Alberto Di Girolamo
DOMANDE E RISPOSTE SUL MONOTEISMO
CAPITOLO SESTO
LA CREAZIONE DELL’UOMO
.QUAL È IL VALORE DOTTRINALE DEL GENESI?
Il primo libro del Vecchio Testamento è il presupposto irrinunciabile della dottrina della salvezza del Cristianesimo: poiché Adamo ha peccato, Gesù Cristo per riscattare tale peccato si è fatto uomo e si è lasciato crocifiggere; grazie al suo sacrificio le porte del paradiso celeste sono state riaperte alle anime sante. Alla fine dei tempi Gesù tornerà sulla terra per istaurare il Regno di Dio. Senza il peccato di Adamo tutto ciò non sarebbe accaduto; ma Adamo non avrebbe potuto compiere il nefasto atto di superbia se non fosse stato creato completo ipso facto, pertanto il Cristianesimo non può rinunciare alla teoria creazionista. Se da questa costruzione dottrinaria proviamo a togliere un solo mattone, cade tutto l’impianto: senza Adamo-peccatore non ci può essere Cristosalvatore e la nostra fede sarebbe vana. È inevitabile quindi che la religione cristiana si rifiuti di prendere in considerazione la teoria darwiniana, nel cui processo evolutivo non c’è posto per un primo uomo “completato” in un dato momento. Pertanto sull’origine dell’uomo il contrasto tra cristianesimo e scienza è insanabile, e non può essere diversamente, salvo che la Chiesa non si decida a smentire i primi capitoli del Genesi, dichiarandoli puro prodotto della fantasia e di conseguenza a rivedere la relazione colpa-pena-redenzione. Quando parla della creazione dell’uomo, il racconto del Genesi non è più generico come quando ha esposto la creazione dell’universo fisico, ma è chiaro, perentorio e incontrovertibile. Ciò rende impossibile adattarlo in qualche modo al principio evoluzionistico: l’uno esclude l’altro.
COME È NATO L’UOMO?
Nel Genesi, dopo aver preparato l’ambiente propizio, Dio lascia che sia la terra a produrre gli animali e riserva a sé il compito di forgiare l’uomo: Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie”. . Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; tali creò l’uomo e la donna (1, 26 – 27). . I padri della Chiesa vedevano nell’uso del plurale “facciamo” la conferma che in Dio vi sono più persone: “Dio Padre parla della creazione dell’uomo al proprio Figlio e allo Spirito Santo, come a Persone sue pari, che hanno comune con lui la natura, la potenza e l’azione” (1). Questa posizione è ribadita nel catechismo cattolico (par. 291-292), ma non è condivisa da tutti gli esegeti, infatti c’è chi sostiene che Dio si rivolga agli angeli che secondo la vecchia Bibbia sciamano sempre attorno a Lui, c’è, infine, chi vede in quel “noi” un semplice e appropriato plurale maiestatico. Anche l’espressione “a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” è oggetto di diverse interpretazioni. La maggior parte degli studiosi sostiene che, poiché Dio non ha corpo, la rassomiglianza di cui parla il Genesi non può non essere che spirituale e riguardare l’anima, dove risiede l’intelligenza, l’amore e la libera volontà. Questa posizione la troviamo espressa nel Catechismo cattolico: Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, [Cf Mt 16, 25-26; Gv 15, 13] oppure tutta la persona umana [Cf At 2, 41]. Ma designa anche tutto ciò che nell’uomo vi è di più intimo [Cf Mt 26, 38; Gv 12, 27] e di maggiore valore, [Cf Mt 10, 28; 2Mc 6, 30]ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: “anima” significa il principio spirituale nell’uomo (Catechismo, par. 363) . . Il corpo dell’uomo partecipa alla dignità di “immagine di Dio”: è corpo umano proprio perché è animato dall’anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel Corpo di Cristo, il tempio dello Spirito [Cf 1 Cor 6, 19, 44 – 45] (Catechismo, par. 364). . Il Catechismo, ricorrendo al linguaggio paolino, non è di tranquilla comprensione, ma non ci sono dubbi che per la Chiesa Cattolica solo l’anima è a immagine di Dio, e che il corpo acquista dignità perché ne è il contenitore. Ma – restando sempre nell’ambito cristiano – c’è chi sostiene, al contrario, che l’intero uomo è fatto a immagine di Dio; costoro basano la loro convinzione sul fatto che nel Genesi venga usato il vocabolo selem che, etimologicamente, significa riproduzione, copia concreta e, incerti casi, simulacro (2); sul fatto che in diversi punti del libro emergerebbe una concezione antropologica di Dio, dovuta sicuramente all’influenza degli altri popoli orientali nei cui miti è diffusa l’idea che Dio forgia a sua immagine il corpo umano; e sul fatto che altri libri dell’A.T. si richiamano ad un’immagine antropomorfica di Dio e degli angeli: L’anno della morte del re Ozia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto ed elevato; le estremità delle sue vesti riempivano il Tempio. Dei serafini stavano davanti a lui; ciascuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due i piedi e con due volava. E gridavano l’uno all’altro dicendo: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti, tutta la terra è ripiena della tua gloria” (Is 6, 1 – 3).
Io vidi il Signore che stava in piedi, vicino all’altare… (Am 9, 1). . E sul firmamento che era al di sopra delle loro teste, apparve come una pietra di zaffiro, in forma, in forma di trono, una figura in sembianze d’uomo, che vi si ergeva sopra (Ezech. 1, 26). . L’opinione di molti filosofi è che non Dio ha forgiato l’uomo a sua immagine, ma, al contrario, l’uomo, spinto dalla sua megalomania, ha dato a Dio le sue sembianze. Un sostegno a questa rispettabile tesi potrebbe essere il fatto che il più antico documento biblico, quello Jahvista, non accenna ad alcuna somiglianza Diouomo. Dio modella con della terra l’uomo e gli dà la vita; e in questa operazione che forgia l’uomo-terra (adam – adama) non c’è distinzione tra corpo e anima: Allora Jahvé Dio modellò l’uomo con polvere del terreno, soffiò nelle sue nari un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente. . A noi non interessa - per l’economia del nostro discorso - pronunciarci sulla questione “se l’uomo è simile a Dio nella sua totalità oppure solo nello spirito”; quello che ci preme sottolineare è che in ogni caso Adamo - secondo l’Antico Testamento - fu forgiato in una forma definitiva e immutabile nel tempo, a differenza di quanto diranno Charles Darwin e i suoi seguaci.
