angeli che secondo la vecchia Bibbia sciamano sempre attorno a Lui, c’è, infine, chi vede in quel “noi” un semplice e appropriato plurale maiestatico. Anche l’espressione “a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” è oggetto di diverse interpretazioni. La maggior parte degli studiosi sostiene che, poiché Dio non ha corpo, la rassomiglianza di cui parla il Genesi non può non essere che spirituale e riguardare l’anima, dove risiede l’intelligenza, l’amore e la libera volontà. Questa posizione la troviamo espressa nel Catechismo cattolico: Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, [Cf Mt 16, 25-26; Gv 15, 13] oppure tutta la persona umana [Cf At 2, 41]. Ma designa anche tutto ciò che nell’uomo vi è di più intimo [Cf Mt 26, 38; Gv 12, 27] e di maggiore valore, [Cf Mt 10, 28; 2Mc 6, 30]ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: “anima” significa il principio spirituale nell’uomo (Catechismo, par. 363) . . Il corpo dell’uomo partecipa alla dignità di “immagine di Dio”: è corpo umano proprio perché è animato dall’anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel Corpo di Cristo, il tempio dello Spirito [Cf 1 Cor 6, 19,  44 – 45] (Catechismo, par. 364). .   Il Catechismo, ricorrendo al linguaggio paolino, non è di tranquilla comprensione, ma non ci sono dubbi che per la Chiesa Cattolica solo l’anima è a immagine di Dio, e che il corpo acquista dignità perché ne è il contenitore. Ma – restando sempre nell’ambito cristiano – c’è chi sostiene, al contrario, che l’intero uomo è fatto a immagine di Dio; costoro basano la loro convinzione sul fatto che nel Genesi venga usato il vocabolo selem che, etimologicamente, significa riproduzione, copia concreta e, incerti casi, simulacro (2); sul fatto che in diversi punti del libro emergerebbe una concezione antropologica di Dio, dovuta sicuramente all’influenza degli altri popoli orientali nei cui miti è diffusa l’idea che Dio forgia a sua immagine il corpo umano; e sul fatto che altri libri dell’A.T. si richiamano ad un’immagine antropomorfica di Dio e degli angeli: L’anno della morte del re Ozia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto ed elevato; le estremità delle sue vesti riempivano il Tempio. Dei serafini stavano davanti a lui; ciascuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due i piedi e con due volava. E gridavano l’uno all’altro dicendo: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti, tutta la terra è ripiena della tua gloria” (Is 6, 1 – 3).  
Io vidi il Signore che stava in piedi, vicino all’altare… (Am 9, 1). . E sul firmamento che era al di sopra delle loro teste, apparve come una pietra di zaffiro, in forma, in forma di trono, una figura in sembianze d’uomo, che vi si ergeva sopra (Ezech. 1, 26). . L’opinione di molti filosofi è che non Dio ha forgiato l’uomo a sua immagine, ma, al contrario, l’uomo, spinto dalla sua megalomania, ha dato a Dio le sue sembianze. Un sostegno a questa rispettabile tesi potrebbe essere il fatto che il più antico documento biblico, quello Jahvista, non accenna ad alcuna somiglianza Diouomo. Dio modella con della terra l’uomo e gli dà la vita; e in questa operazione che forgia l’uomo-terra (adam – adama) non c’è distinzione tra corpo e anima: Allora Jahvé Dio modellò l’uomo con polvere del terreno, soffiò nelle sue nari un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente.  . A noi non interessa - per l’economia del nostro discorso - pronunciarci sulla questione “se l’uomo è simile a Dio nella sua totalità oppure solo nello spirito”; quello che ci preme sottolineare è che in ogni caso Adamo - secondo l’Antico Testamento -  fu forgiato in una forma definitiva e immutabile nel tempo, a differenza di quanto diranno Charles Darwin e i suoi seguaci.  

QUAL È LA RISPOSTA SCIENTIFICA SULL’ORIGINE DELL’UOMO? 
La risposta scientifica va sotto il nome di sintesi neodarviniana o teoria sintetica dell’evoluzione. Essa è stata chiamata così perché consiste nella combinazione o sintesi della teoria di Darwin con i principi della genetica moderna.  
  
QUANDO SI AFFERMA IL PENSIERO EVOLUZIONISTA? Nell’Ottocento si era ormai consolidata sul piano scientifico la convinzione che l’aspetto della crosta terrestre avesse, nel corso del tempo, cambiato i suoi connotati e che parimente fossero cambiate la flora e la fauna con la scomparsa di  alcune specie e l’apparire di altre che prima non c’erano. Però ancora non si era trovata una spiegazione organica e compiuta del meccanismo dei mutamenti avvenuti sulla superficie del nostro pianeta.  A partire dal secolo dei lumi le prove a sostegno di una spiegazione evolutiva della storia della vita sulla terra divennero sempre più numerose e schiaccianti. Infatti attraverso lo studio dei fossili, le osservazioni geologiche, le spedizioni scientifico- esplorative (come quella a cui partecipò lo stesso Darwin o quella compiuta da Bates e Wallace in Brasile) si era accertato che: 1) l’attuale superficie terrestre si è formata, strato dopo strato, nel corso dei tempi; 2) gli organismi hanno una lunga storia e sono cambiati nel corso di essa: quando Darwin vicino a Montevideo  trovò dei fossili di armadilli giganti, non poté non collegare il ritrovamento col fatto che solo in quelle pianure continuavano a vivere questi mammiferi corazzati, deducendone che la specie vivente dovesse discendere da quella estinta; 3) esiste sulla superficie terrestre una impressionante varietà di specie vegetali e animali, che presentano omologie e somiglianze tali da supportare l’ipotesi di una discendenza comune: ad esempio, animali diversi come i coccodrilli, gli uccelli, le scimmie presentano la stessa disposizione ossea negli arti anteriori; tutti i vertebrati hanno quattro arti e tutti i mammiferi sette vertebre cervicali. Insomma il confronto anatomico mostra una comune struttura fondamentale che, però, varia nei diversi rappresentanti di un determinato tipo. È impressionante come gli embrioni dei vertebrati (uomo compreso) inizialmente siano quasi indistinguibili, naturalmente con lo sviluppo le differenze emergono e si evidenziano. Sulla base delle scoperte dell’Embriologia, Haeckel affermò che l’embrione nel corso del suo sviluppo attraversa gli stadi definitivi dei suoi antenati, ma sarebbe stato più esatto dire che attraversa gli stadi degli organismi meno evoluti dai quali sarebbe derivato. In conclusione tutte queste somiglianze e differenze possono interpretarsi solo attribuendo loro rapporti evolutivi; 4) gli organismi si adattano all’ambiente in cui vivono attraverso dei “miglioramenti” graduali. Tuttavia non c’è una corrispondenza costante tra ambiente e specie di organismi; infatti luoghi con clima e topografia simili sono spesso popolati da organismi molto differenti. Ciò prova che la dislocazione degli esseri viventi è  legata alla loro stessa storia; 5) in quasi ogni specie animale e vegetale sono presenti organi “vestigiali” (involuti, atrofizzati) che, al contrario, sono sviluppati ed efficienti in altre specie. Prendiamo ad esempio l’uomo; in lui troviamo diversi organi rudimentali: l’osso coccige che corrisponde alla coda degli altri animali vertebrati; i muscoli auricolari, che a noi non servono più a nulla, si sono atrofizzati, ma i cani, i gatti, i cavalli con questi muscoli continuano a far muovere le orecchie; anche se inutilizzati continuiamo ad avere gli stessi muscoli retti con i quali i cavalli fanno vibrare la loro pelle; l’appendice caudale è forse l’esempio più interessante, essa è un grosso diverticolo intestinale a fondo cieco che svolge una importante funzione negli animali erbivori: gli alimenti ricchi di cellulosa richiedono un tempo molto lungo per la digestione e il cieco rappresenta la sede dove essi vengono depositati e digeriti in particolare ad opera dei batteri. Molto tempo fa i nostri antenati inizialmente erbivori hanno gradatamente preferito una dieta sempre più ricca di carne per cui, attraverso una serie di successive e improvvise modificazioni del patrimonio ereditario, sono stati selezionati quegli individui il cui cieco si è ridotto fino ad assumere dimensioni vestigiali. Questi e altri organi vestigiali, che trovano un motivo d’essere all’interno dell’evoluzionismo, mettono in difficoltà i sostenitori del creazionismo che non riescono a rispondere a questa domanda: perché Dio avrebbe creato degli organi inutili?   Di fronte a queste impressionanti prove i sostenitori dell’immutabilità si trovarono in difficoltà, tuttavia non sono mancati i tentativi di conciliare l’innegabile cambiamento avvenuto nella storia della terra e il creazionismo dell’insegnamento biblico: alcuni scienziati (ad esempio Cuvier e Agassiz) hanno ipotizzato che il buon Dio ha creato nuove specie, man mano che si estinguevano quelle esistenti a seguito di cataclismi naturali. Ma la creazione speciale non è presente nella Bibbia ed è messa in discussione dall’enorme numero delle specie, mentre la teoria delle catastrofi è stata superata dagli studi del geologo Charles Lyell (1797 – 1875) il quale dimostrò che l’attuale superficie terrestre si è plasmata attraverso un processo lento e lungo.  
Le ipotesi che precedono quella di Darwin sono caratterizzate dal ricorso a qualche “forza” quasi soprannaturale come causa dei cambiamenti avvenuti sulla superficie terrestre. Lo stesso Lamarck, che per primo elaborò una teoria sistematica dell’evoluzione, non seppe rinunciare all’idea di un principio vitale universale come uno dei “motori” della trasformazione di ogni vivente. L’altro “motore” o forza era l’ereditarietà dei caratteri acquisiti: gli organi degli animali si possono sviluppare di più o di meno in base all’uso o al disuso che se ne fa nel corso della vita; questo potenziamento o indebolimento viene trasmesso dai genitori ai figli. Lamarck fa l’esempio della giraffa: gli antenati dell’attuale giraffa per raggiungere le foglie dei rami più alti incominciarono a tendere il collo verso l’alto; questo primo allungamento acquisito fu trasmesso alla generazione successiva che allungò il collo ancor di più e così via.  Darwin non ebbe mai dati sufficienti per negare il principio lamarckiano della ereditarietà dei caratteri acquisiti, ma più volte manifestò i suoi dubbi, intuendo che le influenze dell’ambiente esterno sull’aspetto di un individuo non venivano trasmesse alle generazioni successive. Invece non ebbe alcuna esitazione nel rigettare ogni ricorso a forze metafisiche, estranee alla natura. Dopo aver raccolto una impressionante documentazione su fatti naturali che comprovavano la validità della dottrina evoluzionistica, egli ne darà una interpretazione strettamente razionale, meccanicistica, scientifica, senza ricorrere ad armonie prestabilite o a cause finali preesistenti. Se una qualche finalità c’è nell’evoluzione, essa è interna alla natura stessa.   

