sabato 30 gennaio 2016

Una favola per adulti e piccini, divertente e ricca di spunti meditativi.


IL GALLO CRESTONE
Favola di Alberto Di Girolamo

Crestone aveva un aspetto molto bellicoso dovuto al becco adunco, alla cresta a coppa che si ergeva sulla testa arrotondata simile a un torrione, al ciuffo di penne nere simile a un pennacchio militare e soprattutto agli speroni che sporgevano dalle zampe possenti come spade affilate.
Quest’aspetto aggressivo non corrispondeva, però, alla natura di Crestone che era un animale d’indole gentile e trattava tutti quelli che abitavano nella fattoria di Peppino con estrema cortesia e educazione. Anche all’interno del pollaio, dove avrebbe potuto esercitare la massima autorità, non prevaricava nessuno e le gallinelle potevano fare i loro comodi. A differenza dei galli che lo avevano preceduto, quando arrivava il cibo, era sempre l’ultimo ad accostarsi alla scodella del mangime, e se, qualche volta, la trovava vuota non se la prendeva a male, ma vi scherzava su, dicendo che il digiuno faceva bene alla linea.
Crestone non era un guerriero, ma, in compenso, era un artista: un cantore così eccezionale, che tutti gli animali della fattoria si svegliavano prima dell’alba, per ascoltare i suoi gorgheggi all’arrivo della luce.
Di questo successo canoro egli ne andava fiero ed era l’unico motivo che lo rendeva vanaglorioso; per tutto il resto la modestia era la sua regola.
Siccome tutti gli volevano bene, non si allarmò quando il fattore Peppino, una sera, al crepuscolo entrò nel pollaio, lo prese in braccio e lo portò via. La manovra si svolse in silenzio e in pochi minuti, per cui le gallinelle, immerse nel sonno, non si resero conto di nulla e l’indomani mattina cominciarono a favoleggiare sulla misteriosa sparizione del gallo Crestone. Dopo molto starnazzare, fu accreditata l’ipotesi che fosse partito alla ricerca di ben più ampi successi per il suo bel canto.

In realtà il gallo era stato venduto dal fattore Peppino a un mercante che, a sua volta, lo rivendette, con un ampio margine di guadagno, a un impresario che lo portò nella capitale e lo allogò in uno scantinato semibuio, dove c’erano altri tre galli rinchiusi in altrettante gabbie.
Il nuovo padrone prima di allontanarsi ebbe a dirgli: «Sicuramente darai un grande spettacolo».
Crestone, cui l’ottimismo non difettava, pensò subito a uno spettacolo canoro e tutto contento intonò una serie di trilli con tonalità diverse. Si aspettava che i compagni di prigionia emettessero un coro di ammirazione, invece si levò un chiocciare di disapprovazione. “Giustamente protestano perché gli ho guastato il sonno” pensò Crestone senza perdere il suo buon umore e si sistemò come meglio poté per la notte.
L’indomani mattina, al primo tocco di luce penetrato attraverso la grata del sotterraneo, Crestone riprese con i suoi virtuosismi, sicuro di avere quel successo che la sera prima gli era stato negato.
Dopo il finale gorgheggiato, nella stanza grigia, cadde un silenzio innaturale, che fu , infine, interrotto dal pennuto che stava di fronte
«Canti molto bene, ma non ti servirà a nulla in questo posto» disse da guastafeste qual era.
«Qui dentro forse no, ma sicuramente sarò premiato nello spettacolo al quale il padrone mi farà partecipare» ribattè con convinzione Crestone.
«Per avere successo in quello spettacolo, bisogna avere ben altre qualità» intervenne il pollastro sopra di lui, come se si fossero messi d’accordo per contraddire il nuovo arrivato.
«Eppure ho avuto sempre apprezzamenti lusinghieri» disse perplesso Crestone.
«Forse c’è un equivoco». A parlare questa volta fu l’inquilino alla sua destra. Egli volle essere chiaro fino alla brutalità: «Lo spettacolo al quale siamo destinati consiste nell’azzuffarci tra di noi pennuti».
«Sarà per finta!» suppose Crestone.
«Si vede che sei campagnolo!» esclamò l’altro, sfiduciato da tanta ingenuità.