QUAL È LA RISPOSTA SCIENTIFICA SULL’ORIGINE DELL’UOMO?
La risposta scientifica va sotto il nome di sintesi neodarviniana o teoria sintetica dell’evoluzione. Essa è stata chiamata così perché consiste nella combinazione o sintesi della teoria di Darwin con i principi della genetica moderna.
QUANDO SI AFFERMA IL PENSIERO EVOLUZIONISTA? Nell’Ottocento si era ormai consolidata sul piano scientifico la convinzione che l’aspetto della crosta terrestre avesse, nel corso del tempo, cambiato i suoi connotati e che parimente fossero cambiate la flora e la fauna con la scomparsa di alcune specie e l’apparire di altre che prima non c’erano. Però ancora non si era trovata una spiegazione organica e compiuta del meccanismo dei mutamenti avvenuti sulla superficie del nostro pianeta. A partire dal secolo dei lumi le prove a sostegno di una spiegazione evolutiva della storia della vita sulla terra divennero sempre più numerose e schiaccianti. Infatti attraverso lo studio dei fossili, le osservazioni geologiche, le spedizioni scientifico- esplorative (come quella a cui partecipò lo stesso Darwin o quella compiuta da Bates e Wallace in Brasile) si era accertato che: 1) l’attuale superficie terrestre si è formata, strato dopo strato, nel corso dei tempi; 2) gli organismi hanno una lunga storia e sono cambiati nel corso di essa: quando Darwin vicino a Montevideo trovò dei fossili di armadilli giganti, non poté non collegare il ritrovamento col fatto che solo in quelle pianure continuavano a vivere questi mammiferi corazzati, deducendone che la specie vivente dovesse discendere da quella estinta; 3) esiste sulla superficie terrestre una impressionante varietà di specie vegetali e animali, che presentano omologie e somiglianze tali da supportare l’ipotesi di una discendenza comune: ad esempio, animali diversi come i coccodrilli, gli uccelli, le scimmie presentano la stessa disposizione ossea negli arti anteriori; tutti i vertebrati hanno quattro arti e tutti i mammiferi sette vertebre cervicali. Insomma il confronto anatomico mostra una comune struttura fondamentale che, però, varia nei diversi rappresentanti di un determinato tipo. È impressionante come gli embrioni dei vertebrati (uomo compreso) inizialmente siano quasi indistinguibili, naturalmente con lo sviluppo le differenze emergono e si evidenziano. Sulla base delle scoperte dell’Embriologia, Haeckel affermò che l’embrione nel corso del suo sviluppo attraversa gli stadi definitivi dei suoi antenati, ma sarebbe stato più esatto dire che attraversa gli stadi degli organismi meno evoluti dai quali sarebbe derivato. In conclusione tutte queste somiglianze e differenze possono interpretarsi solo attribuendo loro rapporti evolutivi; 4) gli organismi si adattano all’ambiente in cui vivono attraverso dei “miglioramenti” graduali. Tuttavia non c’è una corrispondenza costante tra ambiente e specie di organismi; infatti luoghi con clima e topografia simili sono spesso popolati da organismi molto differenti. Ciò prova che la dislocazione degli esseri viventi è legata alla loro stessa storia; 5) in quasi ogni specie animale e vegetale sono presenti organi “vestigiali” (involuti, atrofizzati) che, al contrario, sono sviluppati ed efficienti in altre specie. Prendiamo ad esempio l’uomo; in lui troviamo diversi organi rudimentali: l’osso coccige che corrisponde alla coda degli altri animali vertebrati; i muscoli auricolari, che a noi non servono più a nulla, si sono atrofizzati, ma i cani, i gatti, i cavalli con questi muscoli continuano a far muovere le orecchie; anche se inutilizzati continuiamo ad avere gli stessi muscoli retti con i quali i cavalli fanno vibrare la loro pelle; l’appendice caudale è forse l’esempio più interessante, essa è un grosso diverticolo intestinale a fondo cieco che svolge una importante funzione negli animali erbivori: gli alimenti ricchi di cellulosa richiedono un tempo molto lungo per la digestione e il cieco rappresenta la sede dove essi vengono depositati e digeriti in particolare ad opera dei batteri. Molto tempo fa i nostri antenati inizialmente erbivori hanno gradatamente preferito una dieta sempre più ricca di carne per cui, attraverso una serie di successive e improvvise modificazioni del patrimonio ereditario, sono stati selezionati quegli individui il cui cieco si è ridotto fino ad assumere dimensioni vestigiali. Questi e altri organi vestigiali, che trovano un motivo d’essere all’interno dell’evoluzionismo, mettono in difficoltà i sostenitori del creazionismo che non riescono a rispondere a questa domanda: perché Dio avrebbe creato degli organi inutili? Di fronte a queste impressionanti prove i sostenitori dell’immutabilità si trovarono in difficoltà, tuttavia non sono mancati i tentativi di conciliare l’innegabile cambiamento avvenuto nella storia della terra e il creazionismo dell’insegnamento biblico: alcuni scienziati (ad esempio Cuvier e Agassiz) hanno ipotizzato che il buon Dio ha creato nuove specie, man mano che si estinguevano quelle esistenti a seguito di cataclismi naturali. Ma la creazione speciale non è presente nella Bibbia ed è messa in discussione dall’enorme numero delle specie, mentre la teoria delle catastrofi è stata superata dagli studi del geologo Charles Lyell (1797 – 1875) il quale dimostrò che l’attuale superficie terrestre si è plasmata attraverso un processo lento e lungo.