COSA DISSE ESATTAMENTE DARWIN? 
Per Darwin il meccanismo dell’evoluzione è dovuto a due fattori: variazione e selezione. La trattazione di questi due punti cardini parte dallo studio degli organismi domestici per estendersi poi agli animali e alle piante allo stato naturale. Nella metà dell’ottocento la Genetica muoveva i primi passi e pertanto la scienza dell’epoca non aveva ancora saputo individuare l’origine delle variazioni che possono insorgere negli individui di una specie. Questo limite è più volte denunciato da Darwin che, nel dubbio, non esclude, come abbiamo già detto, la  tesi lamarckiana secondo la quale l’uso o non-uso degli organi determinato dall’ambiente genera mutamenti ereditari. Comunque sia, una variazione vantaggiosa ed ereditaria rende un animale più idoneo a lasciare una progenie che, a sua volta, si riprodurrà esaltando sempre più la nuova caratteristica: Ma se si verificano effettivamente delle variazioni utili ad un qualsiasi vivente, sicuramente gli individui che le possiedono avranno le più elevate probabilità di conservarsi nella lotta per la vita e, grazie al possente principio dell’ereditarietà tenderanno a produrre discendenti provvisti delle stesse caratteristiche (3).  
Per il principio della divergenza più passa il tempo e più questi discendenti saranno diversi dal gruppo primigenio che, non godendo del vantaggio della mutazione, diventa sempre meno numeroso fino all’estinzione.  È così che nuove specie soppiantano quelle da cui derivano.  Le variazioni sono utili (ovviamente ci sono anche quelle dannose, ma esse non hanno storia perché conducono all’estinzione) se danno dei vantaggi nella lotta per l’esistenza: Che cosa Darwin intenda per lotta per l’esistenza, egli lo spiega egregiamente in questo passo: Devo premettere che impiego il termine lotta per la vita in senso ampio e figurato, comprendendovi la dipendenza di un essere dall’altro e (cosa più importante) comprendendovi non solo la vita dell’individuo, ma anche la sua probabilità di lasciare una progenie. Si può affermare che, in tempo di carestia, due appartenenti alla famiglia dei Canidi lottano effettivamente fra di loro per decidere chi prenderà il cibo e vivrà. Ma anche di una pianta ai margini del deserto si dice che lotta per la vita contro la siccità, anche se sarebbe più esatto dire che dipende dall’umidità. Di una pianta che produce annualmente un migliaio di semi, uno solo dei quali, in media, giunge a maturazione, possiamo più giustamente dire che lotta con le piante della stessa e di altre specie che già rivestono il suolo. Il vischio dipende dal melo e da alcuni altri alberi, però solo in senso lato si può dire che lotta con questi alberi, perché, se su uno stesso albero crescessero troppi parassiti, questo deperirebbe e morirebbe. Invece, si può dire, con maggiore verità, che parecchie pianticelle di vischio, nate l’una accanto all’altra sullo stesso ramo, lottano fra di loro. Dato che è disseminato dagli uccelli, l’esistenza del vischio dipende da questi, e, parlando figuratamente, si può dire che è in lotta con altre piante che portano frutti, nel tentativo di attirare gli uccelli a mangiare, e quindi a diffondere i suoi semi a preferenza di quelli di altre piante. Per comodità impiego il termine generico di lotta per l’esistenza in  questi molteplici sensi, che si fondono l’uno con l’altro (4).  
La lotta per la vita è un nucleo essenziale della teoria darwiniana perché spiega il meccanismo della selezione in natura, senza ricorrere ad un artefice esterno  che discrimini - come fa l’allevatore - l’organismo più dotato. La lotta per la vita ha scongiurato questo pericolo, lasciando la spiegazione nell’ambito dei fenomeni naturali. Darwin ha desunto la legge della selezione naturale dalla dottrina di Malthus che - riferendosi all’uomo - riteneva che ben presto sarebbe stato impossibile sfamare tutta la popolazione, perché la sua crescita geometrica era sproporzionata all’accrescimento aritmetico dei mezzi di sussistenza. La sovrappopolazione umana, secondo Malthus, poteva essere eliminata o da fattori naturali (carestie, malattie) che riducono la popolazione oppure da azioni umane come le guerre e il controllo delle nascite. Leggendo An Essay on the Principle of Population, Darwin intuì che tutte le specie animali e vegetali, non potendosi moltiplicare indefinitivamente, vivono in un continuo stato conflittuale per salvaguardare la loro esistenza e la loro perpetuazione nelle generazioni successive: Grazie a questa lotta per la vita, qualsiasi variazione, anche se lieve, qualunque ne sia l’origine, purchè risulti in qualsiasi grado utile ad un individuo appartenente a qualsiasi specie, nei suoi rapporti infinitamente complessi con gli altri viventi e col mondo esterno, contribuirà alla conservazione di quell’individuo e, in genere, sarà ereditata dai suoi discendenti. Quindi anche i discendenti avranno migliori possibilità di sopravvivere, perché, tra i molti individui di una data specie, che vengono periodicamente generati, solo un piccolo numero riesce a sopravvivere. A questo principio, grazie al quale ogni più piccola variazione, se utile, si conserva, ho dato il nome di selezione naturale, per farne rilevare il rapporto con le capacità selettive dell’uomo (5).    In base alla teoria della selezione naturale solo gli individui che riescono ad avere la meglio nella lotta per l’esistenza sui propri concorrenti (che possono essere della stessa specie e/o di altre specie) si riproducono e si diffondono; quelli che soccombono in questa lotta si estinguono. Usando la terminologia di Spencer possiamo dire che la selezione naturale opera scegliendo il “più adatto” e scartando “il meno adatto”.   
Ai tempi in cui scriveva L’Origine delle Specie, Darwin già pensava che anche l’uomo fosse sottoposto alle stesse leggi evolutive delle piante e degli animali. Ma, per non accrescere i pregiudizi verso la sua teoria e per avere più tempo nella raccolta delle “prove” sull’origine dell’uomo, si limitò a questo fugace accenno posto nell’ultimo capitolo: “Nel remoto futuro…si farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia”(6). Nella sua autobiografia egli presenterà questo preannunzio come dettato dalla sua onestà intellettuale: Nell’Origine delle specie non viene discussa la derivazione di nessuna specie particolare: tuttavia pensai che fosse meglio aggiungere, affinché nessuna persona onesta potesse accusarmi di nascondere le mie idee, che il libro “avrebbe gettato luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia (7).  
 Nel 1871 Darwin rompe gli indugi e pubblica L’Origine dell’Uomo, lo fa perché ritiene che i tempi siano ormai favorevoli e perché ritiene valido il materiale che nel frattempo aveva raccolto e ordinato: Ma quando constatai che molti naturalisti accettavano in pieno la dottrina dell’evoluzione delle specie, mi sembrò consigliabile rielaborare gli appunti di cui ero in possesso e pubblicare un trattato particolare sull’origine dell’uomo (8).  
Nell’opera di Darwin la logica estensione del principio generale dell’evoluzione anche all’uomo è suffragata da uno studio comparato tra l’uomo e gli altri vertebrati, tra l’uomo e gli altri mammiferi, tra l’uomo e le scimmie antropomorfe. Questo studio - condotto a livello morfologico, fisiologico e anche psicologico - dimostra che le affinità si fanno sempre più strette man mano che, nel confronto, saliamo la scala vertebrati-mammiferi-scimmie. E poiché le differenze anatomiche tra l’uomo e le scimmie antropomorfe sono davvero poche si afferma che l’uomo discende dalle scimmie.  In effetti l’uomo non deriva dalle scimmie, bensì da un antenato comune. Da questo antenato attraverso un lento processo divergente si sono formate le varie forme di scimmie cinomorfe, di scimmie antropomorfe, e l’Homo sapiens.  
Mancavano ai tempi di Darwin le prove che la paleontologia ricaverà dalla documentazione fossile umana. A quei tempi, l’unico reperto di cui si aveva notizia erano alcune ossa trovate a Neanderthal, un ritrovamento a cui non era stato dato   eccessiva importanza dagli scienziati.  La teoria di Darwin alimentò subito un’accesa polemica tra sostenitori ed avversari dell’origine scimmiesca dell’uomo. Quasi sempre, gli argomenti tirati fuori furono poco scientifici e viziati da convinzioni religiose o filosofiche. Ma gli antievoluzionisti ebbero dalla loro parte le istituzioni civili e, soprattutto, religiose, così vinsero il primo round, anche perché la ricerca scientifica indicata da Darwin ebbe una stasi. Darwin, saggiamente, non si lasciò mai trascinare nel clamore della sterile polemica, ma s’impegnò nel suo lavoro nel tentativo di chiarire meglio i punti oscuri e di colmare le lacune della sua teoria. Egli non riuscirà a portare altre prove significative per i limiti inerenti alla biologia dell’epoca. Sarà una nuova branca della biologia, la Genetica, a dare una risposta ai dubbi di Darwin sulle variazioni e sull’ereditarietà. Da allora l’evoluzionismo si riproporrà prepotentemente e con successo.   

IN CHE MODO LA GENETICA HA CONFERMATO LA TEORIA DARWINIANA?  
La genetica ha trasferito il discorso delle variazioni e dell’ereditarietà a livello molecolare, scoprendo che nei cromosomi, che stanno nel nucleo delle cellule, ci sono tante unità submicroscopiche chiamate geni. I geni costituiscono il patrimonio ereditario che si trasmette di generazione in generazione, ma i geni possono modificarsi e le caratteristiche determinate da un gene modificato sono trasmesse come ogni altro carattere ereditario. Nel 1902 il botanico olandese Hugo de Vries chiamò tali bruschi cambiamenti ereditari mutazioni. La mutazione, fenomeno che sta alla base dell’evoluzione, consiste in una lieve e casuale variazione della struttura chimica di un gene (“allele” è il termine tecnico per indicare il cambiamento di stato di un gene). Le mutazioni genetiche si verificano durante la riproduzione sessuale, quando avviene un riassorbimento dei geni: in modo del tutto accidentale e imprevedibile può accadere che la “copia” del DNA sia dissimile dall’originale. Da queste scoperte prese avvio la genetica evoluzionistica o genetica di popolazione che mantenne come asse portante la teoria di Darwin della selezione naturale. La combinazione della teoria di Darwin con i principi della moderna genetica è detta sintesi neodarwiniana o teoria sintetica o sintesi moderna dell’evoluzione. La moderna teoria genetica della selezione naturale parte dal concetto che ogni popolazione - un gruppo di organismi che si riproducono tra loro; ad esempio, tutti i pesci che vivono nello stesso bacino d’acqua, i moscerini della frutta dentro una bottiglia, le piante di un’isola - presenta un suo pool genico: la somma di tutti i geni di tutti gli individui della popolazione.  In un certo senso i geni di un pool sono in competizione, per cui, quando casualmente si è formata una variante di gene, il nuovo “allele” influenza la probabilità di sopravvivenza e di riproduzione dell’individuo interessato. Se la mutazione non è favorevole, sarà ridotta o eliminata nella generazione successiva, ma se è favorevole essa verrà trasmessa di generazione in generazione e finirà col caratterizzare il pool genetico. L’evoluzione, a livello dei geni, è il risultato di tali cambiamenti accumulati nel pool genico col passar del tempo. In altre parole: a livello di popolazione avviene che “La mutazione può avere l’effetto di migliorare l’adattamento di un individuo al suo ambiente. Questi avrà maggiori probabilità di raggiungere l’età della riproduzione e di trasmettere questo vantaggio ai suoi discendenti. Si vedrà apparire così una nuova popolazione d’individui dotati di tale mutazione. Questa popolazione crescerà più rapidamente delle popolazioni non favorite e si imporrà ben presto grazie al vantaggio del numero” (9). Il successo riproduttivo dipende, oltre che dalle varianti genetiche favorevoli, anche dalle interazioni tra i singoli organismi e il loro ambiente (compresi altri organismi), ad esempio una pianta, anche se geneticamente ben predisposta, non formerà fiori e quindi frutti e quindi semi se non sono soddisfatte certe precise condizioni ambientali. È per questo che gli eventi biologici, quelli fisici e climatici vengono sempre associati nello studio delle ere geologiche. La genetica ha comunque sciolto i dubbi che aveva Darwin sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti, dando torto a Lamarck. Quando si parla dell’azione dell’ambiente, bisogna distinguere se  essa avviene sugli organi o sul patrimonio genetico. Nel primo caso le modificazioni non vengono trasmesse per via ereditaria nel secondo caso si. In altre parole quando l’ambiente modifica l’aspetto esterno o fenotipo di un individuo, tali caratteri non sono ereditari; così, ad esempio, se un uomo o un animale (ma l’esempio può valere pure per una pianta), a causa di una superalimentazione, riesce a diventare più imponente dei propri genitori, la mole, dovuta a questi fattori ambientali (l’alimentazione), non verrà trasmessa ai figli, i quali, se si atterranno ad una normale alimentazione, avranno la corporatura dei nonni. Allo stesso modo se un individuo riesce a sviluppare muscoli eccezionali facendo ginnastica, egli non trasmetterà la sua muscolatura ai figli, a meno che non si dedicheranno anche essi alla ginnastica. Invece quando l’ambiente va a modificare la struttura molecolare dei geni, tali mutazioni geniche sono trasmesse alla progenie. Fattori ambientali che possono modificare la struttura molecolare dei geni possono essere le radiazioni elettromagnetiche e corpuscolari, le oscillazioni di temperatura, gli agenti chimici; così - come purtroppo è accaduto - organismi animali e vegetali esposti a sorgenti di radiazioni ionizzanti hanno subito delle mutazioni sfavorevoli che hanno trasmesso alla discendenza.   