E Crestone ancora incredulo: «Dobbiamo fare sul serio?».
«Ma certo!» affermò serioso quello dirimpetto. «Fino a quando uno dei due lottatori muore».
E Crestone, un po’ preoccupato: «E voi avete già combattuto?».
«Cinque volte», affermò l’inquilino a destra, «e ho sempre vinto».
«Sei forte, allora…» disse Crestone ammirato.
«Per questo mi chiamano Potenza» disse l’altro, ma non c’era orgoglio nella sua voce.
Crestone stette per un pezzo in silenzio a meditare su ciò che gli era stato svelato, ma la fiducia che aveva negli umani non era stata ancora del tutto abbattuta perché chiese: «E loro, gli umani, si divertono a vederci becchettare a vicenda?».
«Urlano come dannati!» affermò colui che stava nella gabbia più in alto.
«Strano!» fece Crestone pensieroso. «Io non mi divertivo quando il fattore litigava con la moglie». E dopo una pausa, soggiunse: «Anzi mi preoccupavo, perché dimenticavano di portarci il mangime».
«Quelli sono diversi da noi» sentenziò Potenza. «Sanno essere violenti anche quando non è necessario».
Nella stanzetta, ancora illuminata da un pallido raggio di luna, tornò a regnare un pesante silenzio, Crestone e i suoi compagni meditavano sulla loro sorte infelice.

In quella quiete assoluta lo squittio del piccolo topo rimbombò come un’eco sorda.
«Chi va là?» gridò Crestone sulla difensiva, svegliando i suoi compagni.
«Che c’è? Che succede?» chiesero in coro.
«Sono io» si affrettò a identificarsi il topo. «Parmiggino».
«Che caspita vuoi?» chiese con verso rauco, il pennuto che stava più in alto.
E Potenza, assai scocciato: «Ci disturbi ogni notte».
«Fate cadere un  po’ del grano che il vostro padrone vi ha messo nel beccatoio» li pregò il sorcio.
«Vai a mangiare altrove» gli ingiunse bruscamente il terzo gallo, quello in alto. «Il cibo che abbiamo serve a noi per metterci in forze in vista dei combattimenti che dobbiamo affrontare».
«Parassita!», «Scroccone!» gli gridarono Potenza e l’altro compare, senza degnarsi di dare spiegazioni al loro rifiuto.
Umiliato da quei modi inurbani, Parmiggino fece dietrofront e cominciò ad avviarsi verso l’uscita, quando dall’alto precipitò, a cascata, una massa di grano che lo avrebbe colpito in testa se non fosse stato abbastanza svelto nello scansarsi.
«Chi diavolo è stato?» chiese il topo con il cuore che gli batteva a mille per lo spavento.
«Scusa, non ti volevo colpire» disse mortificato Crestone.
«E che volevi fare?» chiese il topo ancora inviperito.
«Darti il mio cibo» affermò Crestone, stupito che il mammifero non avesse capito da se il senso dell’arrivo di tutto quel ben di Dio.
«A te non serve il cibo?» chiese Parmiggino, temendo una trappola, magari mentre mangiava gli poteva arrivare in testa qualcosa di ben più pesante.
«No!» rispose il gallo tristemente.
«Tu non devi combattere domani?» chiese Parmiggino, assaggiando prudentemente un chicco isolato.
«Forse sì!» affermò il gallo, con un filo di voce.
«E allora perché mi hai dato il tuo cibo?» chiese il topo, cominciando a seguire una fila di granaglie che lo portava verso il mucchio grosso.
«Perché non cambierà nulla avere lo stomaco vuoto o pieno» spiegò Crestone, lasciando trasparire tutto il magone che lo opprimeva.
A quell’affermazione, che ritenne presuntuosa, Il topo arrestò la sua marcia verso il tesoro e alzò la testa per osservare il suo interlocutore.
«Ti senti molto sicuro di te, a quanto pare» costatò, e non sapeva se rallegrarsi o preoccuparsi.
«È vero il contrario» disse Crestone. «Ho una fifa tremenda».
«Senza mangiare sarà peggio» lo avvertì il topo.
«Morirò in ogni caso» affermò rassegnato Crestone. «Tanto vale che ti sazi tu».