Le ipotesi che precedono quella di Darwin sono caratterizzate dal ricorso a qualche “forza” quasi soprannaturale come causa dei cambiamenti avvenuti sulla superficie terrestre. Lo stesso Lamarck, che per primo elaborò una teoria sistematica dell’evoluzione, non seppe rinunciare all’idea di un principio vitale universale come uno dei “motori” della trasformazione di ogni vivente. L’altro “motore” o forza era l’ereditarietà dei caratteri acquisiti: gli organi degli animali si possono sviluppare di più o di meno in base all’uso o al disuso che se ne fa nel corso della vita; questo potenziamento o indebolimento viene trasmesso dai genitori ai figli. Lamarck fa l’esempio della giraffa: gli antenati dell’attuale giraffa per raggiungere le foglie dei rami più alti incominciarono a tendere il collo verso l’alto; questo primo allungamento acquisito fu trasmesso alla generazione successiva che allungò il collo ancor di più e così via. Darwin non ebbe mai dati sufficienti per negare il principio lamarckiano della ereditarietà dei caratteri acquisiti, ma più volte manifestò i suoi dubbi, intuendo che le influenze dell’ambiente esterno sull’aspetto di un individuo non venivano trasmesse alle generazioni successive. Invece non ebbe alcuna esitazione nel rigettare ogni ricorso a forze metafisiche, estranee alla natura. Dopo aver raccolto una impressionante documentazione su fatti naturali che comprovavano la validità della dottrina evoluzionistica, egli ne darà una interpretazione strettamente razionale, meccanicistica, scientifica, senza ricorrere ad armonie prestabilite o a cause finali preesistenti. Se una qualche finalità c’è nell’evoluzione, essa è interna alla natura stessa.
COSA DISSE ESATTAMENTE DARWIN?
Per Darwin il meccanismo dell’evoluzione è dovuto a due fattori: variazione e selezione. La trattazione di questi due punti cardini parte dallo studio degli organismi domestici per estendersi poi agli animali e alle piante allo stato naturale. Nella metà dell’ottocento la Genetica muoveva i primi passi e pertanto la scienza dell’epoca non aveva ancora saputo individuare l’origine delle variazioni che possono insorgere negli individui di una specie. Questo limite è più volte denunciato da Darwin che, nel dubbio, non esclude, come abbiamo già detto, la tesi lamarckiana secondo la quale l’uso o non-uso degli organi determinato dall’ambiente genera mutamenti ereditari. Comunque sia, una variazione vantaggiosa ed ereditaria rende un animale più idoneo a lasciare una progenie che, a sua volta, si riprodurrà esaltando sempre più la nuova caratteristica: Ma se si verificano effettivamente delle variazioni utili ad un qualsiasi vivente, sicuramente gli individui che le possiedono avranno le più elevate probabilità di conservarsi nella lotta per la vita e, grazie al possente principio dell’ereditarietà tenderanno a produrre discendenti provvisti delle stesse caratteristiche (3).
Per il principio della divergenza più passa il tempo e più questi discendenti saranno diversi dal gruppo primigenio che, non godendo del vantaggio della mutazione, diventa sempre meno numeroso fino all’estinzione. È così che nuove specie soppiantano quelle da cui derivano. Le variazioni sono utili (ovviamente ci sono anche quelle dannose, ma esse non hanno storia perché conducono all’estinzione) se danno dei vantaggi nella lotta per l’esistenza: Che cosa Darwin intenda per lotta per l’esistenza, egli lo spiega egregiamente in questo passo: Devo premettere che impiego il termine lotta per la vita in senso ampio e figurato, comprendendovi la dipendenza di un essere dall’altro e (cosa più importante) comprendendovi non solo la vita dell’individuo, ma anche la sua probabilità di lasciare una progenie. Si può affermare che, in tempo di carestia, due appartenenti alla famiglia dei Canidi lottano effettivamente fra di loro per decidere chi prenderà il cibo e vivrà. Ma anche di una pianta ai margini del deserto si dice che lotta per la vita contro la siccità, anche se sarebbe più esatto dire che dipende dall’umidità. Di una pianta che produce annualmente un migliaio di semi, uno solo dei quali, in media, giunge a maturazione, possiamo più giustamente dire che lotta con le piante della stessa e di altre specie che già rivestono il suolo. Il vischio dipende dal melo e da alcuni altri alberi, però solo in senso lato si può dire che lotta con questi alberi, perché, se su uno stesso albero crescessero troppi parassiti, questo deperirebbe e morirebbe. Invece, si può dire, con maggiore verità, che parecchie pianticelle di vischio, nate l’una accanto all’altra sullo stesso ramo, lottano fra di loro. Dato che è disseminato dagli uccelli, l’esistenza del vischio dipende da questi, e, parlando figuratamente, si può dire che è in lotta con altre piante che portano frutti, nel tentativo di attirare gli uccelli a mangiare, e quindi a diffondere i suoi semi a preferenza di quelli di altre piante. Per comodità impiego il termine generico di lotta per l’esistenza in questi molteplici sensi, che si fondono l’uno con l’altro (4).
La lotta per la vita è un nucleo essenziale della teoria darwiniana perché spiega il meccanismo della selezione in natura, senza ricorrere ad un artefice esterno che discrimini - come fa l’allevatore - l’organismo più dotato. La lotta per la vita ha scongiurato questo pericolo, lasciando la spiegazione nell’ambito dei fenomeni naturali. Darwin ha desunto la legge della selezione naturale dalla dottrina di Malthus che - riferendosi all’uomo - riteneva che ben presto sarebbe stato impossibile sfamare tutta la popolazione, perché la sua crescita geometrica era sproporzionata all’accrescimento aritmetico dei mezzi di sussistenza. La sovrappopolazione umana, secondo Malthus, poteva essere eliminata o da fattori naturali (carestie, malattie) che riducono la popolazione oppure da azioni umane come le guerre e il controllo delle nascite. Leggendo An Essay on the Principle of Population, Darwin intuì che tutte le specie animali e vegetali, non potendosi moltiplicare indefinitivamente, vivono in un continuo stato conflittuale per salvaguardare la loro esistenza e la loro perpetuazione nelle generazioni successive: Grazie a questa lotta per la vita, qualsiasi variazione, anche se lieve, qualunque ne sia l’origine, purchè risulti in qualsiasi grado utile ad un individuo appartenente a qualsiasi specie, nei suoi rapporti infinitamente complessi con gli altri viventi e col mondo esterno, contribuirà alla conservazione di quell’individuo e, in genere, sarà ereditata dai suoi discendenti. Quindi anche i discendenti avranno migliori possibilità di sopravvivere, perché, tra i molti individui di una data specie, che vengono periodicamente generati, solo un piccolo numero riesce a sopravvivere. A questo principio, grazie al quale ogni più piccola variazione, se utile, si conserva, ho dato il nome di selezione naturale, per farne rilevare il rapporto con le capacità selettive dell’uomo (5). In base alla teoria della selezione naturale solo gli individui che riescono ad avere la meglio nella lotta per l’esistenza sui propri concorrenti (che possono essere della stessa specie e/o di altre specie) si riproducono e si diffondono; quelli che soccombono in questa lotta si estinguono. Usando la terminologia di Spencer possiamo dire che la selezione naturale opera scegliendo il “più adatto” e scartando “il meno adatto”.