È POSSIBILE RICOSTRUIRE IL PASSATO DELLA TERRA? 
La teoria evoluzionistica è ormai accettata universalmente dal mondo scientifico. Le discussioni riguardano alcuni aspetti particolari, ma le tappe principali dello sviluppo della vita sulla terra sono ormai fissate e condivise. Fondamentale nella ricostruzione di questa appassionante vicenda è stato lo studio dei fossili rinvenuti in ogni parte del mondo.  Circa tre miliardi e mezzo di anni fa la terra era ricoperta quasi interamente dalle acque (poco profonde) e sovrastata da un’atmosfera ricca di idrogeno, ammoniaca e metano. In questo periodo (chiamato Precambriano) una serie di reazioni chimiche all’interno degli oceani diede origine ad alcuni organismi semplici, unicellulari: era la vita.  Dopo un paio di miliardi di anni vaste formazioni di alghe ricoprivano i fondali 

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più bassi. Grazie alla fotosintesi clorofilliana la composizione dell’atmosfera si modificò, arricchendosi di ossigeno libero: si crearono le condizioni perché potessero sorgere organismi più complessi. 530 milioni di anni fa iniziò il periodo che gli studiosi chiamano Paleozoico. Il Paleozoico è ricco di fossili perché vi abbondano le rocce sedimentarie, infatti le terre emerse costituivano allora due grandi masse continentali separate da uno stretto mare. Comparvero le prime piccole piante terrestri e poi grandi foreste, come testimoniano gli estesi giacimenti di carbone fossile. Nei mari  si svilupparono i pesci (che furono i primi vertebrati) e, 200 milioni di anni dopo, i primi anfibi. Verso la fine dell’era, sulle terre emerse, erano numerosi anche i rettili. Il Paleozoico durò oltre 300 milioni di anni. L’era successiva, detta Mesozoica, fu caratterizzata dal sorgere delle prime piante con fiore e seme protetto (angiosperme), dalla straordinaria diffusione di enormi rettili e dalla comparsa dei primi piccoli mammiferi. Sempre in questo periodo a causa del movimento delle placche continentali si andavano formando gli oceani. Alla fine dell’era, per un evento improvviso, ancora inspiegato, scomparvero i dinosauri e i grandi rettili; ciò favorì lo sviluppo e la diffusione dei mammiferi.  Circa 65 milioni di anni fa iniziava il periodo Cenozoico, durante il quale una intensa attività orogenetica, vulcanica e sismica faceva assumere alla crosta terrestre grosso modo l’attuale connotazione, anche la flora e la fauna assunsero caratteristiche non dissimili dalle attuali. Alla fine di quest’era gli ominidi, primati simili all’uomo, hanno assunto la posizione eretta come testimoniano alcuni resti rinvenuti in Africa. Ma è nell’ultimo periodo geologico, il Neozoico (duemilioni di anni fa), che comparve l’Homo erectus. Egli aveva uno scheletro simile al nostro anche se più bassa statura; La fronte era bassa; le mandibole e i denti grossi e il mento sporgente; Il suo cranio, spesso e massiccio, era più voluminoso rispetto a quello degli ominidi. Grazie alla sua maggiore intelligenza costruì strumenti sempre più efficaci sia per la caccia sia per la vita quotidiana, dominò meglio il fuoco, migliorando la sua alimentazione, elaborò un linguaggio elementare e una certa organizzazione comunitaria.  Dovevano ancora passare molte centinaia di migliaia di anni prima che dall’Homo erectus si passasse all’ Homo sapiens. In questo nostro antenato le forme del corpo erano più affinate, il cranio più arrotondato e più voluminoso. Egli fabbricò strumenti più sofisticati ed efficaci, utilizzando, oltre alla pietra, altri materiali come l’osso e l’avorio. A lui risalgono il rivoluzionario passaggio ad una vita più sedentaria basata sull’agricoltura e la più antica tradizione artistica: i dipinti trovati nelle caverne.  Il successivo sviluppo dell’arte, della fabbricazione dei manufatti, dall’organizzazione sociale sarà opera dell’Homo sapiens sapiens. Siamo ormai sulla soglia della storia.   

LA RICOSTRUZIONE  NEODARWINIANA DEL PROCESSO EVOLUZIONISTICO NON HA PUNTI DEBOLI? 
Dopo le conferme e i chiarimenti apportate dalla moderna genetica, il concetto di evoluzione è entrato a far parte del comune patrimonio culturale. Ma sebbene l’evoluzione sia ormai un fatto incontrovertibile, non mancano le discussioni, anche all’interno del mondo scientifico, specialmente sui fattori che ne sono la causa.  Ad esempio ci sono studiosi che contestano i due eventi base del processo darwiniano: la causalità delle mutazioni e la selezione naturale. L’evoluzione è un passare da organismi semplici ad organismi sempre più complessi. Non è possibile - affermano in molti - che questo complicato processo sia il prodotto di una serie di eventi puramente casuali; anzi, le leggi della probabilità suggeriscono il contrario, e cioè che “le mutazioni casuali in biologia tenderebbero a degradare, piuttosto che a migliorare, la complessa adattabilità degli organismi” (10). Siccome ciò non avviene si deve concludere che ci sono delle cause finali (o un intelletto divino) che dirigono il processo evolutivo.  “Concetti simili sono alla base di molte delle credenze religiose riguardanti l’evoluzione. Per esempio, all’inizio del secolo, Lecomptes du Noys sostenne che l’evoluzione non procede a caso, ma si dirige verso un fine prestabilito da una 

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divinità trascendente.  Il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin assunse una posizione alquanto differente. Egli propose questa tesi: l’evoluzione non obbedisce nei minimi dettagli a un progetto preesistente, ma tende nel complesso a convergere verso uno stadio finale ancora da raggiungere – che egli chiamò ‘punto Omega’, rappresentante la comunione con Dio” (11). Volendo prescindere da questi estremismi religiosi, molti scienziati ritengono che per una spiegazione esaustiva della formazione di organismi complessi bisogna cercare dei principi che vadano al di là della casualità. Anche se si dimostra che il caso può mutare i geni di un individuo, “è molto più difficile dimostrare che vi sarà un accumulo sistematico di miriadi di tali variazioni tale da produrre uno schema coerente di avanzamento della specie” (12). A queste critiche i sostenitori del neodarwinismo rispondono che non tutte le mutazioni si diffonderanno a un’intera popolazione, e che sono più numerose le variazioni destinate a scomparire che quelle che attecchiscono. l’evoluzione è un procedimento lento e graduale, costellato di una lunga serie di mutazioni spesso inutili. Lo stesso Darwin rilevò che non tutti gli adattamenti sono uguali (e tanto meno perfetti, ma proprio la loro imperfezione costituisce una prova a favore dell’evoluzione), e cita a tal proposito i vari “espedienti” utilizzati dai fiori per attrarre gli insetti, tramite i quali diffondono il polline. Sulla selezione naturale gli antidarwiniani attaccano l’idea di progressivo miglioramento ad essa collegata. Già Engels aveva sostenuto che l’errore di Darwin consisteva “nel fatto che egli nella selezione naturale o sopravvivenza del più adatto mescola due cose assolutamente diverse: 1. selezione per la pressione della sovrappopolazione, nel qual caso forse sopravvivono in primo luogo i più forti, ma anche quelli che sotto molti aspetti sono i più deboli possono farlo; 2. selezione per maggiore capacità di adattamento a circostanze modificate, nel qual caso i sopravviventi sono più adatti a queste circostanze, ma tale adattamento da un punto di vista complessivo può rappresentare tanto un progresso quanto un regresso (per es. adattamento alla vita parassitaria, sempre regresso)” (13).  
L’ottimistica conclusione darwiniana, secondo la quale il passaggio da organismi semplici o inferiori ad organismi complessi o superiori è avvenuto perché questi ultimi, adattandosi meglio all’ambiente, si sono moltiplicati di più, viene  contestata così: se prendiamo come criterio di successo il numero, dovremmo dire che organismi semplici o inferiori come i batteri per la facilità con la quale si moltiplicano hanno più successo degli organismi complessi, e che quindi la semplicità consente una maggiore adattabilità all’ambiente. Conclusione, il criterio darwiniano non spiega perché la storia biologica abbia proceduto dal semplice al complesso. Secondo Davies è “assai più probabile che la complessità si sia manifestata in biologia in quanto parte dello stesso principio generale che governa la comparsa della complessità in chimica e in fisica, e cioè le improvvise transizioni non casuali verso nuovi stati di maggiore organizzazione e complessità che si verificano quando un sistema viene allontanato dall’equilibro e incontra dei <punti critici>” (14). Ma il vero punto debole del neodarwinismo è, secondo molti studiosi, il problema dell’origine della vita. Il passaggio dalla materia non vivente alla materia vivente rimane ancora oggi un mistero: come può l’assemblaggio (per di più casuale) di alcune sostanze inorganiche creare una cellula vivente?  L’ignoranza sul punto di partenza del processo evoluzionistico ha generato diverse ipotesi:       1)l’ipotesi che nasce dallo sforzo di concordare l’antica concezione religiosa con il moderno darwinismo. Secondo i neocreazionisti una mente superiore ha creato le prime forme di vita, dando, così, il via all’evoluzione;  2)l’ipotesi extraterrestre, secondo cui i primi microrganismi sono giunti sul nostro pianeta dallo spazio. Questa teoria ha avuto poco successo perché non risolve il problema dell’origine della vita, ma lo rimanda in un altro momento e in un altro luogo;  3)l’ipotesi neodarwiniana della generazione spontanea. Nel 1924 il biochimico russo Oparin avanzò l’ipotesi che le prime molecole organiche complesse siano il risultato di una combinazione casuale di semplici molecole organiche (contenente carbonio) e inorganiche presenti nell’atmosfera durante lo stadio della formazione della Terra, e cioè metano, acqua, idrogeno, ossigeno, ammoniaca. L’energia necessaria per realizzare la combinazione fu fornita probabilmente dalle radiazioni ultraviolette, elettromagnetiche e corpuscolari che dovevano bombardare la terra in formazione. La teoria di Oparin fu verificata in laboratorio nel 1935 da Harold Urey e da Stanley Miller. I due scienziati americani costruirono un apparecchio nel quale una miscela di metano, acqua, idrogeno e ammoniaca venne esposta continuamente a delle scariche elettriche.Dopo diversi giorni nel recipiente si era formato un liquido torbido, rossastro e nauseabondo,  nel quale si scoprì che c’era un certo numero di composti organici importanti per la vita come alcoli, zuccheri, grassi e aminoacidi. L’esperimento innestò subito una vivace polemica anche perché il suo valore dipendeva dall’effettiva simulazione dell’ambiente del nostro pianeta tre o quattro miliardi di anni fa; cosa di cui non possiamo essere assolutamente certi. La maggior parte degli scienziati ritenne che, come nell’esperimento, il primitivo brodo oceanico fosse scuro, nauseabondo e ricco di molecole appena formatesi. Proseguendo l’incessante gioco delle combinazioni si ebbe la formazione di molecole complesse come le proteine, gli enzimi e soprattutto il DNA (acido desossiribonucleide) grazie al quale avviene la riproduzione a livello molecolare. Successive aggregazioni molecolari, detti coacervi, costituiranno le prime cellule. “È  molto probabile che le cellule o strutture di tipo cellulare primordiali siano state eterotrofe, cioè incapaci di sintetizzare molecole organiche complesse utilizzando molecole semplici quali CO2, H2O, H2 e CH4. D’altra parte esse non potevano dipendere da altri organismi, in quanto non esistevano, per cui è presumibile che all’inizio si siano nutrite delle sostanze organiche disciolte nell’acqua degli oceani  in cui si svilupparono. In tal modo la riserva organica andò esaurendosi e conseguentemente si selezionarono strutture di tipo cellulare capaci di sintetizzare molecole organiche complesse da molecole più semplici. Tali cellule, chiamate autotrofe, dovevano essere molto semplici, simili a cellule batteriche. Infatti alcuni anni fa sono stati scoperti nelle rocce del litorale del Lago superiore (America del Nord), solidificatesi circa 2,7 miliardi di anni fa, dei fossili microscopici che somigliano alle più semplici alghe moderne. Tale scoperta farebbe pensare che circa due miliardi di anni fa si sia verificato un altro evento di fondamentale importanza, la fotosintesi, che provocò dei cambiamenti rivoluzionari nell’atmosfera, tra cui la liberazione dell’ossigeno dalle molecole d’acqua. […] Ebbe così inizio l’evoluzione di organismi sempre più complessi fino all’uomo […] E non è a credere che l’evoluzione sia terminata con l’uomo e con 
le altre numerose specie animali e vegetali viventi. Essa è un processo attuale lento e inesorabile verso mete non prevedibili” (15).  