«Che ti posso dire?» fece Parmiggino. «Grazie!». E riprese la sua marcia lungo la fila dei chicchi, finché arrivò al mucchio e vi si rotolò sopra felice.
Per qualche momento se ne stette zitto, mangiando a quattro palmenti, poi si fermò come se fosse stato colpito da un’idea e si rivolse di nuovo verso il suo benefattore.
«Ehi, amico!» chiamò.
«Sì?» fece quello, moscio moscio.
«Come ti chiami?»
«Crestone».
«Che strano nome».
«È per via della cresta spropositata».
«Capisco!» assentì Parmiggino che dal basso non vedeva la famosa cresta. Poi soggiunse: «Ti piacerebbe fuggire?»
«Sono in gabbia».
«Lo so che sei in gabbia, ma a te piacerebbe fuggire?» chiese di nuovo il topo.
«Certo che mi piacerebbe» affermò il gallo, indignato dalla domanda oziosa. «Chi non lo sarebbe al mio posto?»
«Allora vengo a liberarti!» affermò Pamiggino, senza mezzi termini.
E in quattro salti, sfruttando i chiodi infissi nel muro per appendere le gabbie, fu all’altezza di Crestone.  
Lo sportello della gabbia era tenuto chiuso da un sistema molto semplice: un anellino di ferro, inchiodato al bordo dello sportello, combaciava perfettamente con un altro fissato nel telaio, i due cerchietti metallici erano tenuti ben saldi tra loro da un pezzetto di legno a scalpello.
«Bisogna far uscire dagli anelli il piolo» disse Parmiggino dopo aver esaminato la chiusura.
«Il piolo?» chiese Crestone che per l’eccitazione non capiva più nulla.
«Il cavicchio, il paletto, il picchetto…» cominciò a elencare il topo e avrebbe continuato se non fosse stato interrotto.
«Ho capito, ho capito».
«Si può sapere da dove vieni?» chiese il topo stupito della povertà di linguaggio dell’amico pennuto.
«Dalla fattoria di Peppino!» affermò con fierezza Crestone convinto che fosse una masseria importante e conosciuta.
«Ah, vieni dalla campagna!» esclamò Parmiggino con sufficienza, come a voler dire: adesso si spiega tutto.
«Che si fa?» chiese il gallo, preoccupato per quella perdita di tempo.
«Tu spingi lo sportello ed io cercherò di estrarre il piolo» propose il topo.
E così fecero, ma, per quanto si sforzassero, il cuneo legnoso non si mosse.
«Fermiamoci un poco» ordinò Parmiggino, ansimando.
«Va bene!» concesse Crestone.
Ma la sua impazienza montava come panna e non riuscì a stare fermo mentre il topo tirava il fiato. Si trattò di mezzo minuto ma a lui, che era dentro, sembrò un’eternità, per cui appena il topo disse: «Ricominciamo!» si lanciò contro le gretole ferrose come un ariete.
«Non così forte» gli raccomandò l’amico mammifero. «Fai andare fuori asse gli anelli».
Prova e riprova, tira e spingi, alla fine il cuneo si mosse e, dopo che si allentò, fu facile al topo tirarlo fuori. A Crestone per la gioia gli venne di cantare ma il suo liberatore lo tacitò, la prudenza non era mai troppa con gli umani.
Vedere quelle maledette stecche di fil di ferro spostarsi fu per Crestone l’evento più emozionante della sua vita. E appena lo sportello fu tutto spalancato non ci pensò due volte a saltare giù in un sol balzo.
Appena atterrato, il galletto, sempre con le ali aperte, si avviò di corsa verso l’uscita, ma Parmiggino, che con pari velocità era arrivato a terra, lo fermò.
«Aspetta!» gli gridò dietro. «È meglio che mangi, potrebbe passare molto tempo prima di poterlo fare».
«Non ho appetito» disse Crestone, stoppando la sua corsa.
«Mangia lo stesso» insistette Parmiggino. «Dobbiamo fare una lunga corsa per allontanarci da qui».
Tacque e si concentrò in una riflessione profonda per ricordare qualcosa che aveva dimenticato.