Ai tempi in cui scriveva L’Origine delle Specie, Darwin già pensava che anche l’uomo fosse sottoposto alle stesse leggi evolutive delle piante e degli animali. Ma, per non accrescere i pregiudizi verso la sua teoria e per avere più tempo nella raccolta delle “prove” sull’origine dell’uomo, si limitò a questo fugace accenno posto nell’ultimo capitolo: “Nel remoto futuro…si farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia”(6). Nella sua autobiografia egli presenterà questo preannunzio come dettato dalla sua onestà intellettuale: Nell’Origine delle specie non viene discussa la derivazione di nessuna specie particolare: tuttavia pensai che fosse meglio aggiungere, affinché nessuna persona onesta potesse accusarmi di nascondere le mie idee, che il libro “avrebbe gettato luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia (7).
Nel 1871 Darwin rompe gli indugi e pubblica L’Origine dell’Uomo, lo fa perché ritiene che i tempi siano ormai favorevoli e perché ritiene valido il materiale che nel frattempo aveva raccolto e ordinato: Ma quando constatai che molti naturalisti accettavano in pieno la dottrina dell’evoluzione delle specie, mi sembrò consigliabile rielaborare gli appunti di cui ero in possesso e pubblicare un trattato particolare sull’origine dell’uomo (8).
Nell’opera di Darwin la logica estensione del principio generale dell’evoluzione anche all’uomo è suffragata da uno studio comparato tra l’uomo e gli altri vertebrati, tra l’uomo e gli altri mammiferi, tra l’uomo e le scimmie antropomorfe. Questo studio - condotto a livello morfologico, fisiologico e anche psicologico - dimostra che le affinità si fanno sempre più strette man mano che, nel confronto, saliamo la scala vertebrati-mammiferi-scimmie. E poiché le differenze anatomiche tra l’uomo e le scimmie antropomorfe sono davvero poche si afferma che l’uomo discende dalle scimmie. In effetti l’uomo non deriva dalle scimmie, bensì da un antenato comune. Da questo antenato attraverso un lento processo divergente si sono formate le varie forme di scimmie cinomorfe, di scimmie antropomorfe, e l’Homo sapiens.
Mancavano ai tempi di Darwin le prove che la paleontologia ricaverà dalla documentazione fossile umana. A quei tempi, l’unico reperto di cui si aveva notizia erano alcune ossa trovate a Neanderthal, un ritrovamento a cui non era stato dato eccessiva importanza dagli scienziati. La teoria di Darwin alimentò subito un’accesa polemica tra sostenitori ed avversari dell’origine scimmiesca dell’uomo. Quasi sempre, gli argomenti tirati fuori furono poco scientifici e viziati da convinzioni religiose o filosofiche. Ma gli antievoluzionisti ebbero dalla loro parte le istituzioni civili e, soprattutto, religiose, così vinsero il primo round, anche perché la ricerca scientifica indicata da Darwin ebbe una stasi. Darwin, saggiamente, non si lasciò mai trascinare nel clamore della sterile polemica, ma s’impegnò nel suo lavoro nel tentativo di chiarire meglio i punti oscuri e di colmare le lacune della sua teoria. Egli non riuscirà a portare altre prove significative per i limiti inerenti alla biologia dell’epoca. Sarà una nuova branca della biologia, la Genetica, a dare una risposta ai dubbi di Darwin sulle variazioni e sull’ereditarietà. Da allora l’evoluzionismo si riproporrà prepotentemente e con successo.
IN CHE MODO LA GENETICA HA CONFERMATO LA TEORIA DARWINIANA?
La genetica ha trasferito il discorso delle variazioni e dell’ereditarietà a livello molecolare, scoprendo che nei cromosomi, che stanno nel nucleo delle cellule, ci sono tante unità submicroscopiche chiamate geni. I geni costituiscono il patrimonio ereditario che si trasmette di generazione in generazione, ma i geni possono modificarsi e le caratteristiche determinate da un gene modificato sono trasmesse come ogni altro carattere ereditario. Nel 1902 il botanico olandese Hugo de Vries chiamò tali bruschi cambiamenti ereditari mutazioni. La mutazione, fenomeno che sta alla base dell’evoluzione, consiste in una lieve e casuale variazione della struttura chimica di un gene (“allele” è il termine tecnico per indicare il cambiamento di stato di un gene). Le mutazioni genetiche si verificano durante la riproduzione sessuale, quando avviene un riassorbimento dei geni: in modo del tutto accidentale e imprevedibile può accadere che la “copia” del DNA sia dissimile dall’originale. Da queste scoperte prese avvio la genetica evoluzionistica o genetica di popolazione che mantenne come asse portante la teoria di Darwin della selezione naturale. La combinazione della teoria di Darwin con i principi della moderna genetica è detta sintesi neodarwiniana o teoria sintetica o sintesi moderna dell’evoluzione. La moderna teoria genetica della selezione naturale parte dal concetto che ogni popolazione - un gruppo di organismi che si riproducono tra loro; ad esempio, tutti i pesci che vivono nello stesso bacino d’acqua, i moscerini della frutta dentro una bottiglia, le piante di un’isola - presenta un suo pool genico: la somma di tutti i geni di tutti gli individui della popolazione. In un certo senso i geni di un pool sono in competizione, per cui, quando casualmente si è formata una variante di gene, il nuovo “allele” influenza la probabilità di sopravvivenza e di riproduzione dell’individuo interessato. Se la mutazione non è favorevole, sarà ridotta o eliminata nella generazione successiva, ma se è favorevole essa verrà trasmessa di generazione in generazione e finirà col caratterizzare il pool genetico. L’evoluzione, a livello dei geni, è il risultato di tali cambiamenti accumulati nel pool genico col passar del tempo. In altre parole: a livello di popolazione avviene che “La mutazione può avere l’effetto di migliorare l’adattamento di un individuo al suo ambiente. Questi avrà maggiori probabilità di raggiungere l’età della riproduzione e di trasmettere questo vantaggio ai suoi discendenti. Si vedrà apparire così una nuova popolazione d’individui dotati di tale mutazione. Questa popolazione crescerà più