IL CONTRABBANDO DI ALCOOL NEL DOPOGUERRA
I militari, procedendo in punta di piedi, sbucarono in una vasta
grotta al centro della quale troneggiava un bidone di rame non più alto di un
uomo, ma che sembrava più imponente perché poggiava nei bordi su dei conci di
tufo disposti a semicerchio. In questo focolare improvvisato bruciavano grossi
ceppi di legna e le alte fiamme lambivano pure i fianchi del recipiente. Dal
coperchio del fusto si dipartiva un tubo orizzontale che dopo un paio di metri,
trasformato in una serpentina, spariva dentro un barile di latta (pieno di
acqua per raffreddare il vapore), lo attraversava e spuntava in basso come
rubinetto gocciolante dentro una damigiana di vetro (questo impianto in gergo
veniva chiamato sceccu – somaro – forse
perché continuamente in attività, giorno e notte).
L’uomo, che smuoveva con una specie di fiocina i tizzoni per tenere
viva la fiamma, non si rese conto della presenza degli intrusi in divisa finché
questi, pistola in mano, non gridarono: «Mani in alto! Arrenditi!»
(Da “STORIE DEL SECOLO BREVE” di Alberto Di Girolamo)
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