«Ti dovevo dire un’altra cosa… Ti dovevo dire un’altra cosa…» ripeteva mentre si lambiccava il cervello. «Ecco! Ci sono!» annunciò trionfante alla fine. «Dove andiamo, uscendo da qui?»
«Vorrei tornare alla fattoria di Peppino» disse Crestone, cominciando a beccare i chicchi con voracità. Non aveva appetito ma fame tanta!
«E tu non mangi?» chiese Crestone senza perdere il ritmo del suo beccheggiare.
«Non posso!» rispose l’amico.
«Come mai?»
«Per tirare quel maledetto piolo mi sono rotto un dente e mi fa male tutta la mascella» spiegò il topo.
Crestone interruppe il suo pasto e guardò l’amico con occhi commossi.
«Oh! mi dispiace» disse.
«Non ti preoccupare» lo rassicurò Parmiggino. «Passerà».
I rumori e le voci dei due fuggitivi avevano svegliato gli altri tre galli che, superato lo stupore di vedere Crestone liberamente razzolare per terra, cominciarono a pregare il topo.
«Libera anche noi» lo esortò Potenza.
«Non ci abbandonare!» implorò il gallo sopraelevato.
«Ti sapremo ricompensare» promise quello che stava di fronte.
«Per liberare Crestone mi sono rotto un dente», disse loro Parmiggino, «e non posso rischiare di romperne qualche altro per aiutare voi».
«Che vuoi che sia», ribatté superbamente Potenza, «un tuo dente, rispetto alla nostra libertà?»
«Forse non sarà niente…», rifletté a voce alta il topo, «ma voi non meritate questo mio sacrificio, dopo che mi avete rifiutato un po’ di cibo».
I tre pennuti in gabbia non seppero cosa ribattere a questo ragionamento e se ne stettero zitti, rasseganti al loro destino di lottatori.

Crestone e Parmiggino corsero a perdifiato, cercando di farsi notare il meno possibile dagli umani dei quali non si fidavano affatto. Corsero rasentando i muri, percorrendo cunette e infilandosi nei canali sotterranei che il topo conosceva come le sue tasche. Corsero tutto il giorno e cominciava a imbrunire quando le case della città divennero più rade e a notte fonda si ritrovarono in aperta campagna, sentendosi più tranquilli si rintanarono sotto un cavalcavia e si addormentarono stretti nella loro amicizia.
La strada che li aveva protetti dall’umidità era più che altro una trazzera di campagna, dissestata e deserta.
«Urge procurarsi delle calorie o morremo» disse Parmiggino, svegliato dai morsi della fame che ancora era buio.
«Ma come parli?» chiese Crestone, impressionato dal suo dire.
«Devi sapere che sono stato per lungo tempo un topo di biblioteca» gli spiegò Parmiggino.
«E allora?» chiese Crestone che continuava a non capire.
E il topo con pazienza: «Ho mangiato tante di quelle pagine scritte che molte parole difficili mi sono rimaste sullo stomaco».
«Caspita!» fece Crestone. «Adesso capisco!» E dopo una pausa di riflessione: «La prossima volta che vedrò un libro, invece di cacarci sopra, me lo beccherò tutto così saprò parlare difficile anche io».
«Fai bene!» lo incoraggiò il topo. «Parlare forbito è una bella cosa, ti dà un tocco di nobiltà e impressiona gli altri».
«Che vuol dire forbito?» chiese Crestone nella sua ignoranza.
«Lo saprai quando avrai beccato uno scaffale intero» rispose l’amico. «Intanto pensiamo a beccare qualcosa di commestibile».
L’orizzonte cominciava a essere spaccato da una lama di luce grigia, quando i due amici giunsero su una collina che dominava il panorama. Proprio sotto la collina, nell’altro versante, scorsero delle case costruite dagli uomini.
«È una fattoria» disse Crestone che di costruzioni campagnole se ne intendeva.
«È quella di Peppino?» chiese il topo, sperando che fossero arrivati.
«Non credo proprio» disse Crestone, «ma, dove vi è una fattoria ci sono animali e dove ci sono animali il mangime non manca».
«Bene!» fece Parmiggino. «I vocaboli ti mancano ma la logica ce l’hai».