rapidamente delle popolazioni non favorite e si imporrà ben presto grazie al vantaggio del numero” (9). Il successo riproduttivo dipende, oltre che dalle varianti genetiche favorevoli, anche dalle interazioni tra i singoli organismi e il loro ambiente (compresi altri organismi), ad esempio una pianta, anche se geneticamente ben predisposta, non formerà fiori e quindi frutti e quindi semi se non sono soddisfatte certe precise condizioni ambientali. È per questo che gli eventi biologici, quelli fisici e climatici vengono sempre associati nello studio delle ere geologiche. La genetica ha comunque sciolto i dubbi che aveva Darwin sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti, dando torto a Lamarck. Quando si parla dell’azione dell’ambiente, bisogna distinguere se essa avviene sugli organi o sul patrimonio genetico. Nel primo caso le modificazioni non vengono trasmesse per via ereditaria nel secondo caso si. In altre parole quando l’ambiente modifica l’aspetto esterno o fenotipo di un individuo, tali caratteri non sono ereditari; così, ad esempio, se un uomo o un animale (ma l’esempio può valere pure per una pianta), a causa di una superalimentazione, riesce a diventare più imponente dei propri genitori, la mole, dovuta a questi fattori ambientali (l’alimentazione), non verrà trasmessa ai figli, i quali, se si atterranno ad una normale alimentazione, avranno la corporatura dei nonni. Allo stesso modo se un individuo riesce a sviluppare muscoli eccezionali facendo ginnastica, egli non trasmetterà la sua muscolatura ai figli, a meno che non si dedicheranno anche essi alla ginnastica. Invece quando l’ambiente va a modificare la struttura molecolare dei geni, tali mutazioni geniche sono trasmesse alla progenie. Fattori ambientali che possono modificare la struttura molecolare dei geni possono essere le radiazioni elettromagnetiche e corpuscolari, le oscillazioni di temperatura, gli agenti chimici; così - come purtroppo è accaduto - organismi animali e vegetali esposti a sorgenti di radiazioni ionizzanti hanno subito delle mutazioni sfavorevoli che hanno trasmesso alla discendenza.
È POSSIBILE RICOSTRUIRE IL PASSATO DELLA TERRA?
La teoria evoluzionistica è ormai accettata universalmente dal mondo scientifico. Le discussioni riguardano alcuni aspetti particolari, ma le tappe principali dello sviluppo della vita sulla terra sono ormai fissate e condivise. Fondamentale nella ricostruzione di questa appassionante vicenda è stato lo studio dei fossili rinvenuti in ogni parte del mondo. Circa tre miliardi e mezzo di anni fa la terra era ricoperta quasi interamente dalle acque (poco profonde) e sovrastata da un’atmosfera ricca di idrogeno, ammoniaca e metano. In questo periodo (chiamato Precambriano) una serie di reazioni chimiche all’interno degli oceani diede origine ad alcuni organismi semplici, unicellulari: era la vita. Dopo un paio di miliardi di anni vaste formazioni di alghe ricoprivano i fondali
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più bassi. Grazie alla fotosintesi clorofilliana la composizione dell’atmosfera si modificò, arricchendosi di ossigeno libero: si crearono le condizioni perché potessero sorgere organismi più complessi. 530 milioni di anni fa iniziò il periodo che gli studiosi chiamano Paleozoico. Il Paleozoico è ricco di fossili perché vi abbondano le rocce sedimentarie, infatti le terre emerse costituivano allora due grandi masse continentali separate da uno stretto mare. Comparvero le prime piccole piante terrestri e poi grandi foreste, come testimoniano gli estesi giacimenti di carbone fossile. Nei mari si svilupparono i pesci (che furono i primi vertebrati) e, 200 milioni di anni dopo, i primi anfibi. Verso la fine dell’era, sulle terre emerse, erano numerosi anche i rettili. Il Paleozoico durò oltre 300 milioni di anni. L’era successiva, detta Mesozoica, fu caratterizzata dal sorgere delle prime piante con fiore e seme protetto (angiosperme), dalla straordinaria diffusione di enormi rettili e dalla comparsa dei primi piccoli mammiferi. Sempre in questo periodo a causa del movimento delle placche continentali si andavano formando gli oceani. Alla fine dell’era, per un evento improvviso, ancora inspiegato, scomparvero i dinosauri e i grandi rettili; ciò favorì lo sviluppo e la diffusione dei mammiferi. Circa 65 milioni di anni fa iniziava il periodo Cenozoico, durante il quale una intensa attività orogenetica, vulcanica e sismica faceva assumere alla crosta terrestre grosso modo l’attuale connotazione, anche la flora e la fauna assunsero caratteristiche non dissimili dalle attuali. Alla fine di quest’era gli ominidi, primati simili all’uomo, hanno assunto la posizione eretta come testimoniano alcuni resti rinvenuti in Africa. Ma è nell’ultimo periodo geologico, il Neozoico (duemilioni di anni fa), che comparve l’Homo erectus. Egli aveva uno scheletro simile al nostro anche se più bassa statura; La fronte era bassa; le mandibole e i denti grossi e il mento sporgente; Il suo cranio, spesso e massiccio, era più voluminoso rispetto a quello degli ominidi. Grazie alla sua maggiore intelligenza costruì strumenti sempre più efficaci sia per la caccia sia per la vita quotidiana, dominò meglio il fuoco, migliorando la sua alimentazione, elaborò un linguaggio elementare e una certa organizzazione comunitaria. Dovevano ancora passare molte centinaia di migliaia di anni prima che dall’Homo erectus si passasse all’ Homo sapiens. In questo nostro antenato le forme del corpo erano più affinate, il cranio più arrotondato e più voluminoso. Egli fabbricò strumenti più sofisticati ed efficaci, utilizzando, oltre alla pietra, altri materiali come l’osso e l’avorio. A lui risalgono il rivoluzionario passaggio ad una vita più sedentaria basata sull’agricoltura e la più antica tradizione artistica: i dipinti trovati nelle caverne. Il successivo sviluppo dell’arte, della fabbricazione dei manufatti, dall’organizzazione sociale sarà opera dell’Homo sapiens sapiens. Siamo ormai sulla soglia della storia.
