domenica 28 febbraio 2016

LA SICILIA COME TEMA

Il romagnolo Giovanni Agostino Placido Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855  Bologna, 6 aprile 1912) insegnò a lungo nell’Università di Messina, perciò conobbe bene la Sicilia e ne apprezzò le bellezze. Riportiamo la poesia dal titolo “L’isola dei poeti”.

Di fronte
m'eri, o Sicilia, o nuvola di rosa
sorta dal mare! E nell'azzurro un monte:
l'Etna nevosa.
 Salve o Sicilia! Ogni aura che qui muove
pulsa una cetra od empie una zampogna
è canta e passa…  Io era giunto dove

giunge chi sogna…




mercoledì 24 febbraio 2016

LA SICILIA COME TEMA



FICI LI BASSI NINO (Marsala 01/11/1889 – 17/02/1966)

Combattè come ufficiale sul Carso nella prima guerra mondiale.
Insegnò Lettere nel Ginnasio di Marsala e ne fu preside dal 1939 al 1960.
Il seguente sonetto “Erycina venus”, tratto dalla raccolta “Armonie ericine”, è stato inciso in una lastra di marmo murata alla Torre del Balio in Erice.

ERYCINA VENUS
Balza sul monte l'ora mattutina
ed il tempio, che svetta solitario
ad oriente, appare in un velario
d'oro e ne brilla il cielo e la marina.

Tenera e bianca, Venere ericina
 sboccia lucente, nel suo marmo pario,
sul grande altare, magico rosario
vivo di olezzi e tremolii di brina.

Ecco un frullo dal mare: il lungo volo
delle colombe sacre a citerea
s'alza sui mirti del montano suolo.

e si spande una dolce melopea
appena giunge il palpitante stuolo
messaggero d'amore per la dea.




venerdì 19 febbraio 2016

LA SICILIA COME TEMA

-Tu non conosci la Sicilia
le case bianche,
le donne nere,
le mani nodose degli uomini
come ulivi contorti-dalle bufere.
-Tu non conosci quest’isola,
la fatica di vivere
la simbiosi di pane e di pena,
l’ odio-amore di chi convive
col ghigno semita delle capre.
-Tu non conosci il sudore
delle piene giornate d’ estate
e il sole,questo sole crudele
che non consente ammiccamenti al
cuore se non nella sapienza del
dolore.
-E quando soffia il vento di scirocco,
respiri sabbia fino in fondo all’
anima
e ti senti deserto
privo d’ acqua e di frutti,
dialoghi con Pirandello
fra miraggi di mare
e sogni distrutti.
-Tu non conosci il sudario
che avvolge nel buio più profondo
l’anima inaridita
quando scende nel fondo
a scavare –con la vanga dei perché.
-E quando viene il grecale
e arriccia il naso
di fronte alle case del povero
e fischia con scherno
fra le tegole rotte dei tuguri,
vorresti tutto maledire e andare
lontano,in un mondo d’utopia
dove s’apre un’altra via
in un continente di lavoro.
-Ma lontano non ci puoi stare.
Ti senti ulivo,
ti senti ficodindia,
ti senti suono di marranzano
e tra le fessure della coscienza
apprendi il grande privilegio
di essere nato isola,
sempre assetato d’ignoto
dove ogni tua giornata
è piena di ex voto
al miracolo di essere un uomo.


Nino Muccioli



(1922-1999), poeta, studioso della storia e delle tradizioni popolari siciliane, fondatore del periodico “Il domani”, sindacalista e politico. È stato presidente del Centro di cultura mediterranea. Nel 2006 è stata fondata in suo onore la biblioteca “Nino Muccioli” a Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro, Storie, personaggi e luoghi segreti della Sicilia.