«La logica?» fece perplesso Crestone.
E l’altro: «Lasciamo perdere, e avviamoci di corsa».
La corsa fu leggera e veloce, perché tutta in discesa e sul morbido per il tappeto di erba rugiadosa.
«Alt!» comandò Crestone, quando furono a una decina di metri da una stalla. «È meglio avvertire del nostro arrivo, non vorrei che ci prendessero per ladri».
«Fai tu!» concesse il topo. «Questo è il tuo mondo».
«Li delizierò col mio canto» disse Crestone e si riempì il petto d’aria.
 Emise un chicchirichiiii possente e modulato nello stesso tempo che si spanse lontano come una carezza vellutata per qualunque orecchio. Stava preparandosi all'ultima nota, la più alta che gola di gallo avesse mai emesso, quando gli arrivò uno scarpone sul becco aperto  che gli fratturò la punta adunca. Il crac della rottura fu così impressionante che il topo non poté fare a meno di esclamare: «Accidenti!»
Crestone rimase stordito per il colpo, ma non sentì dolore perché si trattava in fondo di una cartilagine poco sensibile, ma il suo amor proprio ne fu profondamente ferito, tanto che dubitò che in quella fattoria amassero gli animali come da Peppino.
«Il tuo canto mi ha stupefatto» gli disse il topo, in parte perché era vero, in parte per consolarlo.
«Grazie!» disse il gallo, scuotendo la testa nel tentativo di riprendere padronanza di sé.
«Ascoltandoti», continuò Parmiggino in vena di fare complimenti, «ho sentito un brivido».
«Di piacere?» chiese giustamente il gallo.
E Parmiggino, un po’ imbarazzato: «Di paura…»
«Questo non me lo aveva detto mai nessuno» commentò il gallo, non sapendo che atteggiamento assumere.
«La tua melodia è stata tanto incantevole da ricordarmi un certo pifferaio» spiegò Parmiggino.
«Non capisco…» borbottò il gallo tenendo il becco scheggiato nell’erba umida.
«Con la sua musica ammaliante riusciva a trascinare i topi nel fiume e a farli annegare».
E il gallo, incredulo: «Ha fatto questo?»
«Non so se è accaduto davvero o se trattasi di una storia scritta in uno dei tomi che ho ingoiato».
«Io per ora ingoierei un’intera biblioteca» disse il gallo che stava riacquistando il suo buon umore.
«Sai come diciamo noi topi?»
«Come dite?»
«Chi non risica non rosica».
«Che tradotto per un gallo di campagna, significa…»
 «Significa che dobbiamo entrare in quel capanno e cercare qualcosa da mangiare» concluse Parmiggino che si sentiva svenire per la troppa fame.
E così fecero.

Appena nel capanno, furono investiti da una serie di muggiti malinconici e prolungati che spaventarono oltremodo il topo fino a spingerlo a tornare indietro, ma Crestone lo trattenne, parandogli a ventaglio la sua ala.
«Sono solo delle mucche» lo rassicurò.
Il topo guardò meglio e disse: «Hai ragione! Mi ha ingannato la poca luce. Per un momento ho creduto che si trattasse di quei draghi o mostri di cui parlano i libri che ho divorato».
«Mi sembra che il tuo nutrirti di libri non ti sia servito molto» considerò Crestone.
«Hai ragione!» ammise amaramente Parmiggino. E poi soggiunse, sempre in preda allo sconforto: «Invece di andare a vivere in biblioteca dovevo stabilirmi nel mercato ortofrutticolo. I miei coetanei che hanno scelto questa residenza adesso sono pasciuti e con la dispensa piena».
«Però non conoscono le parole difficili!» cercò di consolarlo l’amico gallo. Cosa difficile perché il topo era caduto in una profonda depressione.
«Non si vive di parole» disse con grande frustrazione il mammifero.
Non sapendo che dire il gallo citò una frase che il fattore Peppino ripeteva sempre, quando spargeva nell’aia poco mangime.
La frase era: «Chi si contenta gode!»
Ma Parmiggino, sempre più malinconico, obiettò: «In questa stalla non c’è proprio nulla di cui godere. Vedo solo paglia  e fieno».
«Ci sono le mucche» gli fece notare di nuovo Crestone.