DARWIN, PADRE DELL’EVOLUZIONISMO MODERNO, FU RELIGIOSO? 
Charles Darwin evitò sempre di farsi coinvolgere nella polemica socio-filosofica che le conclusioni della sua ricerca avevano alimentato. Questo impegno di non allontanarsi dai fatti scientifici, che mise nei suoi scritti, dimostra che lo scienziato era consapevole dell’enorme impatto destabilizzante che la sua teoria avrebbe avuto nei confronti della tradizione cristiana. L’impossibilità di accordare l’evoluzionismo con la verità rivelata dovette essere per lui motivo di un sofferto travaglio interiore che lo porterà gradualmente verso una posizione agnostica - il termine era stato creato dal naturalista Thomas Huxley, suo amico e seguace, per indicare l’inconcepibilità dell’Assoluto – che è in genere la posizione di chi sta in mezzo al guado, nel senso che non riesce a dare un taglio alla religione nella quale è cresciuto, anche se non ne condivide tutti gli articoli di fede.  Il giovane Darwin, quando partì (1831) a bordo del Beagle, era credente e  sosteneva la tesi dell’immutabilità del creato. Poi, le osservazioni naturalistiche, fatte durante il viaggio, lo convinsero della validità della tesi evoluzionista, la quale, a suo parere, non contrastava con l’idea di un Dio-creatore, anzi, al contrario, ne aumentava ed esaltava la dignità. Ciò è detto nel saggio del 1842 e ribadito in quello del ’44:   Vi è molta grandezza in ogni essere organico esistente sia come successore diretto di una qualche forma ora sepolta sotto migliaia di piedi di solida roccia che come discendente della forma sepolta di un qualche più antico e completamente perduto abitante di questo mondo. È in accordo con quello che sappiamo delle leggi date dal Creatore sulla materia che la produzione e l’estinzione delle forme sia come la nascita e la morte degli  individui, il risultato di strumenti secondari. Sarebbe indegno del Creatore di infiniti Universi aver fatto con atti singoli del suo volere le miriadi di striscianti parassiti e vermi che dai primi albori della vita hanno dilagato sulla terra nelle profondità del mare. Noi non ci meravigliamo più che un gruppo di animali sia stato creato per deporre le uova nelle viscere e nelle carni di altri esseri, ch alcuni animali vivano godendo della crudeltà, che altri vengano fuorviati da falsi istinti, che ogni anno si verifichi una perdita incalcolabile di polline, di uova e di esseri immaturi perché in tutto ciò vediamo l’inevitabile conseguenza di una grande legge, quella della moltiplicazione degli esseri organici che non sono stati creati immutabili. Dalla morte, dalla carestia e dalla lotta per l’esistenza, vediamo che è scaturito direttamente il fine più alto che siamo in grado di concepire e cioè la creazione degli animali superiori. Senza dubbio la nostra prima reazione è di non credere che qualche legge secondaria potrebbe produrre un numero infinito di esseri organici ciascuno caratterizzato dalla più accurata rifinitura e dall’adattamento più esteso: in un primo momento si accorda meglio con le nostre facoltà supporre che ciascuno abbia avuto necessità del fiat di un Creatore. Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita con le sue numerose forze di crescita, di riproduzione e di senso, originariamente impresse nella materia in poche forme, forse soltanto in una e nel fatto che, mentre questo pianeta continuava a girare secondo le leggi immutabili della gravità e mentre la terra e l’acqua si sostituivano l’una all’altra, da un’origine così semplice, attraverso la selezione di infinitesime varietà, si evolvevano innumerevoli forme le più belle e le più meravigliose (16).   La concessione di Darwin a favore della religione cristiana non poteva andare alla luce della sua teoria - al di là di una generica affermazione dell’esistenza di una divinità creatrice di quella natura iniziale sulla quale avrebbe agito il caso della evoluzione. Diciamo “il caso”, perché egli negò decisamente ogni tipo di finalismo che avrebbe ridotto l’evoluzione allo svolgimento di un disegno prestabilito; invece altri naturalisti-credenti, di fronte all’evidenza dei fenomeni evolutivi, penseranno di salvare la verità rivelata inventando, senza alcun supporto scientifico, l’evoluzionismo creazionistico secondo il quale l’evoluzione consisterebbe nella progressiva attuazione di un progetto divino. Per Darwin non c’era alcun progetto prestabilito all’interno della natura; tuttavia egli pensava ottimisticamente - influenzato sicuramente dal clima culturale della sua epoca - che la storia andava nel verso della perfezione.  
Un altro punto sul quale Darwin fu irremovibile nel suo convincimento fu l’impossibilità di accordare l’evoluzionismo col racconto biblico della creazione. Così Darwin con le sue ricerche non rivoluzionò solo la scienza della biologia, ma la concezione culturale che si aveva sull’uomo e sul suo ruolo all’interno del sistema naturale. Lo sconvolgimento scatenato dalle idee di Darwin è stato, giustamente, paragonato a quello operato dalla nuova astronomia di Copernico e di Galileo un paio di secoli prima. La nuova astronomia aveva relegato la terra in un punto qualsiasi dell’universo, privandola di quella centralità che le veniva sancita dall’Antico Testamento. Adesso, la nuova biologia pretendeva di considerare l’uomo alla stregua di ogni altro essere vivente che ha percorso faticosamente la sua strada evolutiva, privandolo di quel ruolo centrale che gli era stato divinamente attribuito dal testo biblico, e liberandolo dalla pesante responsabilità di avere introdotto volontariamente il male nel mondo.   

IL PUNTO SUL SESTO CAPITOLO 
. I filosofi hanno da sempre ricercato un criterio per stabilire se una affermazione fosse vera o falsa e oggi si è giunti alla conclusione che il criterio più importante è quello della verificazione che si realizza attraverso una serie di osservazioni o esperienze che sono altrettante prove della veridicità o falsità di una affermazione. Una verità supportata da una serie di verifiche acquista una tale evidenza oggettiva da ottenere un necessario ed universale consenso mentale, divenendo così una certezza. L’importanza dell’evidenza come garanzia dell’oggettività del conoscere è stata sottolineata da molti filosofi come l’antico Epicuro, il seicentesco Cartesio e diversi  studiosi contemporanei, come Brentano e Husserl, che l’hanno contrapposta ad altri criteri di verità come quello della coerenza logica o della semplicità.  In filosofia si distinguono tre tipi di evidenza: quella psicologica, quella sensibile e quella razionale. La scienza fa uso delle ultime due, mentre la religione si appoggia a quella psicologica che ha un carattere fortemente soggettivo, per cui un individuo considera certo ciò che gli appare tale senza aver promosso alcuna verifica. In questo caso l’evidenza è un sentimento oscuro che manca di quella oggettività che la scienza riesce a raggiungere utilizzando gli altri due tipi di evidenza. Insomma se la certezza coincide con la verificazione, allora solo le teorie scientifiche possono dirsi certe, invece le dottrine religiose sono verità senza certezze.  Facciamo un esempio. Se ci troviamo di fronte alla proposizione “I pianeti girano attorno al sole”, anche l’uomo più scettico può essere convinto che si tratta di un’affermazione vera, invitandolo a verificare con i propri occhi attraverso i telescopi spaziali. Dopo aver visto (ma di solito ci fidiamo degli scienziati del settore) egli acquisterà una salda certezza su quel fatto astronomico. Se viene detto “Maria si preservò vergine prima e dopo il parto”, non essendoci possibilità di verifica, non si può affermare che questa proposizione sia vera. Il fatto che simili affermazioni siano chiamati dogmi e che siano stati promulgati da qualche papa egregio e siano stati approvati da qualche Concilio non li rende più convincenti agli occhi di chi li considera con scetticismo. La certezza di una verità non sta nell’autorità di chi la dice, ma nella sua verificazione. Su questa semplice regola la scienza ha fondato le sue verità “e la società moderna riconosce universalmente che questa pretesa è fondata”(17). Questo spiega perché l’evoluzionismo biologico faccia parte ormai della comune cultura dell’umanità. Ma l’importante teoria scientifica non è riuscita a scalzare il bisogno religioso dalla nostra coscienza, per cui l’uomo contemporaneo vive in contraddizione con se stesso, in uno stato di permanente scissione, posto com’è di fronte a due verità inconciliabili tra loro: la ragione lo fa protendere verso la spiegazione evoluzionistica dell’universo e della vita, mentre il sentimento lo porta a professare una religione che si fonda sul creazionismo. Per meglio dire l’accettazione dell’evoluzionismo lo porta a negare la storia di Adamo e del peccato originale che è il presupposto della venuta del Cristo, mentre emotivamente rifiuta l’idea di ritrovarsi in un universo senza padrone.  