giovedì 18 febbraio 2016



UNA PAZZESCA CONFERENZA

racconto scritto per meetale contest - febbraio 2016






UNA PAZZESCA CONFERENZA


Il seguace Romualdo, seduto in prima fila, si rende conto che il maestro ha fatto bene a indossare il vecchio saio francescano; anche se logoro e rammendato emana il fascino glorioso di una bandiera sciupatasi in battaglia. Lui e suo fratello gli avevano preparato il kandura bianco, ma il messo di Dio lo aveva rifiutato. «Datemi la mia divisa di poverello» aveva ordinato. «Ma è consumata e rappezzata» aveva obiettato Romualdo. Al che, il sant’uomo aveva sentenziato: «Le toppe sono medaglie per chi vuole dare l’esempio di frugalità e di solidarietà verso i poveri».
Sì, l’eremita aveva avuto ragione. La tonaca marrone esalta il biancore della barba e dei capelli arruffati che incorniciano il viso, scheletrico per il digiuno cui sottopone il suo corpo.
Egli occupa, impassibile, il posto centrale del lungo tavolo, per nulla intimorito dal pubblico che riempie la sala-conferenze. Alla sua destra, il presidente del circolo, ingegner Rino Casciotta, parlotta con l’arciprete Lucentini, mentre alla sua sinistra si è insediata la moderatrice del dibattito, professoressa Bice Galletta, più arcigna del solito. Più isolato, nell’angolo corto della cattedra, sta Bartolo, il secondo discepolo, con un quaderno aperto davanti, pronto a prendere appunti; in questo momento è tutto teso a captare ciò che si stanno dicendo il presidente Casciotta e l’arciprete, ma è impossibile distinguere le loro voci in quel parlottio indistinto che riempie la sala, nell’attesa dell’inizio della conferenza.
Se tutti all’unisono facessero silenzio, si sentirebbe l’arciprete Lucentini che bacchetta il presidente del Circolo Culturale nel quale si sta svolgendo l’evento.
«Che razza di gente hai invitato?» sta dicendo il prete storcendo il muso per la contrarietà.
«Non ho invitato nessuno» si giustifica il presidente. «L’ingresso è libero».
«Sei un merlo!» sbotta il prete. «I comunisti hanno riempito tutta la sala».
Il presidente è grande e grosso, ma sotto il peso dei rimproveri del suo parroco si fa piccolo e puerile nelle giustificazioni.
«Non potevo prevedere…» frigna, e cerca di minimizzare: «…mezza piena…direi…».
Ma la sua arrendevolezza eccita ancor più l’ira del prelato che scuote rabbiosamente la sottana, mentre ribatte: «Piena o mezza piena, sempre troppi sono questi figli di satana».
Per arruffianarsi, il presidente soggiunge: «Anch’io li spedirei all’inferno!», ma ottiene come risultato di fare incazzare ancor di più l’uomo di chiesa, che esclama sdegnato: «Intanto te li fai entrare in casa!»
«Non ho fatto gli inviti, pensando che nessuno sarebbe venuto ad ascoltare quel vecchio pazzoide» spiega Rino Casciotta, accennando all’ex frate che sedeva serafico.
«Ah!» fa il prete come ricordasse improvvisamente una cosa importante che ancora non aveva detto. «Ieri mi dicesti: “Venga, venga che ci divertiremo alle spalle di quel vecchio matto e dei suoi due discepoli”. Mi vuoi spiegare come facciamo a divertirci con questi diavoli rossi pronti a gridare allo scandalo?»
Il presidente sta per fare ancora ammenda, ma ne viene esonerato dalla moderatrice che lo invita ad aprire i lavori.
Di solito il presidente, per esaltare la sua gigantesca stazza, tiene un portamento impettito che lo porta a guardare sempre verso l’alto,  adesso che le parole del prete gli bruciano dentro tiene gli occhi bassi come un penitente.
E quando attacca a parlare, la sua voce è flebile e piagnucolosa; ciò suscita l’ilarità di un gruppetto di comunisti in piedi in fondo alla sala. «Voce! Voce!» gridano gli scalmanati, come se fossero al cinema e venisse a mancare l’audio. Questo scherno scuote il presidente che torna in sé e comincia a recitare, gridando, il discorsetto che aveva preparato.
Egli è candidato per il partito cattolico alle imminenti elezioni di sindaco, e ha dato il permesso alla conferenza per fare campagna elettorale. E difatti, dopo aver ringraziato gli intervenuti, comincia a lodare se stesso come persona integerrima, come amante della propria città, come uomo di cultura (e la conferenza di questa sera lo dimostra), come buon cattolico amico ed estimatore dell’arciprete.
Man mano che parla, acquista sicurezza, imposta al meglio il tono della voce e ritrova il linguaggio forbito che lo distingue dagli altri politici locali che gli contendono la sindacatura.