«Ci mangiamo le mucche?» Chiese sbalordito il topo.
Crestone emise un’inquieta risata, perché non aveva capito se fosse una battuta o se il suo amico si fosse rincitrullito.
In ogni caso gli spiegò: «Mucche uguale mangime di cereali, caro mio». E poi soggiunse: «Se glielo chiederemo, ce ne faranno mangiare un poco».
A quella prospettiva il topo si riprese dalla sua mestizia: «Che aspettiamo, allora?». E si avviò, ma appena uscì da sotto l’ala protettrice, tornò a rintanarsi spaventato da quello che aveva visto. Un gigante, una montagna umana incombeva su di loro; il topo rievocò nella mente gli orchi che numerosi aveva ingoiato, raffigurati nei volumi spariti nel suo stomaco; pensò a questo e rabbrividì violentemente fino a fare tremare Crestone che lo covava.
Il presunto orco – che poi era il fattore – per quanto grosso e grasso con una veloce manata afferrò il gallo, dicendo: «E tu che ci fai qui?».
 Crestone reagì alla presa, agitando le zampe allo scopo di colpire l'aggressore con l'unghia uncinata dello sperone, ma l'uomo, che portava spessi guanti da lavoro, non si lasciò impressionare e aumentò la stretta, tuttavia Crestone riuscì a liberare una delle ali che cominciò a sbattere furiosamente, allora l'uomo con una mossa fulminea cambiò presa e afferrò il pennuto dal collo. A questo punto il gallo si dovette quietare perché più si dibatteva più rischiava di soffocare.
Tenendolo col braccio teso, l'uomo portò fuori dalla stalla il gallinaceo senza tanti complimenti e con voce trionfante si mise a chiamare la moglie.
«Delicata! Oh Delicata!»
Da una delle finestre dell’abitazione si affacciò una faccia di luna assonnata e sbadigliante.
«Che diavolo vuoi?» chiese contrariata.
«Guarda che preda» disse l’uomo alzando in aria il gallo e scuotendolo per farlo notare dalla donna. «Ho preso un gallo che era nella stalla».
«Rimettilo nel pollaio» gli ordinò la moglie. E poi borbottò: «C’è bisogno di gridare come se fosse scoppiato fuoco?»
«Ma non è il nostro gallo, Delicata» specificò l’uomo, deluso dal freddo riscontro della compagna.
E la moglie del tutto disinteressata: «Tanto piacere! Mettilo lo stesso nel pollaio».
«Sai bene che due galli nello stesso pollaio non possono stare» disse il marito che nel frattempo si era accostato alla finestra.
«E allora che ne facciamo?» chiese Delicata, priva di idee.
«Che ne dici di un bel brodino, stasera?» propose il marito con tono complice.
E la moglie, alla quale non c’era cibo che bastasse, sorrise felice: «Mi sembra un bel programma».
«Ho fatto bene a disturbarti?» chiese il marito a cui piaceva molto essere lodato.
«Benissimo, marito mio».
E il marito, soddisfatto: «Te lo consegno. Non lasciartelo scappare. Io vado a mungere le mucche».
La presa della fattoressa attorno al collo di Crestone non fu per niente più delicata di quella del marito.
«Entro un’ora sarà nella pentola» assicurò la donna. «Ci faremo pranzo e cena».

Strascicando i piedi a causa della sua obesità, Delicata trasportò il gallo in cucina, dove lo sbatté sul tavolo. Approfittando dello stordimento dell’animale gli lasciò il collo e gli legò le zampe con dello spago. Poi da un cassetto trasse una scure da macellaio e l’alzò per decapitare il povero Crestone, ma prima che l’accetta calasse giù si sentì uno squittio sibiloso.
Sempre con il braccio in alto, come la statua della libertà, il donnone guardò in basso, ai suoi piedi. E che vide? Un topo, un lurido topo sporco di letame che minacciava di mordere il suo alluce. A quella vista il pachiderma umano cominciò a sudare freddo e poi emise un urlo così potente da fare stappare il tetto della casa, contemporaneamente saltò su una sedia che si sfasciò per il peso eccessivo, facendo precipitare a terra la femmina con le sottane svolazzanti come bandiere.