 NOTE AL CAPITOLO SESTO 1)S. Basilio; cfr. nella nota 26 de La Sacra Bibbia, ed. Paoline, 1964. 2)Cfr. in  G. von Rad, Genesi, op. cit. 3) C.Darwin , L’origine della Specie, in  L’evoluzione, grandi tascabili economici Newton, Roma 1994, pag. 270. 4) Idem, pag. 235 5) Idem, pag. 234 6) Idem, pag. 511. 7) C.Darwin, Autobiografia, in  L’evoluzione, op. cit. pag.1013. 8) Idem, pag. 1013. 9) H. Reeves, L’Evoluzione Cosmica, op. cit., pag. 183. 10) P. Davies, Il Cosmo Intelligente, op. cit., pag. 142. 11) Idem, pag. 143. 12) Idem, pag. 145. 13) Engels Dialettica della natura, riportato in C. Darwin, L’evoluzione, op. cit., pag. 980. 14) P. Davies, Il Cosmo Intelligente, op. cit., pag. 159. 15) G. Chieffi, Biologia 2, Loffredo, Napoli 1981, pag. .342 – 343. 16) C. Darwin, Saggio del 1844, in  L’evoluzione, op. cit., pag. 161. 17) L. GEYMONAT, Scienza e Filosofia nella Cultura del Novecento,  Pagus Edizioni, Treviso 1993, pag. 3.   



































lunedì 18 aprile 2016








Alberto Di Girolamo   
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO GIUDAICO-CRISTIANO   
CAPITOLO QUINTO    
L’ORIGINE DELL’UNIVERSO  

PERCHÈ LA COSMOGONIA È UN PUNTO ESSENZIALE DI TUTTE LE RELIGIONI? La religione per sua costituzione si propone come “svelamento” di tutti i misteri che riguardano l’esistente, e quindi è naturale che si occupi del problema massimo che è l’origine dell’universo e degli esseri che lo popolano. Però questo compito la religione lo assolve in modo paradossale, perché per spiegare i misteri della realtà ricorre a un mistero metafisico che in quanto tale non si potrà mai sperare di chiarire. Così, per dare una risposta al problema della creazione, la religione ricorre al mistero della volontà divina, affermando che l’universo è stato forgiato da un essere sovrumano.  Questa teoria creazionistica oltre ad essere la più antica è anche la più semplice sia perché non richiede una faticosa preparazione scientifica per essere capita sia perché il ricorso a un essere onnipotente permette di superare qualsiasi difficoltà derivante dal vincolo delle leggi naturali: tutto è stato compiuto attraverso atti 
sovrumani e miracolosi che si sottraggono, per loro natura, ad ogni richiesta di spiegazione razionale. La “sacra” spiegazione dell’origine della natura, e dei fenomeni che in essa continuamente si svolgono, ha trovato nella narrazione mitologica una felice forma espressiva. Nella cultura arcaica, di cui il mito è espressione, l’origine e l’ordine del mondo (l’alternarsi regolare del giorno e della notte, delle stagioni, della semina o raccolta delle colture agrarie) sono spiegati ricorrendo ad avvenimenti straordinari compiuti da esseri soprannaturali, in un tempo imprecisato e lontanissimo, quando tutto il mondo era dominato dal caos e dal caso. Questi personaggi eccezionali e/o divini si sono adoperati per plasmare un mondo, quanto più possibile, ordinato e stabile nelle leggi che lo governano. I cambiamenti attuati in quel tempo remoto sono stati irreversibili e così alla fine la realtà è stata sottratta al caso e al disordine e si è formato il mondo della nostra vita quotidiana che funziona secondo regole stabili e certe.    I miti cosmogonici non sono una prerogativa delle religioni del passato, essendo presenti nelle più grandi confessioni oggi praticate nel mondo. L’Induismo, ad esempio, pone alla base del creato una sola potenza divina, Brahman che ha generato gli dei, gli uomini e quanto altro esiste nel Trimundio (cielo, aria, terra). In uno dei miti sulla creazione si afferma che una parte dello spirito primordiale si è trasformata in cosmo, pertanto l’essenza (atman = spirito)  del mondo è identica all’essenza umana ed entrambe sono identiche a Dio: Come il filo si svolge dal ragno, come le piante sorgono dal terreno, come i capelli ci spuntano in capo, così il Tutto sgorga dall’Eterno. (Mundaka 1, 1,7) (1).  
Altri miti, conservati nei Purana indù, si allontanano da questa versione panteistica/panenteistica e raccontano che il Brahman dopo aver rischiarato le tenebre primordiali che avvolgevano l’universo crea le acque e vi depone l’Aureo Germe da cui nasce Brahma, il Dio creatore, e l’Aureo Uovo. Brahma divide 
l’Aureo Uovo in due parti costruendo il Cielo e la Terra che a loro volta generano i dieci Praja-pati, creatori secondari che completano l’opera creatrice. In un altro mito troviamo questa variante: Brahma, dopo aver diviso l’Aureo Uovo, divide pure se stesso, dando vita all’essere maschile e a quello femminile, da essi discende Manu, il progenitore dell’umanità.  Un altro elemento essenziale della cosmogonia/cosmologia indiana è la concezione ciclica dei mondi prodotti dal continuo mutamento dell’eterna materia primordiale: ogni mondo nasce vive e muore secondo il predominio alterno di Brahma, di Visnù, o di Siva che simboleggiano rispettivamente la creazione, la conservazione e la distruzione. Ogni ciclo temporale o evo cosmico si svolge in uno spazio di milioni di anni. L’era attuale è iniziata nel 3102 a.C. (siamo ancora all’alba); quando arriverà la sua fine, la materia cosmica diventerà indifferenziata e impercettibile come il nulla. Dopo un periodo parimente lungo sarà generato un nuovo Brahma che creerà un altro modo. Questa teoria ci ricorda molto Anassimandro e il suo àpeiron (VI sec. a. C.).   
Anche al Budda viene attribuita una cosmologia, secondo la quale nello spazio infinito esistono infiniti mondi, abitati da un’infinita quantità di esseri.   
Il mito giudaico cristiano sulla creazione è molto più sobrio perché limato nella sua formulazione da secoli di riflessione teologica, “Per scrivere questi trentacinque versetti la fede d’Israele ha avuto bisogno di secoli di riflessione, e molto profonda” (2). Il testo dell’A.T. che oggi possediamo è sicuramente una sintesi di diverse redazioni che hanno accompagnato l’evolversi della tradizione. Tracce di queste differenti compilazioni emergono ad esempio quando l’azione creatrice della parola è alternata dall’idea di un dio plasmatore, oppure nell’incongruenza esistente tra le opere e i giorni della creazione: il fatto che alcune opere siano create a cavallo di due giorni fa pensare che l’ordine delle opere create sia stato diverso nei vari documenti che si è cercato di cucire assieme. Il materiale con il quale è stato composto il Genesi proviene dalle tre fonti J, E e P (3); ma queste fonti, a loro volta hanno una lunga storia precedente, fatta di tradizioni antiche circolanti liberamente in mezzo al popolo. Ciò porta almeno a tre 
conclusioni: 1) il libro nella sua forma attuale non è stato composto di colpo né da un unico autore (Mosè) come molte anime pie continuano a credere; 2) essendo un prodotto storico culturale di un intero popolo è difficile supporre che sia stato scritto sotto dettatura o ispirazione divina; 3) per quanto ammirevole sia stata la capacità di sintesi da parte dei redattori non mancano le discrepanze dovute alla diversa provenienza delle parti che si è cercato di fondere organicamente Comunque, siccome il Cristianesimo l’ha posto a fondamento della sua dottrina, ad esso noi ci dobbiamo attenere. Il Genesi racconta che Dio ha creato in sei giorni tutto ciò che esiste, secondo quest’ordine: I) Primo giorno, creazione della materia caotica, della luce e delle tenebre. Da notare che la presenza di un caos iniziale è consono alle cognizioni dei popoli di quell’epoca sull’origine del mondo (ad esempio nella mitologia babilonese il dio Marduk può plasmare il cielo e la terra dopo aver sconfitto Tiamat, la selvaggia dea del caos). Anche la cognizione della luce come qualcosa che esiste indipendentemente dai corpi celesti - essa non è una emanazione di Dio ma è creata come può esserlo un oggetto – è propria della cultura orientale di quel periodo. Con l’irrompere della luce nel caos primigenio, ha origine la formazione e l’ordinamento cosmico.   II) Secondo giorno, creazione del firmamento e delle acque. La volta celeste è concepita come una grande volta solida a forma di emisfero, la cui funzione consiste nel separare le acque inferiori dalle superiori; quest’opera è completata nel terzo giorno. III) Terzo giorno: continuando quanto intrapreso nel giorno precedente, Dio raccoglie le acque inferiori in un luogo in modo da formare i mari e fare emergere la terra asciutta, immaginata come un disco circondato dal mare e galleggiante sulle acque. La seconda opera di questo giorno sono i vegetali che per gli antichi ebrei non hanno vita; le piante non sono create direttamente da Dio, ma sono prodotte dalla terra, in ciò sono ravvisabili gli antichissimi miti sulla fecondità della madre-terra; IV) Quarto giorno, creazione del sole, luna, stelle. Viene confermato che gli astri non sono produttori di luce, ma soltanto trasmettitori di una luce che esisteva prima di essi. Va notato che, mentre gli altri popoli vivono credendo che gli astri 
siano delle divinità capaci di influenzare la loro esistenza, gli ebrei ne parlano in modo prosaico considerandoli semplicemente dei luminari posti dall’unico Dio “per rischiarare la terra”. Alla fine del quarto giorno la terra è pronta per ricevere gli esseri viventi;  V) Quinto giorno, creazione degli animali acquatici e degli uccelli. I primi esseri viventi sono dei “grandi mostri marini” di cui sono pieni i miti di quell’epoca; i pesci e gli uccelli, creati in seguito, sono oggetti di una particolare benedizione divina perché corrispondono ai bisogni umani; VI) Sesto giorno, creazione degli animali terrestri e dell’uomo. Anche la creazione delle fiere “secondo le loro specie” avviene tramite la fertilità della madre-terra. “In profonda opposizione a questo legame del regno animale con la terra, il testo parla in seguito della creazione dell’uomo, che proviene direttamente e con tutta immediatezza dall’alto, da Dio.”(4); VII) Settimo giorno, Dio, avendo cessato la sua opera, benedì e rese sacro il settimo giorno.   Il racconto così com’è esposto nel Genesi appare alquanto pasticciato e privo di motivazioni convincenti. Ma la successiva tradizione scritta e orale ha provveduto ad interpretarlo e a perfezionarlo in modo da porre l’atto creativo all’interno di un disegno generale divino, capace di spiegare la presenza del finito e di dare un senso agli avvenimenti temporali. In conclusione la cosmogonia e la cosmologia del Cristianesimo presentano i seguenti punti fondanti:   a - L’universo è stato creato dal nulla, perché al principio c’era solo Dio e niente esisteva fuori di Lui. La creazione dal nulla, da una parte differenzia il Cristianesimo da altre religioni e dalla filosofia del periodo classico, nei quali accanto alla divinità è presupposta una materia coesistente dall’eternità, una materia caotica che il demiurgo plasma e mette in ordine; dall’altra parte rende Dio assolutamente incondizionato e onnipotente: infatti un dio che avesse forgiato una materia preesistente risulterebbe vincolato e limitato nella sua azione dal materiale che ha avuto a sua disposizione, invece creando dal nulla, il suo agire non ha avuto limiti e tutto sarebbe riconducibile alla sua libera volontà. Dio sarebbe egualmente 
incondizionato se si identificasse con il mondo, ma, in questo caso, non si potrebbe più parlare di trascendenza e di immutabilità. Nel Genesi non c’è scritto espressamente che il cosmo fu tratto dal nulla: In principio Dio creò il cielo e la terra.  La terra era deserta e vuota, le tenebre coprivano l’abisso, e un vento di Dio si librava sopra le acque.  Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu (1, 1 – 3). . La convinzione che Dio abbia prodotto qualcosa di nuovo si basa sull’uso del verbo creare, in ebraico “barà = fare” che implica il concetto di creatio ex nihilo. Tuttavia Israele non si è salvata del tutto dagli influssi dei miti cosmogonici e teogonici che circolavano in quel periodo, tanto è vero che la narrazione pone, tra il nulla e la creazione, un caos primitivo: molti commentatori considerano il primo versetto come una frase a sé, come il riassunto di quanto sarà realizzato nei sei giorni, in questa ipotesi è chiaro che diventa predominante il secondo versetto che indica chiaramente una situazione caotica che sarà ordinata a partire dal terzo versetto. Altri commentatori preferiscono considerare i tre versetti come un unico periodo, ma il risultato è sempre lo stesso, perché il “cielo e la terra” del v.1, in quanto protasi del v. 2, non può che indicare la materia primordiale e caotica nella quale Dio porrà ordine successivamente per gradi.   b – Dio, nella sua perfezione, era infinitamente felice in se stesso per cui non aveva alcuna necessità di creare, la sua fu una decisione libera e non obbligata. “L’idea che la creazione si compia mediante la parola vuole esprimere da una parte la più radicale differenza ontologica tra creatore e creatura. Il creato non può derivare da dio per ‘emanatismo’, neppure il più blando; esso non è in alcun modo emanazione o riflesso della sua sostanza, non è, cioè, di natura divina, ma soltanto un prodotto della sua volontà personale. L’unica continuità che esiste tra Dio e la sua opera è rappresentata dalla parola” (Bonhoeffer). “Questa parola creatrice è diversa da tutte le parole dell’uomo, non è ‘vuota’ (Deut. 32,47; is. 55, 11), ma potente e dotata di sublime energia. Si afferma così implicitamente anche la dottrina della totale appartenenza del mondo a Dio; esso è creazione della sua volontà ed Egli ne è il Signore” (4). Ma nella creazione del firmamento (secondo 
giorno) accanto alla parola creatrice, c’è un “fare” (Gen. 7, 16) diretto di Dio. Questa diversa concezione è dovuta chiaramente a due differenti redazioni del racconto della creazione. c – Dio, spinto da pura bontà, volle dispensare la vita alle creature. Inoltre, dopo la creazione, Egli continua a prendersi cura (provvidenza) delle cose create, conservandole e dirigendole tutte al proprio fine, con sapienza, bontà e giustizia infinita. d - Dio non creò soltanto ciò che è materiale, ma anche i puri spiriti che sono esseri intelligenti senza corpo. Noi sappiamo che esistono i puri spiriti dalla fede. Sempre la fede ci fa sapere anche che esistono puri spiriti buoni, ossia gli angeli, e puri spiriti cattivi, ossia i demoni. Gli angeli sono ministri invisibili di Dio, che fra l’altro hanno il compito di custodirci, aiutandoci e proteggendoci, avendo Dio affidato ciascun uomo ad uno di essi. I demoni sono angeli che, capeggiati da Lucifero, si sono ribellati a Dio per superbia e per questo sono stati, come punizione, precipitati nell’inferno. Essi, per odio contro Dio, tentano l’uomo al male. e - Tutti gli esseri viventi sono stati creati per un atto divino per cui ogni forma vivente ha iniziato la sua esistenza con le sue attuali caratteristiche. Gli animali sono stati creati per l’utilità e il piacere dell’uomo. f - I teologi giudei e quelli cristiani, considerando le generazioni bibliche a partire dai tempi di Adamo, hanno calcolato che la terra possa avere al massimo 6000 anni. Il rabbi Hillel (IV sec. d.C.) indicò con precisione la data: 7 ottobre 3761 a. C.  