 Il suo più temibile avversario nella corsa alla poltrona di sindaco è il comunista Enrico Monti, noto come avvocato dei poveri, perché è suo costume patrocinare gratuitamente i nullatenenti che incappano in qualche guaio con la giustizia. Per una strana legge di compensazione, l’avvocato è l’opposto del Casciotta sia per fisico sia per temperamento: è, infatti, magro, basso e continuamente irrequieto e permaloso come un gatto selvatico.
Mentre il presidente parla, il Monti si agita in continuazione, come se non stesse comodo né sull’una né sull’altra natica e tanto meno su entrambe. Oltre ad agitarsi, sbuffa sonoramente per dare enfasi al suo dissenso su quel panegirico che l’ingegnere sta facendo di sé, in una manifestazione che politica non dovrebbe essere. Ma, forse, egli è così infastidito perché si trova relegato in sala invece che in cattedra, come gli spetterebbe per il suo ruolo sociale.
A un certo punto, l’avvocato dei poveri comincia a fare segno alla professoressa moderatrice, militante del suo stesso partito, affinché intervenga a stoppare il democristiano. Tutti i compagni, presenti in sala, ripetono in modo più plateale quel segno, che consiste nel muovere l’indice e il medio come lame di una forbice. 
L’ordine del suo capo-partito rende oltremodo nervosa la professoressa, che si mette a tamburellare le lunghe unghie sulla superfice del tavolo.
Il ticchettio disturba l’oratore e lo fa inciampare su alcune parole sdrucciole, costringendolo a fingere un accesso di tosse per nascondere l’errato accento. I democristiani presenti in aula, vedendolo in difficoltà, gli battono le mani e lui ne approfitta per chiedere alla professoressa spiegazioni su quel comportamento.
«Che c’è?» chiede col labiale.
«Tempo scaduto» chioccia la moderatrice, mentre continua a raspare il legno.
Per evitare di impappinarsi ancora, il presidente conclude subito: «La moderatrice mi dice che sto parlando troppo e, siccome il conferenziere non sono io, penso che abbia ragione. Perciò do la parola a… fra Amedeo».
Alla chiusa scherzosa dell’ingegnere-presidente-aspirante-sindaco metà della sala applaude e l’altra metà fischia.
Quando la gente si ricompone, Amedeo si alza lentamente e parla con voce forte e limpida:
«Venendo qui, ho chiesto ai miei discepoli Bartolo e Romualdo: “Che dice la gente di me?” Essi hanno tergiversato, ma io ho insistito e alla fine mi hanno detto che la gente mi giudica un folle. Poi ho chiesto loro “Voi chi credete che io sia?” Mi risposero che ero il portavoce di Dio».
Queste parole suscitano un vespaio di fischi e sberleffi da parte democristiana, ma il vecchio non si scompone.
«Come fate a giudicarmi così severamente se non mi conoscete? Se ignorate la mia storia?» chiede con pazienza e poi, nel silenzio ricostituito, soggiunge: «Sappiate che Dio mi parla.  La prima volta che ho sentito la voce divina avevo otto anni ed era il giorno della mia prima comunione. Il prete mi aveva appena messo in bocca l’ostia e mi risuonò dentro un suono soave, una musica che divenne parola: “Mangerai solo di questo”. Una rivelazione più che un comando. Fu in quell’istante che decisi di farmi monaco».
Il vecchio fa una lunga pausa e Romualdo dal suo posto in prima fila lo sollecita a continuare: «Racconta anche della seconda volta!»
Il sant’uomo lo guarda perplesso, ma, vedendo che altri assentono con movimenti del capo, decide di accontentarlo, e continua: «Fra tutti gli ordini in cui potere entrare scelsi quello di San Francesco perché volevo vivere poveramente, pregando e diffondendo il messaggio del Signore. Perciò immaginate il mio sconcerto quando costatai che nel chiostro il cibo era un piacere e non una necessità. Siccome ero giovane e ingenuo, inizialmente pensai che ciò accadesse solo nel convento dove ero stato assegnato per il noviziato. Ma, man mano che mi sono girato tutti i conventi dell’isola, dovetti ricredermi. Anche se cercavo di mangiare poco, pensando alle tante persone che nel mondo muoiono di fame, non potevo fare a meno di avere un angosciante senso di colpa. Questo stato di cose durò finché la stessa voce che avevo sentito da piccolo non mi disse: “Amedeo devi dare l’esempio”. Fu allora che decisi di lasciare le comodità del monastero e farmi eremita».
L’arciprete Lucentini, vedendo gli astanti incantati da quel racconto, grida: «Non dategli retta. È uno spretato. Ha venduto la sua anima al diavolo».
Ma nessuno dà importanza alle sue parole, tanto meno il vecchio santone.
«Fratelli, io sono qui non per parlare di me, ma per annunciarvi che esiste solo Dio e che tutto il resto è ens rationis, cioè risiede nel pensiero divino. Tutte le cose fanno parte di Dio ma Dio è più della somma di tutte le cose. Questo è quello che affermo».
A queste parole, l’arciprete scatta in piedi e urla: «Eresia!»
«Giusto!» approva il presidente per convenienza politica, anche se non ha capito niente.