LA RICOSTRUZIONE NEODARWINIANA DEL PROCESSO EVOLUZIONISTICO NON HA PUNTI DEBOLI?
Dopo le conferme e i chiarimenti apportate dalla moderna genetica, il concetto di evoluzione è entrato a far parte del comune patrimonio culturale. Ma sebbene l’evoluzione sia ormai un fatto incontrovertibile, non mancano le discussioni, anche all’interno del mondo scientifico, specialmente sui fattori che ne sono la causa. Ad esempio ci sono studiosi che contestano i due eventi base del processo darwiniano: la causalità delle mutazioni e la selezione naturale. L’evoluzione è un passare da organismi semplici ad organismi sempre più complessi. Non è possibile - affermano in molti - che questo complicato processo sia il prodotto di una serie di eventi puramente casuali; anzi, le leggi della probabilità suggeriscono il contrario, e cioè che “le mutazioni casuali in biologia tenderebbero a degradare, piuttosto che a migliorare, la complessa adattabilità degli organismi” (10). Siccome ciò non avviene si deve concludere che ci sono delle cause finali (o un intelletto divino) che dirigono il processo evolutivo. “Concetti simili sono alla base di molte delle credenze religiose riguardanti l’evoluzione. Per esempio, all’inizio del secolo, Lecomptes du Noys sostenne che l’evoluzione non procede a caso, ma si dirige verso un fine prestabilito da una
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divinità trascendente. Il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin assunse una posizione alquanto differente. Egli propose questa tesi: l’evoluzione non obbedisce nei minimi dettagli a un progetto preesistente, ma tende nel complesso a convergere verso uno stadio finale ancora da raggiungere – che egli chiamò ‘punto Omega’, rappresentante la comunione con Dio” (11). Volendo prescindere da questi estremismi religiosi, molti scienziati ritengono che per una spiegazione esaustiva della formazione di organismi complessi bisogna cercare dei principi che vadano al di là della casualità. Anche se si dimostra che il caso può mutare i geni di un individuo, “è molto più difficile dimostrare che vi sarà un accumulo sistematico di miriadi di tali variazioni tale da produrre uno schema coerente di avanzamento della specie” (12). A queste critiche i sostenitori del neodarwinismo rispondono che non tutte le mutazioni si diffonderanno a un’intera popolazione, e che sono più numerose le variazioni destinate a scomparire che quelle che attecchiscono. l’evoluzione è un procedimento lento e graduale, costellato di una lunga serie di mutazioni spesso inutili. Lo stesso Darwin rilevò che non tutti gli adattamenti sono uguali (e tanto meno perfetti, ma proprio la loro imperfezione costituisce una prova a favore dell’evoluzione), e cita a tal proposito i vari “espedienti” utilizzati dai fiori per attrarre gli insetti, tramite i quali diffondono il polline. Sulla selezione naturale gli antidarwiniani attaccano l’idea di progressivo miglioramento ad essa collegata. Già Engels aveva sostenuto che l’errore di Darwin consisteva “nel fatto che egli nella selezione naturale o sopravvivenza del più adatto mescola due cose assolutamente diverse: 1. selezione per la pressione della sovrappopolazione, nel qual caso forse sopravvivono in primo luogo i più forti, ma anche quelli che sotto molti aspetti sono i più deboli possono farlo; 2. selezione per maggiore capacità di adattamento a circostanze modificate, nel qual caso i sopravviventi sono più adatti a queste circostanze, ma tale adattamento da un punto di vista complessivo può rappresentare tanto un progresso quanto un regresso (per es. adattamento alla vita parassitaria, sempre regresso)” (13).
L’ottimistica conclusione darwiniana, secondo la quale il passaggio da organismi semplici o inferiori ad organismi complessi o superiori è avvenuto perché questi ultimi, adattandosi meglio all’ambiente, si sono moltiplicati di più, viene contestata così: se prendiamo come criterio di successo il numero, dovremmo dire che organismi semplici o inferiori come i batteri per la facilità con la quale si moltiplicano hanno più successo degli organismi complessi, e che quindi la semplicità consente una maggiore adattabilità all’ambiente. Conclusione, il criterio darwiniano non spiega perché la storia biologica abbia proceduto dal semplice al complesso. Secondo Davies è “assai più probabile che la complessità si sia manifestata in biologia in quanto parte dello stesso principio generale che governa la comparsa della complessità in chimica e in fisica, e cioè le improvvise transizioni non casuali verso nuovi stati di maggiore organizzazione e complessità che si verificano quando un sistema viene allontanato dall’equilibro e incontra dei <punti critici>” (14). Ma il vero punto debole del neodarwinismo è, secondo molti studiosi, il problema dell’origine della vita. Il passaggio dalla materia non vivente alla materia vivente rimane ancora oggi un mistero: come può l’assemblaggio (per di più casuale) di alcune sostanze inorganiche creare una cellula vivente? L’ignoranza sul punto di partenza del processo evoluzionistico ha generato diverse ipotesi: 1)l’ipotesi che nasce dallo sforzo di concordare l’antica concezione religiosa con il moderno darwinismo. Secondo i neocreazionisti una mente superiore ha creato le prime forme di vita, dando, così, il via all’evoluzione; 2)l’ipotesi extraterrestre, secondo cui i primi microrganismi sono giunti sul nostro pianeta dallo spazio. Questa teoria ha avuto poco successo perché non risolve il problema dell’origine della vita, ma lo rimanda in un altro momento e in un altro luogo; 3)l’ipotesi neodarwiniana della generazione spontanea. Nel 1924 il biochimico russo Oparin avanzò l’ipotesi che le prime molecole organiche complesse siano il risultato di una combinazione casuale di semplici molecole organiche (contenente carbonio) e inorganiche presenti nell’atmosfera durante lo stadio della formazione della Terra, e cioè metano, acqua, idrogeno, ossigeno, ammoniaca. L’energia necessaria per realizzare la combinazione fu fornita probabilmente dalle radiazioni ultraviolette, elettromagnetiche e corpuscolari che dovevano bombardare la terra in formazione. La teoria di Oparin fu verificata in laboratorio nel 1935 da Harold Urey e da Stanley Miller. I due scienziati americani costruirono un apparecchio nel quale una miscela di metano, acqua, idrogeno e ammoniaca venne esposta continuamente a delle scariche elettriche.Dopo diversi giorni nel recipiente si era formato un liquido torbido, rossastro e nauseabondo, nel quale si scoprì che c’era un certo numero di composti organici importanti per la vita come alcoli, zuccheri, grassi e aminoacidi. L’esperimento innestò subito una vivace polemica anche