SI PUÒ FARE A MENO DI UN DIO CREATORE?   L’ipotesi dell’evoluzione fisica è una spiegazione dell’origine dell’universo senza ricorrere a un essere divino. Secondo questa teoria scientifica l’inizio della formazione dell’universo va collocato molto più indietro di quanto faccia la Bibbia; e precisamente a circa 15 miliardi di anni addietro, quando una tremenda esplosione – il cosiddetto Big Bang – avrebbe determinato l’espansione della 
materia, prima concentrata in un solo punto dello spazio, e la successiva formazione di tutti i corpi celesti.   
Nell’evoluzione fisica dell’universo per comodità espositiva distinguiamo tre tappe significative, legate al procedere dell’espansione e alla progressiva diminuzione della temperatura sprigionata al momento del Big Bang: - L’esplosione primordiale avvenne in una materia estremamente densa e concentrata in uno spazio ridottissimo. Nei primissimi istanti si creò una “sfera di fuoco” con una temperatura di alcuni bilioni di gradi. Le particelle subnucleari, immerse in quella incredibile fornace, non furono in grado di combinarsi tra loro per l’azione dirompente dei fittissimi e durissimi raggi gamma, capaci di infrangere e distruggere qualsiasi legame; per questo, in quei primissimi istanti, non c’erano atomi e neanche nuclei atomici: tutti gli elementi erano dissolti. Il contenuto dell’universo era un miscuglio (“brodo” lo chiamano gli scienziati) di tutte le specie di particelle e antiparticelle elementari possibili a quella temperatura: protoni, neutroni, elettroni, fotoni, neutrini. A pochi minuti dall’immane esplosione, la temperatura scese da miliardi a milioni di gradi e contemporaneamente diminuì la densità delle radiazioni primordiali; ciò favorì il formarsi dei primi nuclei atomici complessi: i deutoni (neutrone + protone) che per ulteriore sintesi si trasformarono in elio. Si calcola che in pochi minuti un quarto della materia contenuta nell’universo si sia trasformata in elio. Poi il repentino abbassamento della temperatura rese impossibile una ulteriore nucleosintesi.  Con la diminuzione del calore e il dilatarsi dell’universo, si allungarono i tempi di evoluzione, tant’è che dovettero passare ancora un milione di anni affinché si creassero le condizioni adatte (temperatura a qualche migliaio di gradi) alla combinazione di elettroni e protoni e quindi alla formazione di idrogeno. A questo punto finiva l’era della “sfera di fuoco” e iniziava l’era della materia. -Qualche milione di anni dopo l’evento iniziale, l’universo, notevolmente espanso, era costituito da materiale fluido (idrogeno ed elio) con qualche traccia di elementi più pesanti e con un residuo di radiazione ridotta a poche migliaia di gradi di temperatura. In seno a queste grandi nubi di gas, per l’azione della gravità 
che riuscì a condensare masse di materia, ebbero origine le prime stelle che dovettero avere massa notevole, alta luminosità e vita breve (tre o quattro milioni di anni). Queste stelle di prima generazione ebbero una funzione molto importante nell’evoluzione dell’universo, perché nel loro interno, a causa della contrazione, la temperatura divenne così alta da permettere la ripresa di quel processo di nucleosintesi che si era svolto qualche secondo dopo il Big Bang; nella fornace stellare si ha una nuova produzione di elio, ma anche la nascita del carbonio, dell’ossigeno, del silicio e dei metalli. Quando queste prime stelle sono esplose hanno “disseminato” nello spazio i nuovi elementi sintetizzati, contribuendo a cambiare la composizione del materiale cosmico, prima fatto quasi esclusivamente di idrogeno ed elio. Così le stelle, succedendosi le une alle altre, hanno sintetizzato e diffuso tutti quegli elementi che ci sono familiari e che permettono la vita sul nostro pianeta. -Circa cinque miliardi di anni addietro, in una delle nubi di gas e di “polveri interstellari” presenti nella Galassia, iniziò un processo di contrazione che determinò la nascita del nostro sole: per quindici milioni di anni la nuova stella visse una fase di grande instabilità durante la quale, a causa della contrazione, la temperatura ascese a molti milioni di gradi, tanto che, a un certo punto, si innescò nel cuore della stella una intensa attività nucleare. Siccome le reazioni nucleari producevano l’energia di cui il sole “aveva bisogno” per risplendere, esso cessò di contrarsi, e d’allora (4,6 miliardi di anni fa) il suo raggio e il suo colore sono rimasti “stazionari”. Parallelamente attorno al sole in formazione (protosole) si realizzava il processo di composizione dei pianeti: buona parte della nebulosa gassosa e polverosa si dispose attorno all’embrione stellare in crescita, formando degli anelli come quelli che possiamo vedere attorno a Saturno. La nebulosa appiattita come un disco incominciò a roteare attorno al protosole provocando un continuo movimento dei grani che la componevano (più piccoli sono più si allontanano dal centro), durante il percorso essi si urtavano e si aggregavano accrescendo la loro massa fino a formare dei corpi solidi denominati “planetesimi”.  A questo punto la teoria distingue tra la zona più lontana e quella più prossima al sole: Nella zona interna i “planetesimi” continuano a raggrumarsi formando 
enormi corpi (anche di venti chilometri di diametro) che urtandosi violentemente tra loro tornano a frantumarsi con il risultato di spargere nello spazio un nugolo di detriti di tutte le dimensioni. Ma qualche corpo ha conservato la sua mole, costituendo l’embrione del futuro pianeta; infatti esso riesce a catturare con la sua forza di gravità dapprima il materiale più minuto che entra nella sua raggio d’azione e poi, man mano che la sua massa aumenta, anche i detriti più grandi. La formazione del pianeta si conclude quando l’embrione non ha più materiale da attirare in un raggio migliaia di volte maggiore del suo. Il processo di strutturazione dei pianeti terrestri ha richiesto circa cento milioni di anni. Nella zona esterna il coagularsi della materia è stato più complicato per l’abbondante presenza di gas, la cattura del quale ha richiesto che prima si formasse una massa decine di volte maggiore di quella terrestre. Per questo motivo si pensa che il periodo di formazione di Giove e di Saturno sia stato molto più lungo di quello occorso per il nostro pianeta. I tempi si dilatano enormemente per Urano e Nettuno, infatti il loro processo di accrescimento dovette essere estremamente lento visto che avvenne in una zona della nebulosa dove la densità era molto bassa. Sulla formazione dei satelliti il nostro modello ipotizza un’evoluzione analoga quella dei pianeti: quando intorno a un pianeta rimase un residuo di particelle solide, è molto probabile che all’interno di quello sciame sia avvenuto un fenomeno di aggregazione che diede luogo alla formazione di satelliti (5). Lo sciame che circondava la terra dovette essere costituito di particelle molto piccole a base di silicato; questo spiega perché la luna non abbia tutto quel ferro che invece troviamo sulla terra.  Tutti i pianeti inizialmente erano infuocati; questo calore in parte fu un lascito della nebulosa protosolare, e in parte fu prodotto dalla violenza degli urti delle meteoriti che si abbatterono su di essi: ne sono la prova i piccoli e grandi crateri che ancora oggi possiamo osservare sulla Luna e su Mercurio.  Durante la loro fase di formazione i pianeti si dovevano presentare come enormi palle di fuoco; una massa lavica che lentamente disperdeva il suo calore nello spazio: i corpi più piccoli, come la luna (e poi Mercurio e Marte) si sono raffreddati in un tempo relativamente breve, pietrificandosi nell’aspetto che 
conosciamo, per mancanza di attività termica. La nostra terra invece si è raffreddata solo esternamente, dopo milioni e milioni di anni dalla sua formazione, formando una crosta abbastanza stabile, mentre il suo nucleo ancora incandescente, ne fa un pianeta vitale, animato da un’intensa attività che si manifesta con le eruzioni vulcaniche, i terremoti e la deriva dei continenti.  Il nucleo primigenio del futuro pianeta Terra, oltre ad attirare a sé le pietre e la polvere che le stavano attorno, catturò anche una gran quantità di ghiaccio che nelle sue viscere incandescenti divenne gas. La pietra liquida imprigiona i gas, invece quella solida li perde; per questo, grandi masse gassose fuoriuscirono, sotto forma di geyser, dalla crosta terrestre che si solidificava, andando a formare l’atmosfera. In seno all’involucro gassoso, ben presto, ebbe luogo un processo di condensazione e incominciò a diluviare. La grande tempesta primitiva, accompagnata da continue scariche elettriche, sommerse d’acqua quasi tutta la superficie del pianeta; si suppone che un contributo notevole alla formazione degli oceani fu dato dalle comete - costituite principalmente di ghiaccio - che nello stesso periodo si impattarono sulla terra. In questo brodo oceanico si formarono le prime molecole organiche (zuccheri, alcoli, grassi, amminoacidi) che combinandosi e dissociandosi nel liquido fecondo daranno l’avvio alla miracolosa evoluzione della vita.    
Lo Standard Big Bang Model non si limita a ricostruire il passato dell’universo, ma ne ipotizza anche il futuro: la previsione più accreditata è che le galassie allontanandosi a dismisura provocheranno gradatamente la diminuzione della velocità dello spostamento fino ad arrestarsi, fra una decina di miliardi di anni; a questo punto si genererà un moto di verso opposto capace di riportare tutta la materia allo stadio di temperatura e di densità iniziali (il che significa il dissolvimento dell’universo). Nulla vieta di pensare che, dopo il processo di involuzione si possa avere una nuova esplosione che dia la spinta ad un nuovo processo evolutivo. Un’altra ipotesi è che l’universo continui a dilatarsi indefinitamente fino all’esaurimento di tutta l’energia esistente: una lenta agonia che si concluderà con una disintegrazione.   