«Dio non esiste!» grida l’avvocato marxista. «Di che parliamo?»
La professoressa Galletta scatta in piedi e agita le braccia come fossero ali nel tentativo di far sedere gli altri. Nel frattempo strilla: «Zitti! Non interrompete l’oratore».
 Ma sono soprattutto gli occhi, minacciosi e iniettati di sangue, a intimorire anche i più scalmanati. Così tutti tornano a sedere, anche l’arciprete, e la moderatrice, compiaciuta del suo successo, torna a dare la parola al monaco che riprende il suo discorso come se non fosse stato interrotto.
«Per dimostrare quello che, poc’anzi, ho affermato, prendo in considerazione due attributi del dio giudaico-cristiano: l’amore e l’onnipotenza. Queste due qualità sono essenziali al concetto di Dio, e senza uno di essi, la divinità del soggetto al quale si riferiscono decade. In particolare senza potenza e/o bontà il dio biblico non sussiste».
Si ferma per dare tempo a tutti di assimilare le sue parole. Nella sala regna un silenzio assoluto e ciò gli fa venire qualche dubbio sulla comprensibilità del suo discorso, ma non se la sente di modificare la scaletta che si era preparata.
«Detto questo», prosegue, «sorge un problema: la presenza del male nell’universo pone in collisione l’onnipotenza con la bontà divina. Infatti, non si capisce perché un dio infinitamente buono non usi la sua onnipotenza per eliminare la sofferenza e la malvagità che travagliano la nostra vita. Insomma alla luce del male morale e fisico, presente in questo mondo, non è possibile ammettere la coesistenza in Dio della bontà e dell’onnipotenza. Le soluzioni della teologia filosofica a questo problema sono state due: o Dio è indifferente di fronte al male o è impotente».
Altra pausa. Ogni ascoltatore ne approfitta per guardarsi intorno al fine di rendersi conto se è solo lui a non aver capito nulla o se anche gli altri hanno le medesime difficoltà. Nessuno vuol ammettere per primo la propria ottusità, e così stanno tutti zitti, e il vecchio Amodeo, confortato da tanta attenzione, riprende a parlare.
«Solo il panenteismo, che vi ho annunciato all’inizio, risolve il problema: esso salva la compresenza onnipotenza-bontà e spiega il male di questo mondo senza incolpare nessuno (né Dio, né Lucifero, né l’uomo). Infatti bisogna negare l’esistenza di un qualcosa estraneo a Dio per non limitare la sua potenza…»
L’oratore non può terminare quest’ultima frase, perché l’arciprete scatta di nuovo in piedi. È paonazzo, al limite di un collasso, e qualcuno vede, addirittura, fumo uscirgli dalle narici. Il suo urlo è come una liberazione.
«Fantasie di un vecchio folle!»
«Giusto!» concorda il presidente.
Sta per scoppiare di nuovo la gazzarra ma il vecchio asceta fa un gesto con la mano e tutti si bloccano, riconoscendogli il diritto di replica.
«Se io sono folle, lo è anche chi mi ha illuminato con queste parole “In Dio viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”».
Un’ennesima pausa, uno sguardo di sfida per tutta la sala, e poi soggiunge: «San Paolo, atti 17, 27-28».
«Invito i buoni cristiani presenti ad abbandonare la sala» grida il prete e comincia a dare l’esempio.
Per raggiungere l’uscita deve passare alle spalle di chi siede al tavolo. Giunto all’altezza del frate eretico non riesce a vincere la tentazione: con gesto improvviso gli afferra i lunghi bianchi capelli, strattonandoglieli con forza.
Bartolo, che lo puntava pronto a scattare in caso di bisogno, con un balzo gli è addosso e gli morde il polso per fargli lasciare la presa; al che, l’ingegnere-presidente accorre a difendere il suo grande elettore, scaricando una serie di pugni sulla nuca di Bartolo per fargli sputare il polso del prete. Ma non aveva previsto la reazione di Romualdo che simile a un ginnasta, poggia la mano sinistra sul legno e salta il tavolo a piedi uniti e con gambe perfettamente distese, una volta atterrato afferra il corpulento aspirante sindaco per le orecchie, come fossero corna di toro, e lentamente lo piega a terra.
«Bravo!» urla il piccolo avvocato comunista, salendo sulla sedia per meglio godersi lo spettacolo dell’avversario abbattuto a terra.
Sfortunatamente per lui, un sostenitore dell’ingegnere si trova proprio alle sue spalle e gli dà un manrovescio che lo fa ruzzolare sul pavimento. Questo gesto diventa la causa occasionale per la resa dei conti tra rossi e bianchi. Non c’è esclusione di colpi – schiaffi, pugni, pedate, testate, dita negli occhi, tirata di capelli, sediate sulla schiena, torsione di naso, stirate di orecchie – finché non arrivano i carabinieri che, non sapendo leggere e scrivere, portano tutti in caserma.
