perché il suo valore dipendeva dall’effettiva simulazione dell’ambiente del nostro pianeta tre o quattro miliardi di anni fa; cosa di cui non possiamo essere assolutamente certi. La maggior parte degli scienziati ritenne che, come nell’esperimento, il primitivo brodo oceanico fosse scuro, nauseabondo e ricco di molecole appena formatesi. Proseguendo l’incessante gioco delle combinazioni si ebbe la formazione di molecole complesse come le proteine, gli enzimi e soprattutto il DNA (acido desossiribonucleide) grazie al quale avviene la riproduzione a livello molecolare. Successive aggregazioni molecolari, detti coacervi, costituiranno le prime cellule. “È molto probabile che le cellule o strutture di tipo cellulare primordiali siano state eterotrofe, cioè incapaci di sintetizzare molecole organiche complesse utilizzando molecole semplici quali CO2, H2O, H2 e CH4. D’altra parte esse non potevano dipendere da altri organismi, in quanto non esistevano, per cui è presumibile che all’inizio si siano nutrite delle sostanze organiche disciolte nell’acqua degli oceani in cui si svilupparono. In tal modo la riserva organica andò esaurendosi e conseguentemente si selezionarono strutture di tipo cellulare capaci di sintetizzare molecole organiche complesse da molecole più semplici. Tali cellule, chiamate autotrofe, dovevano essere molto semplici, simili a cellule batteriche. Infatti alcuni anni fa sono stati scoperti nelle rocce del litorale del Lago superiore (America del Nord), solidificatesi circa 2,7 miliardi di anni fa, dei fossili microscopici che somigliano alle più semplici alghe moderne. Tale scoperta farebbe pensare che circa due miliardi di anni fa si sia verificato un altro evento di fondamentale importanza, la fotosintesi, che provocò dei cambiamenti rivoluzionari nell’atmosfera, tra cui la liberazione dell’ossigeno dalle molecole d’acqua. […] Ebbe così inizio l’evoluzione di organismi sempre più complessi fino all’uomo […] E non è a credere che l’evoluzione sia terminata con l’uomo e con
le altre numerose specie animali e vegetali viventi. Essa è un processo attuale lento e inesorabile verso mete non prevedibili” (15).
DARWIN, PADRE DELL’EVOLUZIONISMO MODERNO, FU RELIGIOSO?
Charles Darwin evitò sempre di farsi coinvolgere nella polemica socio-filosofica che le conclusioni della sua ricerca avevano alimentato. Questo impegno di non allontanarsi dai fatti scientifici, che mise nei suoi scritti, dimostra che lo scienziato era consapevole dell’enorme impatto destabilizzante che la sua teoria avrebbe avuto nei confronti della tradizione cristiana. L’impossibilità di accordare l’evoluzionismo con la verità rivelata dovette essere per lui motivo di un sofferto travaglio interiore che lo porterà gradualmente verso una posizione agnostica - il termine era stato creato dal naturalista Thomas Huxley, suo amico e seguace, per indicare l’inconcepibilità dell’Assoluto – che è in genere la posizione di chi sta in mezzo al guado, nel senso che non riesce a dare un taglio alla religione nella quale è cresciuto, anche se non ne condivide tutti gli articoli di fede. Il giovane Darwin, quando partì (1831) a bordo del Beagle, era credente e sosteneva la tesi dell’immutabilità del creato. Poi, le osservazioni naturalistiche, fatte durante il viaggio, lo convinsero della validità della tesi evoluzionista, la quale, a suo parere, non contrastava con l’idea di un Dio-creatore, anzi, al contrario, ne aumentava ed esaltava la dignità. Ciò è detto nel saggio del 1842 e ribadito in quello del ’44: Vi è molta grandezza in ogni essere organico esistente sia come successore diretto di una qualche forma ora sepolta sotto migliaia di piedi di solida roccia che come discendente della forma sepolta di un qualche più antico e completamente perduto abitante di questo mondo. È in accordo con quello che sappiamo delle leggi date dal Creatore sulla materia che la produzione e l’estinzione delle forme sia come la nascita e la morte degli individui, il risultato di strumenti secondari. Sarebbe indegno del Creatore di infiniti Universi aver fatto con atti singoli del suo volere le miriadi di striscianti parassiti e vermi che dai primi albori della vita hanno dilagato sulla terra nelle profondità del mare. Noi non ci meravigliamo più che un gruppo di animali sia stato creato per deporre le uova nelle viscere e nelle carni di altri esseri, ch alcuni animali vivano godendo della crudeltà, che altri vengano fuorviati da falsi istinti, che ogni anno si verifichi una perdita incalcolabile di polline, di uova e di esseri immaturi perché in tutto ciò vediamo l’inevitabile conseguenza di una grande legge, quella della moltiplicazione degli esseri organici che non sono stati creati immutabili. Dalla morte, dalla carestia e dalla lotta per l’esistenza, vediamo che è scaturito direttamente il fine più alto che siamo in grado di concepire e cioè la creazione degli animali superiori. Senza dubbio la nostra prima reazione è di non credere che qualche legge secondaria potrebbe produrre un numero infinito di esseri organici ciascuno caratterizzato dalla più accurata rifinitura e dall’adattamento più esteso: in un primo momento si accorda meglio con le nostre facoltà supporre che ciascuno abbia avuto necessità del fiat di un Creatore. Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita con le sue numerose forze di crescita, di riproduzione e di senso, originariamente impresse nella materia in poche forme, forse soltanto in una e nel fatto che, mentre questo pianeta continuava a girare secondo le leggi immutabili della gravità e mentre la terra e l’acqua si sostituivano l’una all’altra, da un’origine così semplice, attraverso la selezione di infinitesime varietà, si evolvevano innumerevoli forme le più belle e le più meravigliose (16). La concessione di Darwin a favore della religione cristiana non poteva andare alla luce della sua teoria - al di là di una generica affermazione dell’esistenza di una divinità creatrice di quella natura iniziale sulla quale avrebbe agito il caso della evoluzione. Diciamo “il caso”, perché egli negò decisamente ogni tipo di finalismo che avrebbe ridotto l’evoluzione allo svolgimento di un disegno prestabilito; invece altri naturalisti-credenti, di fronte all’evidenza dei fenomeni evolutivi, penseranno di salvare la verità rivelata inventando, senza alcun supporto scientifico, l’evoluzionismo creazionistico secondo il quale l’evoluzione consisterebbe nella progressiva attuazione di un progetto divino. Per Darwin non c’era alcun progetto prestabilito all’interno della natura; tuttavia egli pensava ottimisticamente - influenzato sicuramente dal clima culturale della sua epoca - che la storia andava nel verso della perfezione.