 QUALI PROVE ADDUCONO GLI SCIENZIATI A SOSTEGNO DEL STANDARD BIG BANG MODEL ?  Per rispondere a questa domanda corre l’obbligo di accennare alle scoperte che sono il fondamento della moderna cosmologia.  La cosmologia come scienza è nata nel 1924 quando l’astronomo statunitense Edwin Powell Hubble (1889 – 1953) scoprì che esistevano raggruppamenti di stelle o galassie simili alla nostra Via Lattea, ma esterni ad essa; in seguito a questa scoperta, l’universo si dilatò enormemente, popolandosi di numerosi ammassi di stelle in movimento nello spazio. Proprio il movimento delle galassie suscitò tra gli astronomi un acceso dibattito sulla possibilità o meno che le distanze intergalattiche rimanessero costanti nel tempo. Fu ancora una volta Hubble, tra il 1929 e il 1936, ad accertare che le galassie si allontanano l’una dall’altra con una velocità crescente man mano che aumenta la distanza, secondo la formula v =H° D (legge di Hubble). L’esempio che didatticamente viene utilizzato per spiegare la scoperta di Hubble è quello di un palloncino gonfiabile (l’universo) sul quale vengono incollate dei dischetti rigidi (le galassie); quando il palloncino si gonfia i dischetti si allontanano tra loro pur conservando le stesse dimensioni. La scoperta di Hubble mise tutti d’accordo sulla realtà dell’espansione dell’universo, ma ben presto i cosmologi si divisero tra coloro che sostenevano l’evoluzione fisica dell’universo con un inizio legato ad una immane deflagrazione  e coloro che parlavano di un universo stazionario. Secondo il primo modello la progressiva espansione dell’universo, dopo il Big Bang, avrebbe determinato una progressiva diminuzione della densità della materia in esso contenuta e dell’energia sprigionata dall’esplosione. Anche la teoria dell’universo stazionario ammetteva l’espansione dell’universo, ma negava la diminuzione della densità della materia ipotizzando che vi fosse nell’universo una creazione continua di materia che andasse a riempire lo spazio continuamente reso disponibile dall’espansione. Va da sé che la creazione continua di materia (in quantità piccolissima, inosservabile nei laboratori terrestri) escludesse il Big Bang come unico evento produttore di materia, in un tempo determinato. 
 Nel 1965 la questione fu risolta a favore dell’evoluzione fisica grazie alla scoperta di A. A. Penzias e R. W. Wilson. I fisici Penzias e Wilson, dipendenti dei Bell Telephone Laboratories, stavano regolando un radiotelescopio per seguire dei satelliti artificiali, mentre cercavano di stabilire il livello di zero dello strumento notarono che l’antenna puntata verso il cielo rilevava un rumore di fondo simile al brusio che una normale radiolina emette quando si passa da una stazione all’altra. I due giovani tecnici non seppero spiegarsi il fenomeno, ma riferirono lo stesso la loro esperienza su una rivista astronomica. Alcuni scienziati dell’Università di Princeton stavano lavorando in quel tempo sull’idea che l’universo fosse pieno di una radiazione diffusa primordiale; essi videro nella scoperta casuale di Penzias e Wilson una conferma alla loro ipotesi. Le successive osservazioni, oltre a confermare con assoluta certezza l’esistenza di questo “fondo” a microonde, hanno dimostrato che esso proviene ugualmente da ogni direzione (isotropia): il fatto che non si possa individuarne la sorgente esclude la sua origine terrestre, galattica e persino extragalattica. La conclusione cui porta questo ragionamento è che solo all’interno della teoria evoluzionistica si riesce a dare una spiegazione plausibile a questa radiazione di fondo: la radiazione scoperta da Penzias e Wilson altro non è che il residuo dell’energia rilasciata dal braciere iniziale e arrivata a noi, dopo circa 15 miliardi di anni, indebolita e degradata per effetto dell’espansione dell’universo. Questo debole chiarore occupa l’intero spazio/universo per cui tutta la materia esistente è immersa in essa così come tutti gli elementi terrestri sono immersi nell’atmosfera. Anche l’abbondanza di elio e di idrogeno presenti nell’universo trova una spiegazione coerente alla luce della teoria del Big Bang: l’attività di tutte le stelle di tutto l’universo non basta a spiegare la quantità di elio osservata, se invece ipotizziamo le reazioni nucleari scatenate dall’esplosione iniziale tutti i conti tornano.  I conti tornano pure per quanto riguarda la presunta data dell’esplosione primordiale: lo studio delle onde radio e della luce (6) che viaggiano nel cosmo, i calcoli sulle distanze delle galassie e sulla loro velocità di recessione, l’età delle 
stelle più vecchie e degli atomi più vecchi ci confermano che l’universo è nato circa 15 miliardi di anni fa.    

LO STANDARD BIG BANG MODEL  È AL DI LÀ DI OGNI DUBBIO?  Anche se l’ipotesi evoluzionistica, nelle sue linee fondamentali, è universalmente accettata come verità scientifica, nessuno scienziato risponderebbe a una simile domanda affermativamente. In primo luogo perché nessuno può dire cosa ci fosse prima dell’esplosione iniziale: il “muro del tempo zero” impedisce di dare un’occhiata al di là di esso: “per quanto riguarda la struttura iniziale dello spazio-tempo, alcuni anni or sono S. Hawking e R. Penrose hanno elaborato dei teoremi basati su proprietà molto generali della gravitazione, i quali dimostrano l’esistenza di una singolarità all’inizio dell’universo; la scala universale R(t) doveva essere prossima a zero, e la densità prossima a infinito. Questa singolarità costituisce un “confine” dello spazio-tempo oltre cui non ha senso cercare una descrizione scientifica; da esso hanno origine insieme spazio e tempo, materia e radiazioni… In realtà, l’analisi fisica dettagliata non penetra ancora con certezza al di là di un milionesimo di secondo perché non sono ben note le proprietà della materia in condizioni che superano le densità interne ai nuclei atomici.” (7)  In secondo luogo perché parecchi punti della teoria non sono stati ancora adeguatamente spiegati. Alcuni esempi: 1) non c’è dubbio che le stelle si formino dove c’è una relativa concentrazione di polveri e gas, ma non si comprende quale sia l’evento fisico che inneschi il processo di organizzazione della massa caotica; un processo che sembra discordare con il secondo principio della termodinamica, per il quale in natura si passa da uno stato di ordine a uno di disordine (principio dell’entropia). 2)Un altro problema aperto riguarda la genesi di sistemi orbitanti attorno ad un corpo centrale. 3) Neanche sappiamo con assoluta certezza se l’universo sia finito o infinito perché l’osservazione astronomica non si può spingere aldilà di una certa distanza: le galassie più lontane si muovono quasi alla velocità della luce (la velocità di espansione aumenta con la distanza) e pertanto “un raggio di luce emesso da una sorgente che si allontana con la velocità della luce perde praticamente tutta la sua energia. Esso si estenua come un corridore su un tapis roulant che scorra con la sua stessa velocità ma in direzione opposta. Da 
questa luce non si possono trarre insegnamenti né ricavare immagini. Ne consegue che al di là di una certa distanza limite, non si può più <vedere>” (8).  

QUAL È L’ATTEGGIAMENTO UFFICIALE DELLA CHIESA?  
Quando uscì la teoria del big bang, Pio XII ne rimase così impressionato che “egli voleva pronunciare un discorso solenne per affermare che gli scienziati stavano scoprendo ciò che la Chiesa sapeva già dalla Genesi. Allora il presidente della Pontificia Accademia andò dal Santo Padre, gli spiegò come l’ipotesi degli scienziati non avesse alcun legame con le Sacre Scritture e lo convinse a non dire nulla.” (9) Da allora nella Chiesa contemporanea si sono formati come due partiti: uno, progressista, che accetta il principio evoluzionistico, cercando di conciliarlo con i versetti della Bibbia; la tesi di questo gruppo è che fra scienza e Scritture non c’è conflittualità perché la prima spiega come ha avuto origine il mondo che conosciamo, mentre la seconda ci svela perché esiste.  L’altro partito è quello conservatore che difende a spada tratta la tesi creazionista, malgrado le critiche che ne minano la credibilità. Questa divisione culturale che si registra nel mondo ecclesiale si riflette anche nei documenti ufficiali della Chiesa. Così nel Catechismo cattolico dopo aver fatto qualche concessione ai frutti del lavoro scientifico: La questione delle origini del mondo e dell’uomo è oggetto di numerose ricerche scientifiche, che hanno straordinariamente arricchito le nostre conoscenze sull’età e le dimensioni del cosmo, sul divenire delle forme viventi, sull’apparizioni dell’uomo (Catechismo, par. 283). Si cerca subito dopo di  ridurne la portata e l’importanza:  1) sminuendo il merito umano: . Tali scoperte ci invitano ad una sempre maggiore ammirazione per la grandezza del Creatore e a ringraziarlo per tutte le sue opere e per l’intelligenza a la sapienza di cui fa dono agli studiosi e ai ricercatori. Con Salomone costoro possono dire: “Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi… perché mi ha istruito la Sapienza, artefice di tutte le cose” (Sap. 7, 17 – 21) (Catechismo, par. 283)   
2) presentando l’evoluzione del cosmo come una manifestazione della provvidenza divina: La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata “in stato di via” (in statu viae”) verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina Provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione ( Catechismo, par. 302). 3) cercando di surclassare  le ricerche scientifiche: Il grande interesse, di cui sono oggetto queste ricerche, è fortemente stimolato da una questione di altro ordine, che oltrepassa il campo proprio delle scienze naturali. Non si tratta soltanto di sapere quando e come sia sorto materialmente il cosmo, né quando sia apparso l’uomo, quanto piuttosto di scoprire quale sia il senso di tale origine: se cioè sia governata dal caso, da un destino cieco, da una necessità anonima, oppure da un Essere trascendente, intelligente e buono chiamato Dio. E se il mondo proviene dalla sapienza e 
dalla bontà di Dio, perché il male? Da dove viene? Chi ne è responsabile? C’è una liberazione da esso? (Catechismo, par. 284). 4) preferendo stemperare la cosmogonia nel mistero escatologico: La catechesi sulla creazione è di capitale importanza. Concerne i fondamenti stessi della vita umana e cristiana: infatti esplicita la risposta della fede cristiana agli interrogativi fondamentali che gli uomini di ogni tempo si sono posti: “Da dove veniamo?” “Dove andiamo?” “Qual è la nostra origine?” Quale il nostro fine?” “Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?”. Le due questioni, quella dell’origine e quella del fine, sono inseparabili. Sono decisive per il senso e l’orientamento della nostra vita e del nostro agire (Catechismo, par. 282). .  Malgrado le gerarchie della Chiesa cerchino di mediare tra le due opposte posizioni, il partito conservatore finirà con l’imporsi per il semplice fatto che ha ragione quando sostiene che l’idea di un universo come prodotto di uno sviluppo escluderebbe il “fiat” del racconto biblico. Dice Ernan McMullin: “Non si può sostenere in primo luogo che la dottrina cristiana della creazione convalidi il modello del big bang, né, in secondo luogo, che il modello del big bang convalidi la dottrina della creazione” (10).     