lunedì 15 febbraio 2016

LE SICILIANE

Custodisca Iddio una casa di Noto e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole!
Con nostalgia filiale anelo alla patria, verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne.
E chi ha lasciato l’anima a vestigio di una dimora, a quella brama col corpo fare ritorno….
Viva quella terra popolata e colta, vivano anche in lei le tracce e le rovine!
Io anelo alla mia terra, nella cui polvere si son consumate le membra e le ossa dei miei avi.

                                                                                                                Ibn Hamdis

Ibn Hamdis, nato a Siracusa nel 1056, Abbandonò la Sicilia dopo la conquista normanna della città (1078). Si rifugiò a Siviglia presso un amico, ma dal 1091 fu costretto a peregrinare in Tunisia, Algeria, Maiorca. Scomparve nel 1133.


venerdì 12 febbraio 2016

mercoledì 10 febbraio 2016

LE SICILIANE
Secondo il poeta Salvatore Quasimodo è la paura a spingere i Siciliani a costruire le loro case addossate l’una all’altra:
VICOLO
Una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch’è paura
di restare sole nel buio.


Nota: Il termine piano usato dal poeta non rende pienamente il significato di chianu di cui è traduzione, perché il termine dialettale oltre a significare uno spiazzo tra le case indica anche la comunità che vi abita attorno.

lunedì 8 febbraio 2016

TRE BARZELLETTE DI CICCIO (tali e quali)

Due amici si incontrano dopo tanto tempo.
Parlano del più e del meno ed uno di loro dice: “sai che quando arrivi a Milano, esci dall’aeroporto, ti fanno salire in macchina e senza pagare ti portano in albergo, al ristorante, un giro per la città, al teatro, al museo e dopo alcuni giorni ti riaccompagnano all’aeroporto, sempre senza pagare niente?”
Davvero!?” Risponde l’amico, “e tu quando ci sei stato?”
“Mica io, c’è stata mia sorella!!!”



A notte fonda un uomo, completamente ubriaco, gira intorno ad un lampione, guardando a terra.
Si avvicina un agente in servizio notturno e gli chiede:
-        Scusi, ma lei cosa sta facendo?
-        Hic, sto cercando, hic, le chiavi di casa. Hic.
-        L’agente comincia a cercare guardando a terra e dopo qualche tempo chiede:
-        Ma qui non ci sono; è sicuro di averle perse sotto questo lampione?
-        Certo che no, hic, le ho perdute, hic, in fondo a questa via, hic.
-        E allora, perché le cerca qui?
-        Hic, perché qui, hic, c’è più luce, hic.




Squilla il telefono e il macellaio risponde al telefono: Pronto, macelleria del corso!
Una voce d’uomo, fra un colpo di tosse ed uno starnuto, gli dice:
-        Sono Mario Rossi, quello che ieri ha prenotato un coniglio, una lepre e tre fagiani, si ricorda?
-        Certo che mi ricordo; glieli mando subito!

-        Non, no le ho telefonato per dirle che li può vendere perché stamani ho la febbre e non posso andare a caccia!!!

venerdì 5 febbraio 2016

FOTO STORICHE: la tempesta di bombe su Marsala (11/05/1943).



Foto scattate dal bombardiere

mercoledì 3 febbraio 2016

POESIA DEDICATA A ME STESSO (Per la millesima volta)






Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.

 Gabriele D’Annunzio : “ La pioggia nel pineto" (1902)