Un altro punto sul quale Darwin fu irremovibile nel suo convincimento fu l’impossibilità di accordare l’evoluzionismo col racconto biblico della creazione. Così Darwin con le sue ricerche non rivoluzionò solo la scienza della biologia, ma la concezione culturale che si aveva sull’uomo e sul suo ruolo all’interno del sistema naturale. Lo sconvolgimento scatenato dalle idee di Darwin è stato, giustamente, paragonato a quello operato dalla nuova astronomia di Copernico e di Galileo un paio di secoli prima. La nuova astronomia aveva relegato la terra in un punto qualsiasi dell’universo, privandola di quella centralità che le veniva sancita dall’Antico Testamento. Adesso, la nuova biologia pretendeva di considerare l’uomo alla stregua di ogni altro essere vivente che ha percorso faticosamente la sua strada evolutiva, privandolo di quel ruolo centrale che gli era stato divinamente attribuito dal testo biblico, e liberandolo dalla pesante responsabilità di avere introdotto volontariamente il male nel mondo.
IL PUNTO SUL SESTO CAPITOLO
. I filosofi hanno da sempre ricercato un criterio per stabilire se una affermazione fosse vera o falsa e oggi si è giunti alla conclusione che il criterio più importante è quello della verificazione che si realizza attraverso una serie di osservazioni o esperienze che sono altrettante prove della veridicità o falsità di una affermazione. Una verità supportata da una serie di verifiche acquista una tale evidenza oggettiva da ottenere un necessario ed universale consenso mentale, divenendo così una certezza. L’importanza dell’evidenza come garanzia dell’oggettività del conoscere è stata sottolineata da molti filosofi come l’antico Epicuro, il seicentesco Cartesio e diversi studiosi contemporanei, come Brentano e Husserl, che l’hanno contrapposta ad altri criteri di verità come quello della coerenza logica o della semplicità. In filosofia si distinguono tre tipi di evidenza: quella psicologica, quella sensibile e quella razionale. La scienza fa uso delle ultime due, mentre la religione si appoggia a quella psicologica che ha un carattere fortemente soggettivo, per cui un individuo considera certo ciò che gli appare tale senza aver promosso alcuna verifica. In questo caso l’evidenza è un sentimento oscuro che manca di quella oggettività che la scienza riesce a raggiungere utilizzando gli altri due tipi di evidenza. Insomma se la certezza coincide con la verificazione, allora solo le teorie scientifiche possono dirsi certe, invece le dottrine religiose sono verità senza certezze. Facciamo un esempio. Se ci troviamo di fronte alla proposizione “I pianeti girano attorno al sole”, anche l’uomo più scettico può essere convinto che si tratta di un’affermazione vera, invitandolo a verificare con i propri occhi attraverso i telescopi spaziali. Dopo aver visto (ma di solito ci fidiamo degli scienziati del settore) egli acquisterà una salda certezza su quel fatto astronomico. Se viene detto “Maria si preservò vergine prima e dopo il parto”, non essendoci possibilità di verifica, non si può affermare che questa proposizione sia vera. Il fatto che simili affermazioni siano chiamati dogmi e che siano stati promulgati da qualche papa egregio e siano stati approvati da qualche Concilio non li rende più convincenti agli occhi di chi li considera con scetticismo. La certezza di una verità non sta nell’autorità di chi la dice, ma nella sua verificazione. Su questa semplice regola la scienza ha fondato le sue verità “e la società moderna riconosce universalmente che questa pretesa è fondata”(17). Questo spiega perché l’evoluzionismo biologico faccia parte ormai della comune cultura dell’umanità. Ma l’importante teoria scientifica non è riuscita a scalzare il bisogno religioso dalla nostra coscienza, per cui l’uomo contemporaneo vive in contraddizione con se stesso, in uno stato di permanente scissione, posto com’è di fronte a due verità inconciliabili tra loro: la ragione lo fa protendere verso la spiegazione evoluzionistica dell’universo e della vita, mentre il sentimento lo porta a professare una religione che si fonda sul creazionismo. Per meglio dire l’accettazione dell’evoluzionismo lo porta a negare la storia di Adamo e del peccato originale che è il presupposto della venuta del Cristo, mentre emotivamente rifiuta l’idea di ritrovarsi in un universo senza padrone.
NOTE AL CAPITOLO SESTO 1)S. Basilio; cfr. nella nota 26 de La Sacra Bibbia, ed. Paoline, 1964. 2)Cfr. in G. von Rad, Genesi, op. cit. 3) C.Darwin , L’origine della Specie, in L’evoluzione, grandi tascabili economici Newton, Roma 1994, pag. 270. 4) Idem, pag. 235 5) Idem, pag. 234 6) Idem, pag. 511. 7) C.Darwin, Autobiografia, in L’evoluzione, op. cit. pag.1013. 8) Idem, pag. 1013. 9) H. Reeves, L’Evoluzione Cosmica, op. cit., pag. 183. 10) P. Davies, Il Cosmo Intelligente, op. cit., pag. 142. 11) Idem, pag. 143. 12) Idem, pag. 145. 13) Engels Dialettica della natura, riportato in C. Darwin, L’evoluzione, op. cit., pag. 980. 14) P. Davies, Il Cosmo Intelligente, op. cit., pag. 159. 15) G. Chieffi, Biologia 2, Loffredo, Napoli 1981, pag. .342 – 343. 16) C. Darwin, Saggio del 1844, in L’evoluzione, op. cit., pag. 161. 17) L. GEYMONAT, Scienza e Filosofia nella Cultura del Novecento, Pagus Edizioni, Treviso 1993, pag. 3.