Nel mentre che le pareti della casa tremavano per il rovinoso capitombolo, Parmigginò salì sul tavolo, rosicchiò con i denti lo spago stretto alle gambe del suo amico e, sostenendogli l’ala sbilenca, lo guidò fuori da quella casa e poi lontano dalla fattoria maledetta.

Quando furono al sicuro, Parmiggino raccontò all’amico come si fosse nascosto, alla vista dell’energumeno fattore, sotto il letame e come fosse entrato in casa dalla finestra per intervenire al momento opportuno.
«Grazie, amico mio!» gli disse Crestone incapace di trattenere le lagrime. «Ho visto la morte in faccia».
«Anch’io ho disperato di poterti salvare» disse il topo associandosi alla commozione dell’amico.
«Non credevo che gli umani fossero così crudeli» affermò con tristezza Crestone.
«La maggioranza lo è» affermò Parmiggino. «Io ne ho esperienza».
E Crestone: «Solo quando mi troverò nella fattoria di Peppino mi sentirò al sicuro».
«Non ci resta che raggiungerla» disse fiducioso Parmiggino.

Il cammino verso la fattoria di Peppino fu lungo nel tempo, perché Crestone era veramente mal ridotto.  Dopo tutte quelle traversie il povero gallinaceo contava la punta del becco spezzata, la cresta accartocciata a involtino, il collo attorto come corda afflosciata, un’ala spezzata e lo splendido piumaggio, che continuava a perdere pezzi lungo la strada, ridotto a cespugli spelacchiati, tanto che rifiutava di voltarsi indietro per non vedere fluttuare nell'aria quieta del mattino le sue piume.
Il topo era messo un po’ meglio ma anche lui zoppicava, gli dolevano le gengive e il prurito, provocato dal letame che gli si essiccava addosso, lo torturava, costringendolo a fermarsi per strofinarsi per terra.
Per questo loro camminare a singhiozzo, il sole era già salito alto nel cielo, quando Crestone scorse un tetto spiovente di tegole rosse che si stagliava su una bassa collina.
Mormorò: «Io lo conosco quel magazzino, ma si! È quello di Peppino».
 Anche se loro forze erano al limite dello svenimento, la meta vicina diede lena alla loro marcia e quando arrivarono sul poggio, trovarono tutti gli abitanti della fattoria riuniti nell’aia (un piccione in volo nei d’intorni aveva avvistati i due viandanti, avvertendo tutti gli altri). Al loro apparire vi fu un coro scomposto di versi e il fattore Peppino andò loro incontro con una fascia di denti ingialliti al posto della bocca. Egli prese in braccio Crestone e, commosso, gli chiese perdono per averlo venduto, costretto dalla necessità.
Crestone, magnanimamente, come si conviene in ogni favola che finisce bene, gli concesse il perdono e gli chiese il permesso di ospitare il suo amico Parmiggino a cui doveva la vita, più di una volta.
Peppino, sollevato dall’indulgenza ricevuta, fu ben lieto di accontentare il suo gallo.
Disse: «Può restare quanto vuole, a mie spese. Del resto nella fattoria ci sono tanti topi… che uno più uno meno non cambia nulla».
Parmiggino, non volendo fare la parte dello scroccone, chiarì che si sarebbe guadagnato ogni boccone; al che il fattore chiese cosa sarebbe stato capace di fare in una fattoria.
Il topo ci pensò un poco e poi disse: «In verità non saprei fare nulla, ma conosco tante parole difficili e ve li potrei insegnare».
«Magnifico!» esclamò il fattore entusiasta. «Saremo una fattoria di letterati e, quando andrò al mercato, nessuno mi potrà gabbare con le chiacchiere avvocatesche».
La fattoressa Maria, moglie di Peppino, a quel punto si affacciò sulla soglia del magazzino dalle tegole rosse e, battendo un cucchiaio di legno su una vecchia e nera padella, annunciò che il pranzo era servito, per tutti quanti a secondo i propri gusti.
Da quel giorno, nella fattoria, è stata una continua festa e chi ha avuto la ventura di gustare i prodotti venduti da Peppino vi ha sentito un sapore indefinito di felicità.  








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