IL PUNTO SUL QUINTO CAPITOLO Allo stato attuale, il modello scientifico, con i suoi limiti e le sue zone d’ombra, lascia spazio alla fede in un dio creatore, il quale potrebbe essere l’autore di quella singolarità iniziale che esplodendo ha dato corso alla formazione dell’attuale  universo. Il collocamento di questo fattore metafisico a monte del processo cosmologico è reso possibile anche dal fatto che sull’origine del cosmo il libro sacro si mantiene sul vago, tanto che  nella fonte Jahvista si dice solo: . Quando Jahvé, Dio, fece la terra e il cielo, né v’era alcun arbusto di steppa sulla terra, e nessuna erba del campo ancora germogliava perché Jahvé Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né esisteva alcun uomo che coltivasse il terreno e soltanto acqua profonda saliva dalla terra per bagnare tutta la superficie del terreno;” (Gn 2, 4b - 6).  
L’incoerenza logico-temporale presente nel testo (è impossibile che ci fossero vegetazione e acqua prima che esistessero il cielo la terra) è la riprova che l’autore tutto preso dal rapporto Dio – uomo trascura (o ignora) il processo cosmogonico.  Nel documento sacerdotale il racconto della genesi del mondo sarà più ricco di particolari ma non si esce dalla genericità, e non poteva essere diversamente sia perché generiche e vaghe erano le nozioni fisiche-astronomiche di quell’epoca, sia perché il racconto della creazione ha un peso e un valore marginale a fronte dell’argomento centrale dell’Antico Testamento che è la storia dell’alleanza di Dio con Abramo. Tutto è subordinato e tende ad esaltare la vocazione di Abramo e la formazione del popolo eletto; “e tutto ciò in modo che Israele con lo sguardo della sua fede potesse risalire dallo stadio dell’elezione, in cui allora viveva, fino alla creazione, e di qui tracciare la linea verso di sé: dal limite estremo del protologico al cuore del soteriologico” (11). I Cristiani allungheranno questa linea per collegare la creazione alla missione di salvezza di Gesù Cristo (cfr. Catechismo par. 280). Man mano che la conoscenza scientifica è progredita sul piano cosmologico, la genericità della vecchia bibbia sull’argomento ha permesso ai teologi di adattare la Scrittura alle scoperte scientifiche, con un ragionamento che suona più o meno così: l’autore divino avrebbe potuto spiegare tutte le leggi che regolano l’universo, ma non lo ha fatto, sia perché l’umanità non era pronta a comprendere, sia perché 
egli non si proponeva di allargare la conoscenza scientifica dell’uomo, ma di salvarlo.  Pertanto la ricerca scientifica non solo non può contraddire ciò che Dio non ha detto, ma il suo progredire è un dono di Dio che, tramite essa, continua a rivelarsi (cfr. Catechismo par. 283). In effetti molti credenti si mostrano aperti e favorevoli all’evoluzione cosmica che ritengono conciliabile con la loro fede religiosa. Ma questo loro ottimismo non è facilmente condivisibile perché il cosmo biblico è inequivocabilmente concepito come immutabile e completo al suo nascere. Pertanto se si suppone vera la teoria evoluzionistica non si può credere al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; ma, tutt’al più, a quel “dio dei filosofi” che Pascal riteneva non identificabile col Dio di Gesù Cristo. Per il filosofo giansenista il dio dei filosofi non è cristiano perché si limita a mettere in moto la macchina del mondo senza più intervenire nel suo autonomo funzionamento: Non posso perdonare a Cartesio: egli avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto, per mettere il mondo in movimento; dopo di che, non sa più che farsene di Dio. (12)  . Quello di Cartesio e quello di Pascal sono due modi diversi di credere in Dio: il primo pensa Dio, il secondo lo sente. Cartesio crede perché ha dimostrato razionalmente che Dio c’è; Pascal perché nelle parole scritte nella Bibbia scorge Dio che si rivela. Il Dio di Cartesio rimane fuori dalla storia umana, indifferente e irraggiungibile nella sua trascendenza: questo Dio-ragione è il Dio della scienza e si esprime attraverso il creato e non attraverso il linguaggio prodotto dall’uomo. Inoltre è un concetto comune all’intera umanità e non predilige questo o quel popolo e tanto meno questa o quella persona. Il Dio della provvidenza, il Dio dei miracoli, il Dio dei patriarchi, il Dio della fede non può avere nulla a che fare con la vera scienza: fede e ragione “vivono su pianeti diversi”(13). La divergenza tra fede e ragione è assoluta e non superabile perché verte sulla loro stessa natura. Sulla natura della ragione non ci sono problemi: tutti, credenti e non, sono d’accordo nel considerarla la facoltà naturale dell’uomo che gli consente di argomentare e discorrere. Invece, sulla natura della fede non c’è la stessa unanimità: a chi la considera un sentimento o virtù di origine 
celestiale, dono e grazia di Dio, si oppone chi l’assimila ad una pulsione che emerge dalla zona inconscia della nostra psiche. In ogni caso la fede si presenta sempre avvolta da un alone di mistero, contrapponendosi alla trasparenza di un ragionare cosciente. Questa loro diversità fa sì che ciò che per l’una è motivo di vanto per l’altra è motivo di biasimo, ad esempio accettare come verità ciò che è palesemente assurdo (Credo quia absurdum est). Un’altra importante differenza consiste nella diversa mentalità di chi si abbandona alla verità di fede e di chi ricerca razionalmente la verità: Lo scienziato costruisce le sue teorie sulle osservazioni, sui calcoli matematici e sui riscontri di laboratorio; egli non “ritiene” né “crede”, ma constata. Il religioso dà autorità al suo argomentare attraverso l’ipse dixit, ovvero richiamandosi a personaggi antichi che, in quanto tali, sui fenomeni fisici e chimici e biologici ne devono sapere necessariamente meno di lui.    In campo scientifico non esistono verità assolute, la ricerca non si interrompe mai, per cui si è sempre disponibili a ridiscutere le scoperte effettuate e a cambiare le teorie che si consideravano vere. Per uno scienziato non è un dramma rigettare questo o quel principio quando si scoprono dei dati che lo confutano. Invece all’ecclesiastico manca l’umiltà di mettere in discussione le verità rivelate; egli, considerando immutabile le “verità di fede”, è disposto a fare carte false (e lo ha fatto in passato) pur di difenderle. Gli uomini di fede si compiacciono degli invalicabili misteri divini e li preferiscono all’evidenza dei fatti. Tuttavia spesso sono stati messi con le spalle al muro e costretti a rivedere le loro posizioni; ma la loro resa non è stata mai senza condizioni: di fronte ad un presunto errore della Bibbia hanno sostenuto con Agostino che “Non questo afferma la divina scrittura, ma questo intende l’umana ignoranza”. Partendo da questo principio si è consolidata la convinzione che, dove il testo sacro preso alla lettera potesse essere smentito dalla scienza, vale un significato simbolico o nascosto da ricercare. Così, ad esempio, l’affermazione che Dio ha avuto bisogno di sei giorni di lavoro per creare il mondo, non va presa alla lettera, ma è stato un espediente per istituire, dopo la settimana lavorativa, il giorno festivo da dedicare al Signore. Il simbolismo ha permesso alla Chiesa di cambiare, sotto l’incalzare 
della critica indipendente, l’interpretazione tradizionale senza dovere rigettare la Scrittura. 

NOTE AL CAPITOLO QUINTO  
1) H. von Glasenopp, Le religioni non cristiane, Feltrinelli, Milano 1964, pag.70. 2) G. von Rad, Genesi, Paidea, Brescia 1978, pag. 76. 3) Idem, pag. 26: “Le due fonti più antiche portano il nome di Jahvista (J) ed Elohista (E), in base all’uso loro caratteristico del nome di Dio. Lo Jahvista potrebbe essere collocato intorno al 950 e l’Elohista, forse, uno o due secoli più tsrdi. Il Deuteronomista (D) letterariamente occupa un posto a parte; lo si trova nel Deuteronomio (aggiunte e rielaborazioni deuteronomistiche, però, si hanno anche nel libro di Giosuè). La fonte più recente è la redazione Sacerdotale (P = Priesterschrift), la cui elaborazione (senza le aggiunte posteriori) va attribuita al periodo postesilico, a un dipresso tra il 538 e il 450”. 4) Idem, pag. 59 – 60. 5) Cfr. AA. VV., Astronomia, Grandi opere della Curcio editore, Roma, vol. III pag. 871. 6) La luce come tutti sanno non si diffonde istantaneamente, ma viaggia alla velocità di circa 3000.000 chilometri al secondo; essa per percorrere le enormi distanze cosmiche, in certi casi, impiega per arrivare sino a noi anche miliardi di anni, per cui noi non vediamo la sorgente luminosa com’è adesso, ma com’era nel lontano passato in cui le radiazioni luminose hanno iniziato il loro percorso nello spazio: ebbene, la luce che riceviamo oggi dai limiti dell’universo osservabile ha viaggiato per più di dodici miliardi di anni. 7) AA. VV., Astronomia,  op. cit., pag 925. 8) H. Reeves, L’evoluzione cosmica, Rizzoli, Milano 1997, pag 37. 9) Corriere della Sera, 07/01/2002 10) Cfr. in P. Davies, Il cosmo intelligente, Mondadori 2000, pag. 38.  11) G. von Rad, Genesi, op. cit., pag 52. 12) B. Pascal, Pensieri, Rizzoli (B.U.R.), Milano 1952, pag. 45 – 46, pensiero 77.  13) F. Nietzsche, Umano Troppo Umano, Oscar Mondadori, Milano 1970, pag. 86.        .